1938 - 1939

Medium / spiritista

Francisco Cândido Xavier

meglio conosciuto col nome di

 CHICO

ricevuto con psicografia

dallo spirito guida

Emmanuel / Publio Lentulo

 

 

Duemila anni fa…

 

Storia di Publio Lentulo e del cristianesimo nel I secolo

 

 

È il tempo di Gesù. A Gerusalemme s’insedia la famiglia del giovane senatore Publio Lentulo, nipote del marito della sorella della moglie di Pilato, provenienti da Roma per far cambiare aria alla figlia Flavia, malaticcia. I romani sono una classe nobile, ricca, imperiosa. I loro usi e costumi differiscono molto da quelli dei giudei. Anche la mentalità è agli antipodi. Presentare quella vita di opulenza, i loro pensieri, i dialoghi, le aspirazioni, intrecciate nel tempo della vita di Gesù, nonché ulteriori particolari di quel processo infamante, ci consentono di rendere quel quadro storico rivissuto con l’emozione di essere proiettati a …duemila anni fa.

Non è soltanto gli eventi del Golgota che con questo racconto acquistano nuovi elementi di valutazione, da ulteriori punti di vista, ma l’incastro dei vari personaggi storici legati all’evento-Gesù-Cristo, fanno di questa ulteriore immagine presentata di quei tempi, un’analisi aperta e razionale per capire la mentalità, gli intrighi, i pensieri, gli atteggiamenti, nonché i costumi e il linguaggio dell’epoca così lontana dall’odierno, nella quale sembra che così, nulla accade per caso, ma ciascuno di noi, sebbene libero nel suo cammino di vita, è comunque legato indissolubilmente alla storia dell’umanità secondo uno schema solo apparentemente casuale e dipendente dalle scelte di ciascuno, e pur tuttavia guidato invisibilmente secondo uno schema preordinato, al fine di una crescita spirituale sia di ogni singolo, ma che si ripercuote nella famiglia, nella comunità e, di conseguenza, nel luogo in cui si opera, poi nella stessa nazione fino a determinare la storia nell’intera umanità.

 

Casa del Nazareno Edizioni

Titolo originale: Ha dois mil anos...

 

Copyright© 1939 Federacào Espirita Brasileira

Av. L-2 Norte, Q. 603, Conjunto F

70830.030 Brasilia - DF – Brasile

 

Per l’edizione in lingua italiana

Copyright© 2005 Casas Fraternais “O Nazareno”

Rua Cesario Mota, 41

09010.100 Santo André - SP – Brasile

I diritti per la traduzione ed edizione in italiano di questa opera sono stati

concessi gratuitamente dalla Federalo Espirita Brasileira alla

Casas Fraternais “O Nazareno”

www.casadelnazareno.com

 

ISBN 85-86554-62-6

Traduzione dal portoghese:  Lela Mazzone

Revisione della traduzione:  Elena Batocchi

Citazioni da: La Sacra Bibbia - Nuova Riveduta

2a ed. Ginevra, Società Biblica di Ginevra, 1995

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

Al lettore

Nell’intimità di Emmanuel

 

Prima parte

Cap. I

Due amici

Cap. II

Uno schiavo

Cap. III

In casa di Pilato

Cap. IV

In Galilea

Cap. V

Il Messia di Nazarethh

Cap. VI

Il rapimento

Cap. VII

Le prediche del lago di Tiberiade

Cap. VIII

Nel grande giorno del Calvario

Cap. IX

La calunnia vittoriosa

Cap. X

Il discepolo della Samaria

 

Seconda parte

Cap. XI

La morte di Flaminio

Cap. XII

Ombre e nozze

Cap. XIII

Piani delle tenebre

Cap. XIV

Tragedie e speranze

Cap. XV

Nelle catacombe della fede e nel circo del martirio

Cap. XVI

Aurora del Regno del Signore

Cap. XVII

Le trame della sventura

Cap. XVIII

Nella distruzione di Gerusalemme

Cap. XIX

Amari ricordi

Cap. XX

Gli ultimi istanti di Pompei

 

Personaggi

 

Agrippa                           il figlio maggiore di Flaminio

Andrea di Giora              operaio di Gerusalemme, figlio di Giora e padre di Saul

Anna                                una serva galilea di Publio

Araxe                               mago egizio in Roma

Ateia                                serva di Plinio, traditrice

Aulo                                 capo dei servizi sulla galea triremi

Aurelia Lentulo               figlia di Salvio e di Fulvia

Barabba                          un giudicato reo di morte

Caio Grato                      romano di Cafarnao

Caio Pisone                    figura dell’epoca, citata

Calpurnia                        moglie di Flaminio

Caponio                          un vecchio centurione

Claudia Procula             moglie di Pilato, sorella di Fulvia

Clodio Varrò                   centurione in Roma

Comenio                         servo fedele di Publio

Cornelio Rufo                 comandante dei centurioni romani

Cusa                                uno dei funzionari di Erode Antipa

Domiziano                      figlio dell’imperatore Vespasiano

Emiliano Lucio                il protetto del questore Britannico, poi sposo ad Aurelia

Erode Antipa                  Tetrarca in Tiberiade

Eufanilo Druso               un senatore romano

Fabio Tullio                     servo fedele di Publio

Filopater                          un servo di Publio

Flaminio Severo             senatore patrizio in Roma, amico di Publio

Flavia Lentulo                figlia malaticcia di Publio e di Livia

Fulvia Procula                moglie di Salvio, sorella di Claudia

Livia                                 moglie di Publio

Luculo Quintilio              un centurione

Marco                              il figlio neonato di Publio

Massimo                         un anziano fedele servo in casa di Publio

Mercio                             un soldato agli ordini di Sulpicio

Parmenide                      uno schiavo anziano di Flaminio

Pilato                               governatore della Giudea

Plinio                                il figlio minore di Flaminio

Polibio                             un romano, aiutante del servizio d’ordine di Pilato

Pompilio Crasso             un senatore romano

Publio Lentulo                giovane senatore patrizio

Quirilio                             un liberto, di Roma, sottomesso a Flaminio

Salvio Lentulo                ex pretore, ora funzionario in Giudea, zio di Publio

Semele                            una serva galilea di Plinio, amica di Andrea

Seneca                           figura dell’epoca di Nerone, citata

Sergio Acerronio            musico e cantore di Roma

Sergio Sulpicio Galba    successore di Nerone

Simeone                         un vecchio samaritano, zio di Anna

Simone Barjona             l’apostolo Pietro

Sulpicio Tarquinio          pretoriano/littore in Gerusalemme fiduciario di Pilato

Tito                                  figlio dell’imperatore Vespasiano

Valerio Bruto                   capo servizio della casa di Flaminio

 

 

 

Luoghi citati

 

In Palestina: Betania / Cafarnao / Cesarea di Filippo / Esdrelon / Galilea / Galizia / Genezaret (lago) o ‘Mare di Galilea’ / Gerusalemme / Giaffa / Gherizim / Giudea / Hermon (monte) / Jope / Mizpa / Naim / Nazareth / Perea / Samaria / Sebaste / Sichem / Tiberiade

In Europa: Antipoli / Avenio / Arelate / Nizza / Marsiglia / Pompei / Tivoli

Quartiere di Roma: Aventino / Esquilino / Palatino

 

 

 

 

Al lettore

Nell’intimità di Emmanuel

 

Lettore, prima di oltrepassare la soglia di questa storia, è giusto che presentiamo alla tua curiosità alcune osservazioni di Emmanuel, l’ex senatore Publio Lentulo, discendente dell’orgogliosa “gens Cornelia”, ricevute da questo generoso spirito, all’interno del gruppo di studi spiritisti di Pedro Leopoldo, nello stato di Minas Gerais. Per mezzo di queste osservazioni conoscerai le prime parole dell’Autore, riguardo a quest’opera, e le sue più profonde impressioni, nel corso del lavoro che fu realizzato dal 24 ottobre 1938 al 9 febbraio 1939, secondo la disponibilità di tempo del suo medium e senza turbare le altre attività dello stesso Emmanuel, rivolte ai sofferenti, che frequentemente lo cercano, e alla capillare propaganda dello spiritismo cristiano nella Patria del Cruzeiro.

Il 7 settembre 1938, egli affermava in un breve messaggio diretto ai suoi amici incarnati: «Un giorno, se Dio me lo permetterà, vi parlerò dell’orgoglioso patrizio Publio Lentulo, perché possiate conoscere qualcosa delle dolorose esperienze di un’anima indifferente e ingrata. Speriamo nel tempo e nel permesso di Gesù».

Emmanuel non dimenticò la promessa. Infatti, il 21 ottobre dello stesso anno, tornò a ricordare in un altro comunicato familiare: «Se la bontà di Gesù ce lo permetterà, inizieremo la nostra opera fra pochi giorni, sperando che ci sia possibile scrivere i nostri ricordi del tempo in cui si verificò il passaggio del divino Maestro sulla Terra. Non so se riusciremo a realizzare tutto ciò tanto bene quanto è nella nostra intenzione, ma prima di tutto voglio riconfermare la mia assoluta fiducia nella misericordia del Padre nostro di infinita Bontà».

Infatti il 24 ottobre, il medium Xavier ricevette la prima pagina di questo libro, e il giorno dopo Emmanuel comunicò ancora: «Iniziamo, sotto la protezione di Gesù, un altro modesto lavoro. Ci conceda Dio di portarlo felicemente a conclusione. Potrete allora conoscere la grande debolezza del mio passato, sentendomi però confortato, con tutta la sincerità del mio cuore, davanti alla giuria delle vostre coscienze. Pregate con me, chiedendo a Gesù che io possa compiere questa fatica in modo che la giuria si ampli oltre il vostro ambiente, e la mia confessione sia una guida per tutti».

Per tutto il faticoso tempo della psicografia, l’Autore di questo libro non ha perso l’occasione di insegnare l’umiltà e la fede a quanti lo seguivano. Il 30 dicembre 1938 commentava in un nuovo affettuoso messaggio: «Vi ringrazio, figli miei, della preziosa collaborazione che mi avete dato. Per quanto possibile, ho cercato di adattare una storia così antica al gusto e alle espressioni del mondo moderno, ma nel raccontare la verità siamo portati a penetrare, prima di tutto, nell’essenza delle cose, dei fatti e degli insegnamenti. Per me questi ricordi sono stati molto piacevoli, ma anche molto amari. Piacevoli per il riaffiorare di ricordi affettuosi, ma profondamente dolorosi, considerando il mio cuore indurito, che non seppe approfittare del minuto radioso che era suonato sull’orologio della mia vita di spirito, 2000 anni fa. Voglia Gesù, che io possa raggiungere le finalità che mi sono proposto, presentando, in questo lavoro, non un qualche interessante ricordo riguardo la mia povera personalità, ma solamente un’esperienza per coloro che oggi lavorano nel campo e nella vigna del nostro divino Maestro».

Altre volte Emmanuel ha insegnato ai suoi compagni incarnati la necessità del nostro collegamento spirituale con Gesù nello svolgere ogni tipo di lavoro. Il 4 gennaio 1939 egli scriveva questa orazione, pensando ancora ai ricordi del lontano suo passato: «Gesù, Agnello misericordioso del Padre di tutte le grazie, sono passati duemila anni e la mia povera anima rivive ancora i suoi giorni amari e tristi! ... Che cosa sono due millenni, Signore, nell’orologio dell’eternità? Sento che la Tua misericordia ci risponde nelle sue ignote profondità. … Sì, il tempo è il grande tesoro dell’uomo, e venti secoli, come venti esistenze diverse, possono essere venti giorni di prove, di esperienze e di lotte redentrici. Solo la tua bontà è infinita! Solamente la tua misericordia può abbracciare tutti i secoli e tutti gli esseri, perché in te vive la gloriosa sintesi di tutta l’evoluzione terrestre, fermento divino di tutte le culture, anima sublime di tutti i pensieri. Davanti ai miei poveri occhi si delinea l’antica Roma delle mie afflizioni e cadute dolorose. … Mi sento ancora avvolto nella miseria delle mie debolezze e contemplo i monumenti delle vanità umane. … Espressioni politiche, che variano nelle loro caratteristiche di libertà e di forza, che detengono l’autorità e il potere, la ricchezza e l’intelligenza, grandezze effimere che durano appena quanto un giorno che fugge! ... Troni e porpore, manti preziosi degli onori terreni, toghe dell’errata giustizia umana, parlamenti e decreti giudicati irrevocabili! ... In silenzio, Signore, tu vedesti la confusione che si era instaurata tra gli uomini inquieti, e con lo stesso disinteressato amore salvasti le creature continuamente, nel momento doloroso delle rovine supreme. … Porgesti la Tua mano misericordiosa e immacolata ai popoli più umili e più deboli, mortificasti la bugiarda scienza di tutti i tempi, umiliasti coloro che si ritenevano grandi e potenti. … Sotto il tuo sguardo pieno di compassione, la morte aprì le sue porte d’ombra, e le false glorie del mondo furono distrutte nel vortice delle ambizioni, riducendo tutte le vanità a un cumulo di cenere! ... Davanti alla mia anima sorgono le reminiscenze delle eleganti costruzioni sulle celebri colline; vedo il Tevere che passa, trascinando con sé i detriti della grande Babilonia imperiale, gli acquedotti, i marmi preziosi, le terme che sembravano indistruttibili. … Vedo ancora le vie movimentate, dove una plebe miserabile aspetta le grazie dei grandi signori, le elemosine di grano, i brandelli di panno per difendere dal freddo le nude carni. I circhi traboccano di gente… Ci sono gli aristocratici patrizi che osservano le eleganti prove del Campo di Marte, e in ogni luogo, dalle vie più umili fino ai palazzi più sontuosi, si parla di Cesare, l’Augusto! ... Dentro questi ricordi io passo, Signore, in mezzo a cenci e ricchezze, col mio miserabile orgoglio! Attraverso ì pesanti veli delle mie ombre, neppure io potevo vederTi nell’Alto, dove custodisci il Tuo trono di grazie inesauribili. … E mentre il grande Impero si disfaceva nelle sue lotte preoccupanti, Tu serbavi il silenzio nel Tuo cuore, ed io, come gli altri, non capivo che Tu vigilavi! Tu permettesti che la Babele romana si elevasse molto in alto; ma quando vedesti che era minacciata la stabilità stessa della vita sul pianeta, dicesti: “Basta! È giunto il momento di agire nel campo della Verità”. E i grandi monumenti, con le statue degli antichi dèi, rovinarono giù dai loro meravigliosi piedistalli! Un soffio di morte spazzò le regioni infestate dal virus dell’ambizione e dell’egoismo sfrenato, si spopolò così la grande metropoli del peccato. Furono distrutti i circhi dei divertimenti, caddero i palazzi, annerirono i marmi preziosi. … Bastò una Tua parola, Signore, perché i grandi signori tornassero sulle rive del Tevere, come schiavi miserabili! ... Camminavamo, così, dentro la nostra notte, fino al giorno in cui una nuova Luce nacque nella nostra coscienza. È stato necessario che passassero secoli per imparare le prime lettere della Tua scienza infinita del perdono e dell’amore! E siamo qui, Gesù, per lodare la Tua grandezza! Fa’ che possiamo ricordarti a ogni passo, udire la Tua voce a ogni suono che ci distragga dal cammino, per poter fuggire dall’ombra dolorosa. … Stendi le Tue mani verso di noi e parlaci ancora del Tuo regno! Abbiamo una sete immensa di quell’Acqua eterna della vita, di cui parlasTi nella Tua lezione alla samaritana. … Esercito di operai del Tuo Vangelo, noi ci muoviamo secondo il tuo volere, soave e sacrosanto. Proteggici, Signore, e non toglierci dalle spalle la luminosa e redentrice croce, ma aiutaci a percepire, nei lavori di ogni giorno, la Luce eterna e immensa del Tuo regno di pace, di concordia e di sapienza, sulla nostra strada di lotta, di solidarietà e di speranza…»

Il giorno 8 febbraio, vigilia del termine di ricevimento di questo libro, Emmanuel ringraziò dell’aiuto i suoi compagni incarnati con un comunicato familiare, del quale citiamo alcune frasi: «Amici miei, Dio vi aiuti e vi ricompensi. Il nostro modesto lavoro sta per finire. Restano ancora poche pagine, ed io vi ringrazio di cuore. Re-incontrando gli spiriti amici delle epoche passate, sento il cuore soddisfatto e confortato nel costatare la dedizione di tutti, ben fermi al pensiero dell’evoluzione, sia in avanti sia in alto, poiché non è senza motivo che oggi lavoriamo nella stessa officina con sforzo e buona volontà. Gesù ricompenserà la parte di sforzo fraterno e sincero che mi avete dato, e la mia orazione di sempre è che la Sua infinita misericordia vi benedica».

Qui rimangono alcune annotazioni intime di Emmanuel, fornite nel ricevimento di questo libro. L’umiltà di questo generoso spirito dimostra che nel piano invisibile è necessario, per le realizzazioni, anche un proprio sforzo di pazienza e di fede.

Le note familiari dell’Autore sono un invito affinché tutti noi riusciamo a pregare, lavorare e sperare in Gesù Cristo, senza incertezze nella lotta che la bontà divina ci offre per il nostro riscatto, nel cammino della redenzione.

 

Pedro Leopoldo, 2 marzo 1939

La Casa Editrice

 

 

Prima parte

 

Cap. I

DUE AMICI

1.                   Gli ultimi chiarori del giorno erano caduti sui tetti romani. Le acque del Tevere, lambendo le falde dell’Aventino, avevano imprigionato gli ultimi riflessi del crepuscolo, mentre nelle vie strette passavano lettighe veloci, sostenute da schiavi agili e forti. Nuvole pesanti si accumulavano nell’atmosfera, annunziando prossimi acquazzoni, e le ultime finestre delle residenze esclusive e di quelle popolari si chiudevano rumorosamente al soffio dei primi venti della notte.

2.                Tra le costruzioni sobrie ed eleganti che mostravano marmi preziosi ai piedi della collina, un edificio richiamò l’attenzione del forestiero per la singolarità delle sue colonne severe e maestose. Uno sguardo alla facciata con il suo imponente aspetto artistico indicava la posizione del proprietario. Era, infatti, la residenza del senatore Publio Lentulo Cornelio, uomo ancora giovane che, secondo il costume dell’epoca, esercitava nel Senato funzioni legislative e giuridiche, in accordo con i diritti che gli competevano come discendente di un’antica famiglia di senatori e consoli della Repubblica.

3.                L’Impero, fondato da Augusto, aveva limitato i poteri del Senato, i cui membri non esercitavano nessuna influenza diretta sulle decisioni private del governo imperiale, ma avevano mantenuto l’eredità dei titoli e la dignità delle famiglie patrizie, stabilendo le più nette linee di separazione delle classi nella scala sociale. Erano le ore 19 di un giorno di maggio dell’anno 31 della nostra era. Publio Lentulo, in compagnia del suo amico Flaminio Severo, sdraiato sul triclinio, terminava di cenare, mentre Livia, la moglie, dava ordini domestici a una giovane schiava etrusca.

4.                Il padrone di casa era un uomo relativamente giovane che dimostrava meno di trent’anni, nonostante il suo profilo orgoglioso e austero e la tunica con l’alto bordo di porpora imponessero un certo rispetto a quanti lo avvicinavano. Egli contrastava con l’amico, il quale vestiva le stesse vesti di senatore e lasciava intravedere la sua età matura, illuminata da capelli precocemente bianchi, segno di bontà ed esperienza di vita.

5.                Lasciando la giovane signora intenta alle cure domestiche, i due si diressero verso il peristilio per prendere un po’ d’aria nella notte calda, per quanto l’aspetto minaccioso del cielo preannunciasse pioggia imminente.

6.                «La verità, mio caro Publio…», esclamò Flaminio, preoccupato, «…è che tu dimagrisci a vista d’occhio. Si tratta di una situazione che è necessario modificare senza perdere tempo; sei già ricorso a tutti i medici nel caso della tua cara figlia?»

7.                «Infelicemente», rispose il patrizio con amarezza. «Ho già fatto ricorso a tutti i mezzi alla mia portata. Anzi, proprio in questi ultimi giorni, la mia povera Livia l’ho portata a distrarsi nella nostra casa di campagna a Tivoli, cercando uno dei migliori medici della città, che ha affermato trattarsi di un caso senza rimedio per la scienza dei nostri giorni. Il medico non osa formulare alcuna diagnosi, certamente per compassione verso la piccola malata e per la nostra disperazione di genitori; ma secondo le nostre osservazioni, crediamo che il medico di Tivoli pensi si tratti di un caso di lebbra».

8.                «Ma è un’idea azzardata e assurda!»

9.                «Però, mentre non nutriamo nessun dubbio per quanto riguarda le nostre parentele, tu sai che Roma è piena di schiavi di ogni regione del mondo, e sono essi lo strumento dei nostri lavori di ogni giorno».

10.           «È vero...» concordò Flaminio con amarezza.

11.           Un’ombra di cupe prospettive traspariva sulla fronte dei due amici, mentre le prime gocce di pioggia esaudivano la sete delle piante di rose fiorite che ornavano le colonne eleganti e chiare.

12.           «E il piccolo Plinio?» domandò Publio, come desideroso di dare una direzione nuova alla conversazione.

13.           «Lui, come tu sai, cresce sano, dimostrando ottime disposizioni. Calpurnia rimane ogni momento disorientata per soddisfare i capricci dei suoi dodici anni non ancora compiuti. A volte è caparbio e ribelle, controbatte le osservazioni del vecchio Parmenide, si applica negli esercizi di ginnastica solo quando gli piace; però ha una grande predilezione per i cavalli. Pensa, che in un momento di esultanza, propria dell’età, sfuggendo a ogni vigilanza del fratello, ha preso parte a una corsa di bighe realizzata negli allenamenti comuni di una scuola sportiva di Campo di Marte, ottenendo uno dei piazzamenti di maggior importanza. Quando osservo i miei due figli, mi ricordo sempre della piccola Flavia Lentulo, perché tu conosci bene i miei progetti per il futuro, nel senso di stringere gli antichi legami che uniscono le nostre famiglie».

14.           Publio ascoltava l’amico in silenzio, come se l’invidia gli ferisse il cuore affettuoso di padre. «Tuttavia», rispose, «nonostante i nostri progetti, gli auguri non favoriscono le nostre speranze, perché la verità è che la mia povera figlia, pur con tutte le nostre attenzioni, sembra sempre più una di quelle povere creature abbandonate nel Velabro»[1].

15.           «Ma con tutto ciò, dobbiamo aver fiducia nella magnanimità degli dèi...»

16.           «Degli dèi?» ripeté Publio con malcelato scoramento. «A proposito di questo rimedio misterioso, ho pensato a mille teorie nella mente sconvolta. Molto tempo addietro, in visita a casa tua, ebbi occasione di conoscere più da vicino il tuo vecchio liberto[2] greco. Parmenide mi parlò della sua gioventù e della sua permanenza in India, raccontandomi delle credenze degli indiani delle loro misteriose idee sull’anima. Tu credi che ognuno di noi possa ritornare, dopo la morte, al teatro della vita, in altri corpi?»

17.           «In nessun modo», replicò Flaminio, energicamente. «Parmenide, nonostante il suo carattere davvero raro, porta molto lontano le sue divagazioni spirituali».

18.           «Però, amico mio, comincio a pensare che egli abbia ragione. Come potremmo spiegare la diversità delle sorti in questo mondo? Perché la ricchezza dei nostri quartieri aristocratici e le miserie dell’Esquilino? La fede nel potere degli dèi non riesce a spiegare questi problemi angoscianti. Guardando la mia sventurata figlioletta con le carni lacerate e che si disfano, sento che il tuo schiavo ha ragione. Che cosa avrebbe mai commesso la piccola Flavia, nei suoi sette anni non ancora compiuti, per meritare un così terribile castigo da parte delle potestà celestiali? Quale gioia potrebbero trarre le nostre divinità dai singhiozzi di una bambina e dalle lacrime dolorose che ci distruggono il cuore? Non sarebbe più comprensibile e accettabile credere che siamo venuti da lontano con i nostri debiti verso le autorità del cielo?»

19.           Flaminio Severo scosse la testa, come chi desidera allontanare un dubbio ma, riprendendo la sua espressione abituale, osservò con decisione: «Fai male a coltivare simili pensieri nel tuo intimo. Nei miei quarantacinque anni di esistenza, non conosco fede più preziosa della nostra nel venerabile culto degli antenati. È necessario che tu consideri che la diversità delle posizioni sociali è un problema che nasce dalla nostra organizzazione politica, l’unica che ha stabilito una netta divisione tra i valori e gli sforzi di ognuno; quanto alla questione delle sofferenze, dobbiamo ricordare che gli dèi possono mettere alla prova le nostre forze morali, con le più gravi minacce alla fibra del nostro animo, senza che noi dobbiamo adottare gli assurdi princìpi degli egiziani e dei greci; princìpi, anzi, che li resero prigionieri e li ridussero all’annientamento. Hai offerto qualche sacrificio nel tempio, dopo così angosciosi dubbi?»

20.           «Ho sacrificato agli dèi secondo i nostri usi» rispose Publio, umilmente, «e nessuno più di me è orgoglioso delle gloriose virtù delle nostre tradizioni familiari. Tuttavia le mie osservazioni non sorgono solo a proposito della mia figlioletta; è da molti giorni che mi sento torturato dallo spaventoso enigma di un sogno».

21.           «Un sogno? Come può la fantasia scuotere in questo modo la fibra di un patrizio?»

22.           Publio Lentulo recepì la domanda immerso in profondi tormenti. I suoi occhi fissi sembravano divorare un paesaggio che il tempo aveva allontanato col passar degli anni. La pioggia, ora con scrosci violenti, continuava a cadere, provocando grandissimi straripamenti dell’impluvio, e raccogliendosi nella piscina che ornava il peristilio.

23.           I due amici si erano ritirati su un grande panchetto di marmo, sdraiandosi sui cuscini orientali che lo ricoprivano, continuando nell’amichevole conversazione. «Esistono sogni…», proseguì Publio, «…che si distinguono dalla fantasia. Tale è la loro manifestazione di realtà irrefutabile. Stavo tornando da una riunione al Senato dove avevamo discusso un problema di profonda delicatezza morale, quando mi sentii dominato da un inspiegabile abbattimento.

24.           Andai a letto presto e, quando mi sembrò di ravvisare vicino a me l’immagine di Temide, che custodiamo sull’altare domestico, considerando le singolari obbligazioni di chi esercita le funzioni della giustizia, sentii che una forza straordinaria mi serrava le palpebre stanche e doloranti. Ma intanto vedevo altri luoghi, riconoscendo paesaggi familiari al mio spirito, dei quali mi ero interamente dimenticato.

25.           Realtà o sogno non saprei dire, ma mi vidi ornato delle insegne da console al tempo della Repubblica. Mi sembrava di essere retrocesso all’epoca di Lucio Sergio Catilina[3], poiché lo vedevo al mio fianco, come pure Cicerone, i quali mi si presentavano come due personificazioni, L’una del male e l’altra del bene. Mi sono sentito legato al primo con lacci forti e indistruttibili, come se stessi vivendo il tempo tenebroso della sua congiura contro il Senato e stessi partecipando con lui alla trama ignominiosa che minacciava la più interna delle organizzazioni della Repubblica. Appoggiavo i suoi disegni criminosi aderendo a tutti i suoi progetti con la mia autorità amministrativa, assumendo la direzione di riunioni segrete, dove decretai nefandi assassinii... In un istante rivissi tutta la tragedia, sentendo che le mie mani erano bagnate del sangue e delle lacrime di innocenti. Contemplai, atterrito, come se stessi involontariamente retrocedendo a un passato oscuro e doloroso, la rete di infamie perpetrate con la rivoluzione, soffocata in tempo dall’influenza di Cicerone; e il particolare più terribile è che io avevo assunto uno dei ruoli più importanti e decisivi nell’ignominia... Tutti i quadri più turpi del tempo passarono, così, davanti ai miei occhi impauriti...

26.           Nondimeno, quello che più mi umiliava di queste visioni del vergognoso passato - come se la personalità attuale si vergognasse di simili ricordi - è che mi servivo dell’autorità e del potere per esercitare, approfittando della situazione, le più crudeli vendette contro i nemici personali, contro i quali emettevo ordini di cattura sotto le più terribili accuse. E al mio cuore crudele non bastava rinchiudere i nemici nelle galee infette, con la conseguente separazione dagli affetti più cari e più dolci della famiglia. Ordinai che l’esecuzione di molti avvenisse nell’oscurità della notte e, come se non bastasse, ordinai anche che a molti avversari politici fossero strappati gli occhi, in mia presenza, osservando i loro tormenti con la freddezza brutale delle vendette crudeli... Guai a me, che spargevo desolazione e tri­stezza in tante anime, poiché un giorno essi si ricordarono di eliminare l’aguzzino crudele!

27.           Dopo tutta una serie di scandali che mi allontanarono dal Consolato, giunse la fine delle mie azioni infami e miserabili, davanti a sbirri inflessibili che mi condannarono al terribile supplizio dello strangolamento, e provai allora tutti i tormenti e le angustie della morte.

28.           La cosa più straordinaria, comunque, è che rividi l’inenarrabile momento del mio passaggio attraverso le acque scure dell’Acheronte, quando mi sembrò di essere disceso nei luoghi tenebrosi dell’Averno, dove non penetravano le luci degli dèi. La grande moltitudine di vittime si avvicinò quindi alla mia anima angustiata e sofferente, reclamando giustizia e riparazione ed esplodendo in grida e singhiozzi che finivano nel profondo del mio cuore.

29.           Per quanto tempo rimasi così prigioniero di questo martirio indicibile? Non so dirlo. Mi ricordo appena di aver intravisto la figura celeste di Livia che, in mezzo a questo vortice di terrori, mi tendeva le mani splendenti e caritatevoli. Mi sembrò che la mia sposa mi fosse familiare da epoche remotissime, poiché non esitai un istante a prendere le sue mani soavi che mi condussero in un tribunale, dove si allineavano figure strane e venerande. Rispettabili capelli bianchi incorniciavano il volto sereno di questi giudici del cielo, rappresentanti degli dèi per giudicare gli uomini della Terra. L’atmosfera era caratterizzata da una straordinaria leggerezza, piena di luci gradevoli, che illuminavano, davanti a tutti i presenti, i miei pensieri più segreti.

30.           Livia doveva essere il mio angelo custode in questo consiglio di magistrati intoccabili, perché la sua mano destra rimaneva sulla mia testa, come per impormi rassegnazione e serenità nell’ascoltare le sentenze supreme. Inutile dirti della mia sorpresa e del mio timore, davanti a questo tribunale che non conoscevo, quando la figura di quello che mi sembrò la sua autorità centrale, mi rivolse la parola, esclamando:

31.           “Publio Lentulo, la giustizia degli dèi, nella sua misericordia, stabilisce il tuo ritorno al vortice delle lotte del mondo, perché tu possa lavare le macchie delle tue colpe nelle lacrime redentrici. Vivrai in un’epoca di meravigliosi fulgori spirituali, lottando con ogni genere di situazioni e difficoltà, nonostante la culla d’oro che ti accoglierà quando nascerai, affinché tu possa formare, nel dolore che purifica e rigenera, la tua coscienza ottenebrata... Beato te se saprai approfittare dell’opportunità benedetta della riabilitazione attraverso la rinuncia e l’umiltà... È stato deciso che tu sia ricco e potente, affinché, col tuo distacco dai cammini umani, al momento giusto tu possa essere un elemento prezioso per i tuoi mentori spirituali. Avrai l’intelligenza e la salute, la fortuna e l’autorità, quali mezzi per la rigenerazione integrale della tua anima, poiché verrà il momento in cui sarai spinto a disprezzare tutte le ricchezze e tutti i valori sociali, se saprai preparare il cuore per il nuovo sentiero di amore e umiltà, di tolleranza e perdono, che sarà strappato in pochi anni alla faccia oscura della Terra! La vita è un gioco di circostanze che ogni spirito interessato al bene deve affrontare nel meccanismo del suo destino. Approfitta, quindi, di queste possibilità che la misericordia degli dèi pone al servizio della tua redenzione. Non trascurare la chiamata della verità quando suonerà l’ora della testimonianza e delle rinunce santificateci... Livia verrà con te per le vie dolorose del perfezionamento, e in lei troverai il braccio amico e protettore nei giorni delle prove difficili e aspre. Essenziale è la tua fermezza d’animo nel cammino irto di difficoltà, purificando la tua fede e le tue opere, per riparare a un passato delittuoso e oscuro!...”»

32.           In quel momento, la voce solenne del patrizio diventò angosciata e sofferente. Amari e intimi turbamenti gli si addensarono nel cuore, tormentato da un invincibile sconforto.

33.           Flaminio Severo lo ascoltava con interesse e attenzione, cercando il mezzo più facile per allontanare da lui, impressioni così penose. Sentiva l’impulso di deviargli il corso dei pensieri, strappandogli lo spirito da quel mondo di emozioni non appartenenti alla sua formazione intellettuale, appellandosi alla sua educazione e al suo orgoglio; ma, allo stesso tempo, non riusciva a dissipare i propri intimi dubbi di fronte a quel sogno, la cui chiarezza e la cui apparenza di realtà lo lasciavano perplesso. Comprendeva che prima era necessario ristabilire la sua forza d’animo, comprendendo che la logica della delicatezza avrebbe dovuto essere lo scudo delle sue parole, per un chiarimento con l’amico, che egli considerava più di un fratello. Fu così che, appoggiando la mano esile e bianca sulle sue spalle, chiese con amabile dolcezza: «E dopo, che cosa hai visto?»

34.           Publio Lentulo, sentendosi compreso, recuperò nuove energie e continuò: «Dopo le esortazioni di quel giudice severo e venerando, non vidi più il volto di Livia al mio fianco, ma altre graziose creature avvolte in pepli che mi sembravano di neve brillante, confortandomi il cuore con i loro cordiali e dolci sorrisi. Rispondendo alla loro gentile chiamata, sentii che il mio spirito ritornava alla Terra.

35.           Osservai Roma che già non era più la città del mio tempo; con un alito di bellezza si stava ricostruendo la sua parte antica; notai infatti l’esistenza di nuovi circhi, teatri sontuosi, terme eleganti e palazzi incantevoli, che i miei occhi non avevano conosciuto prima.

36.           Ebbi occasione di vedere mio padre tra i suoi papiri e le sue pergamene che studiava i processi del Senato, come oggi accade a noi; dopo aver implorato la benedizione degli dèi, davanti all’altare della nostra casa, provai una sensazione di angoscia nel profondo dell’anima. Mi sembrò di aver sofferto di una dolorosa commozione cerebrale e rimasi addormentato in uno stordimento indefinibile...

37.           Non so descrivere letteralmente quello che accadde, ma mi svegliai con la febbre alta, come se quella digressione del pensiero, attraverso i mondi di Morfeo, avesse arrecato al mio corpo una dolorosa sensazione di stanchezza. Ignoro il tuo giudizio di fronte a queste confidenze amare e penose, ma desidererei che tu mi spiegassi qualcosa a questo riguardo».

38.           «Spiegarti?» rispose Flaminio cercando di dare alla sua voce un tono di energico convincimento. «Tu ben sai il rispetto che mi ispirano gli auguri del tempio, ma alla fine, quello che ti è successo non può passare semplicemente come un sogno, né si ignori come dobbiamo temere l’immaginazione dentro le nostre prospettive di uomini pratici. Per aver eccessivamente sognato, gli illustri ateniesi si trasformarono in miserabilissimi schiavi, stabilendo l’obbligo da parte nostra di riconoscere la bontà degli dèi per averci concesso il senso della realtà, necessario alle nostre conquiste e ai nostri trionfi. Sarebbe giusto che tu rinunciassi all’amore di te stesso e alla posizione della tua famiglia, solo perché trascinato dalla fantasia?»

39.           Publio lasciò che l’amico parlasse a lungo sull’argomento, accogliendo le sue esortazioni e i suoi consigli, ma dopo, prendendogli le nobili mani, esclamò, angosciato: «Amico mio, sarei indegno della magnanimità degli dèi se mi lasciassi condurre dall’estro degli avvenimenti. Un semplice sogno non mi darebbe motivo di così gravi pensieri, ma la verità è che ancora non ti ho raccontato tutto».

40.           Flaminio Severo, corrugando la fronte, aggiunse: «Ancora non hai detto tutto? Che cosa significano queste asserzioni?»

41.           Nel suo animo generoso, un dubbio angoscioso si era già insinuato con la descrizione minuziosa di quel sogno impressionante e doloroso, ed era con grande sforzo che il suo cuore fraterno si agitava per nascondere all’amico le penose emozioni che intimamente lo tormentavano.

42.           Publio, muto, lo prese sottobraccio, conducendolo nel porticato della sala di rappresentanza, situata in un angolo del peristilio, vicino all’altare domestico dove venivano officiati i più puri e i più santi affetti della famiglia. I due amici entrarono nello studio e nella sala dell’archivio a indicare il loro profondo e rispettoso raccoglimento. In un angolo erano disposti in bell’ordine numerosi papiri e pergamene, mentre nelle gallerie campeggiavano i ritratti di cera di antenati e parenti della famiglia.

43.           Publio Lentulo aveva gli occhi umidi e la voce tremante, come se in quei momenti lo dominassero profonde emozioni. Avvicinatosi a un’immagine di cera, fra le molte lì allineate, attirò l’attenzione di Flaminio con una semplice domanda: «Lo riconosci?»

44.           «Sì», rispose l’amico impallidendo, «riconosco questa fisionomia. Si tratta di Publio Lentulo Sura, il tuo bisnonno paterno, strangolato quasi un secolo fa nella rivolta di Catilina».

45.           «Sono precisamente novantaquattro anni che il padre di mio nonno fu eliminato in quelle terribili circostanze», esclamò Publio con enfasi, come di chi sia in possesso di tutta la verità. «Guarda bene i lineamenti di questa figura ed osserva la somiglianza perfetta che esiste tra me e questo lontano antenato. Non starà forse qui la chiave del mio doloroso sogno?»

46.           Il nobile patrizio osservò la notevole somiglianza tra la fisionomia di quella persona morta e i lineamenti dell’amico presente. I suoi dubbi raggiunsero il colmo, di fronte a quelle allucinanti dimostrazioni. Stava per chiarire l’argomento, parlando profusamente della questione delle origini e dell’ereditarietà, quando l’interlocutore, come se indovinasse nei minimi particolari i suoi dubbi, anticipò il giudizio, esclamando: «Io pure sono stato partecipe di tutti i dubbi che tormentano la tua mente, lottando contro la ragione, prima di accettare la tesi della nostra conversazione di questa notte. La somiglianza, anche la più grande, con l’immagine, è naturale ed è possibile; questo però non mi soddisfa pienamente. In questi ultimi giorni ho mandato uno dei servi della nostra casa a Taormina, nei cui dintorni possediamo un’antica abitazione dove era custodito l’archivio del defunto che ho fatto trasportare qui».

47.           E con il gesto di chi si sente sicuro delle sue idee, rigirò tra le mani nervose vari documenti, esclamando: «Guarda questi papiri! Sono scritti del mio bisnonno riguardo ai suoi progetti nel Consolato. Ho trovato in questa montagna di pergamene diversi scritti di sentenze di morte, che avevo già osservato in alcune digressioni del mio inesplicabile sogno... Confronta queste lettere! Non somigliano alle mie? Che cosa potremmo desiderare di più oltre a queste prove calligrafiche? Da molti giorni vivo questo misterioso dilemma nell’intimo del mio cuore... Sarei io, quel Publio Lentulo Sura, reincarnato?»

48.           Flaminio Severo reclinò il capo, con evidente inquietudine e indicibile amarezza. Numerose erano le prove della chiarezza e della logica dell’amico. Tutto concorreva perché il suo castello di spiegazioni crollasse con grande fragore, di fronte ai fatti consumati, ma avrebbe cercato nuove forze, per salvaguardare il patrimonio delle credenze e delle tradizioni dei suoi antenati, tentando di illuminare lo spirito del compagno di tanti anni. «Amico mio», mormorò abbracciandolo, «sono d’accordo con te di fronte a queste testimonianze allucinanti. Il fatto è di quelli che commuovono lo spirito più freddo, ma non possiamo mettere a repentaglio le nostre responsabilità sull’incerta via delle prime impressioni. Se questa ci sembra la realtà, esistono le realtà immediate e positive che aspettano il nostro concorso attivo. Prendendo in esame le tue considerazioni e credendo anche nella veridicità dei fenomeni, non credo che la nostra ragione debba sprofondare in questi argomenti misteriosi e trascendentali. Sono contrario a queste conclusioni, certamente in virtù delle mie esperienze della vita pratica. Concordando, in modo generale, con il tuo punto di vista, ti raccomando di non divulgarlo oltre la cerchia della nostra intimità fraterna, anche perché, nonostante la coerenza dei concetti con cui mi dai prova della tua lucidità, ti sento stanco e abbattuto in questo turbine di travagli dell’ambiente domestico e dell’ambiente sociale».

49.           Fece una pausa durante le sue commosse osservazioni, come se stesse riflettendo per cercare un efficace mezzo con cui rimediare alla situazione, e suggerì con dolcezza: «Potresti andare a riposarti per un po’ in Palestina, portando anche la famiglia per questo periodo di riposo. Ci sono regioni dal clima meraviglioso che potrebbero forse favorire la guarigione della tua cara figlioletta e ristabilire allo stesso tempo le tue forze fisiche. E chissà? Dimenticheresti il tumulto della città, ritornando più tardi in mezzo a noi con nuove energie. L’attuale Procuratore della Giudea è un nostro amico. Potremmo conciliare vari problemi di nostro interesse e di alcune nostre funzioni, per quanto non mi sarebbe difficile ottenere dall’imperatore una dispensa dai tuoi lavori nel Senato, in modo che tu possa continuare a ricevere i sussidi dello Stato finché rimani in Giudea. Che cosa pensi a questo proposito? Potresti partire tranquillo, perché io mi prenderei la responsabilità della direzione di tutti i tuoi interessi qui a Roma, occupandomi con zelo dei tuoi affari e delle tue proprietà».

50.           Publio lasciò trasparire dallo sguardo un barlume di speranza e, come se stesse esaminando intimamente tutte le ragioni favorevoli o contrarie per la realizzazione del progetto, disse: «L’idea è provvidenziale e generosa, ma la salute di Livia non mi permette di prendere subito una decisione risolutiva».

51.           «Perché?»

52.           «Aspettiamo, fra poco, il secondo figlio in casa nostra».

53.           «E per quando aspetti il lieto evento?»

54.           «Tra sei mesi».

55.           «Ti interessa il viaggio dopo il prossimo inverno?»

56.           «Sì».

57.           «Va bene: allora tu sarai in Giudea esattamente da qui a un anno».

58.           I due amici riconobbero che la conversazione si era molto prolungata. L’acquazzone era cessato. Il firmamento splendeva di costellazioni terse e limpide. Era già cominciato il traffico delle carrozze rumorose con le grida poco amabili dei conducenti, poiché nella Roma imperiale le ore del giorno erano riservate, in modo assoluto, al traffico delle portantine dei patrizi e al movimento dei pedoni.

59.           Flaminio si congedò commosso dall’amico, accomodandosi nella sua sontuosa lettiga, con l’aiuto dei suoi schiavi agili ed erculei.

60.           Publio Lentulo, appena fu solo, si diresse verso il terrazzo, dove spiravano rapidi venticelli della notte alta.

61.           Al chiarore della Luna piena contemplò le case romane sparse sulle colline sacre della gloriosa città. Il suo sguardo spaziò sul panorama notturno, mentre la sua mente considerava i problemi profondi della vita e dell’anima. Poi, triste, reclinò il capo. Un’invincibile tristezza dominava il suo animo tenace e sensibile, mentre un’onda di orgoglio e amor proprio tratteneva le intime lacrime del suo cuore, tormentato da angosciosi pensieri.

 

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Cap. II

UNO SCHIAVO

1.                Fin dai primi tempi dell’Impero, la donna romana si era data alla dissipazione e al lusso sfrenato, a scapito dei sacri obblighi della famiglia e della casa. La facilità nell’acquisto di schiavi da impiegare sia nei servizi più pesanti sia nei compiti più delicati della conduzione domestica, inclusi quelli della propria educazione e istruzione, aveva provocato una grande caduta morale nell’equilibrio delle famiglie patrizie, giacché la diffusione degli articoli di lusso provenienti dall’Oriente, insieme all’oziosità, avevano indebolito le fibre di energia e di dinamismo delle matrone romane, spingendole verso le frivolezze delle vesti, verso gli intrighi amorosi, quale preludio della più completa disorganizzazione della famiglia, trascurandone le tradizioni più apprezzabili.

2.                Nonostante tutto, alcune case avevano resistito eroicamente a questa invasione di forze perverse e disgregatrici. C’erano signore, a quel tempo, che si sentivano orgogliose del modello delle antiche virtù familiari di quante le avevano precedute nell’opera costruttiva delle generazioni di tante anime sensibili e nobili.

3.                Le spose di Publio e di Flaminio facevano parte di questo numero. Creature intelligenti e coraggiose, entrambe si sottraevano all’onda corruttrice dell’epoca, rappresentando due simboli di buon senso e semplicità. Le ultime manifestazioni dell’inverno già erano scomparse. Era l’anno 32, e alla festosa terra primaverile tornava a donare un’immensa coppa di fiori e profumi.

*

4.                In una giornata luminosa e assolata incontriamo Livia e Calpurnia, in casa della prima, in piacevole conversazione, mentre due ragazzini disegnavano distrattamente in un angolo della sala. Le due signore organizzavano i preparativi di un viaggio, riparando i difetti di alcuni tessuti di lana e scambiandosi impressioni intime, sottovoce, in un tono amichevole e discreto.

5.                A un certo momento i due bambini raggiunsero una delle stanze vicine, mentre Livia richiamò l’attenzione dell’amica con queste parole: «I tuoi piccoli non hanno oggi i soliti esercizi?»

6.                «No, mia cara Livia» rispose Calpurnia con delicatezza fraterna, indovinando il suo pensiero. «Non solo Plinio ma anche Agrippa hanno deciso di dedicare la giornata di oggi alla piccola malata. Indovino i tuoi dubbi e i tuoi scrupoli materni, considerando la buona salute dei nostri bambini, ma i tuoi timori sono infondati...»

7.                «Sanno tuttavia gli dèi come ho vissuto in questi ultimi tempi, da quando ho conosciuto l’opinione franca e sincera del medico di Tivoli. Come tu sai, per lui il caso della mia bambina è un male doloroso e senza cura. Da quel momento, tutta la mia vita è stata una serie di preoccupazioni e tormenti. Ho preso tutti i provvedimenti affinché la piccola rimanga al di fuori della cerchia delle nostre amicizie, obbedendo alle esigenze dell’igiene e alla necessità di circoscrivere, con ogni nostro sforzo, la terribile malattia».

8.                «Ma chi ti dice che il male è incurabile? Forse che una simile opinione proviene dalla parola infallibile degli dèi? Non sai quanto è ingannevole la scienza degli uomini? Tempo addietro, entrambi i miei bambini si ammalarono, con una febbre pericolosa e devastante. Chiamati i medici, notai che si avvicendavano per salvare i due infermi, senza risultati apprezzabili. Dopo, riflettei meglio sulla provvidenza dei cieli e immediatamente offrii un sacrificio nel tempio di Castore e Polluce, salvandoli da sicura morte. Grazie a questa provvidenza, oggi posso osservarli sorridenti e felici. Ora che non hai solo la piccola Flavia, ma anche il piccolo Marco, ti consiglio di fare lo stesso, ricorrendo agli dèi gemelli».

9.                «È vero, mia buona Calpurnia, lo farò prima della nostra prossima partenza».

10.           «E parlando del viaggio, come ti senti di fronte a questo cambiamento imprevisto?»

11.           «Tu sai bene che farò di tutto per la tranquillità di Publio e per la nostra pace domestica. Da molto tempo vedo Publio abbattuto e sofferente a causa delle sue lotte impegnative al servizio dello Stato. Gioviale ed espansivo, da un po’ di tempo è diventato taciturno e irascibile. Si adira con tutti e per tutto, ed io credo che la precaria salute di nostra figlia contribuisca decisamente alla sua scontrosità e al suo cattivo umore. Considerando queste ragioni, mi dispongo di buon grado ad accompagnarlo in Palestina, solo, pesandomi intimamente, il fatto di essere obbligata, sia pure temporaneamente, ad allontanarmi dalla tua amicizia e dai tuoi consigli».

12.           «Sono contenta di sentirti dire questo, perché noi dobbiamo badare alla situazione di coloro che il nostro cuore ha scelto per compagni di tutta la vita, interamente prodigandoci per alleggerir loro ogni preoccupazione del mondo. Publio è di cuore buono, generoso e idealista, ma, essendo un patrizio discendente da una delle più illustri famiglie della Repubblica, è troppo vanitoso. Uomini di questo tipo esigono un grande senso psicologico da parte della moglie, essendo giusto e necessario che tu dimostri uguaglianza assoluta di sentimenti, in modo da poterlo condurre sempre per i sentieri migliori. Flaminio mi ha esposto tutti i particolari della tua permanenza in Giudea, ma ci sono alcuni dettagli che ancora non conosco. Ma davvero rimarrai a Gerusalemme?»

13.           «Sì, Publio desidera che ci stabiliamo nella stessa casa di suo zio Salvio a Gerusalemme fino a quando avremo scelto il clima migliore del paese, per il bene di nostra figlia».

14.           «Va bene…» esclamò Calpurnia, assumendo un’espressione di massima riservatezza, «…vista la tua inesperienza, sono costretta ad illuminare il tuo animo, considerando la possibilità di qualche complicazione futura».

15.           Livia rimase sorpresa dall’osservazione dell’amica, ma, prestando tutta la sua attenzione, rispose impressionata: «Che intendi dire?»

16.           «Io so che tu non conosci troppo bene i parenti di tuo marito, poiché da tanto tempo sono lontani da Roma», mormorò Calpurnia, con la caratteristica minuziosità dello spirito femminile, «e costituisce un dovere di amicizia preparare il tuo animo affinché tu non te ne vada con eccessiva fiducia là dove andrai. Il pretore Salvio Lentulo, che fu deposto dal governo delle province molti anni fa e che ora ha semplici attribuzioni di funzionario presso l’attuale procuratore della Giudea, non è di certo come tuo marito, il quale, pur se ha certi difetti di famiglia, è uno spirito molto franco e sincero. Tu eri molto giovane quando si verificarono alcuni deplorevoli avvenimenti nel nostro ambiente sociale, proprio riguardo quelle creature con cui ora andrai a vivere.

17.           La moglie di Salvio, che deve essere ancora una donna giovane e ben curata, è sorella di Claudia, moglie di Pilato, presso il quale tuo marito è raccomandato nel percorso dell’alta amministrazione della provincia. A Gerusalemme incontrerai tutta questa gente dai costumi ben differenti dai nostri, ed è necessario che tu sappia che vai a vivere con creature false e pericolose. Non abbiamo il diritto di giudicare le azioni di nessuno, a meno che non ci troviamo di fronte a coloro che consideriamo colpevoli o passibili di biasimo, ma devo avvisarti che l’imperatore fu costretto a nominare questa gente per i servizi all’estero a causa di gravi problemi di famiglia all’interno della Corte. Che gli dèi mi perdonino le osservazioni sugli assenti, ma nella tua qualità di romana e di moglie ancor giovane di un senatore, sarai ossequiata dai nostri concittadini lontani e riceverai in società omaggi, quali mazzi di rose, pieni di profumo ma anche pieni di spine...»

18.           Livia ascoltò l’amica un po’ intimorita e un po’ preoccupata, esclamando con voce circospetta come se volesse liberarsi di un dubbio: «Ma il pretore Salvio non è un uomo anziano?»

19.           «T’inganni, è poco più giovane di Flaminio, ma le sue raffinatezze di cavaliere fanno della sua persona un tipo di superbo aspetto».

20.           «Come potrò portare a buon fine i miei doveri, nel caso in cui fossi circondata da quelle insidie sociali tanto comuni al nostro tempo, senza aggravare lo stato spirituale di mio marito?»

21.           «Confidiamo nella protezione degli dèi» mormorò Calpurnia, lasciando trasparire la splendida fede del suo cuore materno.

22.           Ma le due non riuscirono a proseguire la conversazione. Un vocio più forte segnalò l’avvicinarsi di Publio e di Flaminio che attraversavano il vestibolo, cercandole.

23.           «E allora?» esclamò Flaminio di buon umore, apparendo sulla soglia con un malizioso sorriso. «Fra il cucire e il conversare deve soffrire la reputazione di qualcuno in questa stanza, perché, come mio padre già sentenziava, una donna sola pensa sempre alla famiglia, ma se sta con un’altra, pensa subito …agli altri».

24.           Un riso sincero e generale coronò le sue allegre parole, mentre Publio esclamò soddisfatto:

25.           «Stiamo tranquilli, mia Livia, perché tutto è pronto e tutto è secondo i nostri desideri. L’imperatore si è offerto di aiutarci generosamente con i suoi ordini diretti, e da qui a tre giorni una triremi[4] ci aspetterà nelle vicinanze di Ostia, dimodoché viaggeremo tranquillamente».

26.           Livia sorrise soddisfatta e confortata, mentre dalla camera della piccola Flavia apparivano due facce sorridenti, e Flaminio si preparò a ricevere nelle sue braccia, in una volta sola, i due figlioletti.

27.           «Venite qui, illustri birichini! Perché ieri siete fuggiti da scuola? Oggi ho ricevuto un avviso dal ginnasio in questo senso, e sono molto contrariato per questa vostra condotta».

28.           Plinio e Agrippa ascoltarono il rimprovero paterno, vergognandosi. Il maggiore rispose umile: «Ma, padre, io non sono colpevole. Come tu sai, Plinio è scappato per non fare gli esercizi, ed io mi sono sentito obbligato ad uscire per andare a cercarlo».

29.           «Questa è una vergogna per te, Agrippa» esclamò Flaminio, paternamente, «la tua età non ti permette più la partecipazione alle monellerie di tuo fratello».

30.           A questo punto della scena, intervenne Calpurnia a placare gli animi: «Tutto questo è vero, ma risolveremo la questione a casa, perché non è questa l’ora di discutere fra padre e figli».

31.           I due bambini baciarono la mano della madre, come per ringraziarla del suo affettuoso intervento, e dopo alcuni minuti le due famiglie si salutarono con la promessa da parte di Flaminio di accompagnare gli amici fino a Ostia, in prossimità della foce del Tevere, il giorno dell’imbarco.

*

32.           Passate quelle settantadue ore di affanno per i preparativi, incontriamo i nostri personaggi su una elegante galea dotata di tutte le comodità, nelle acque di Ostia dove ancora non esistevano le costruzioni del porto, edificato più tardi da Claudio.

33.           Plinio e Agrippa aiutarono a sistemare la piccola inferma all’interno, guidati dai genitori – che fin da bambini li preparavano ad assolvere agli obblighi sociali – mentre Calpurnia e Livia davano istruzioni a una serva riguardo la sistemazione del piccolo Marco. Publio e Flaminio si scambiarono impressioni, a distanza, e si udirono le raccomandazioni del secondo che resero confidenzialmente edotto l’amico: «Tu sai che le popolazioni conquistate dall’Impero ci guardano spesso con invidia e risentimento, diventando perciò necessario non allontanarci mai dalla nostra posizione di patrizi. Alcune regioni della Palestina, secondo le mie stesse esperienze, sono infestate da malfattori ed è necessario che tu sia premunito contro di loro, principalmente nel tuo viaggio verso Gerusalemme. Non appena sbarcherai con la famiglia, porta con te il maggior numero possibile di schiavi per la sicurezza tua e dei tuoi, e nell’ipotesi di qualche attacco, non esitare a punire con severità e durezza».

34.           Publio ascoltò l’avvertenza con attenzione e pochi minuti dopo entrambi giunsero all’interno dell’imbarcazione, dove il viaggiatore chiese al capo dei servizi: «Allora, Aulo, è tutto pronto?»

35.           «Sì, illustrissimo. Aspettiamo solo i vostri ordini per la partenza. Quanto al nostro lavoro, potete stare tranquillo, perché ho scelto con cura i migliori cartaginesi da impiegare ai remi».

36.           Di conseguenza cominciarono gli ultimi saluti. Le due signore si abbracciarono con lacrime tenere e affettuose mentre fecevano promesse di ricordo perenne e voti agli dèi per la tranquillità di tutti.

*

37.           Gli ultimi commossi abbracci, e l’elegante galea prese il largo, con la bandiera dell’aquila romana che ondeggiava orgogliosa al soffio soave delle brezze marine. I venti e gli dèi erano favorevoli, perché in breve, sotto lo sforzo erculeo degli schiavi al ritmo dei solidi remi, i viaggiatori contemplarono da lontano la fascia verde della costa italica, come se avanzassero nella massa liquida attraverso le misteriose vastità dell’Infinito.

38.           Il viaggio scorse con la massima calma e serenità.

39.           Publio Lentulo, nonostante la bellezza del paesaggio durante la traversata del Mediterraneo e la novità delle cose tutt’attorno, considerata la monotonia dei suoi impegni della vita romana, insieme ai numerosi processi dello Stato, aveva il cuore pieno di ombre. Inutilmente la moglie cercava di avvicinarsi al suo animo irritato, cercando di toccare i delicati argomenti di famiglia, per conoscere e per alleggerire i suoi più segreti dispiaceri. Egli provava l’impressione di chi s’incammina attraverso emozioni decisive nello svolgimento della sua esistenza. Aveva conosciuto una parte dell’Asia, poiché nella prima gioventù aveva servito per un anno nell’amministrazione di Smirne, per integrarsi nel modo migliore nel meccanismo dei lavori di Stato; ma non conosceva Gerusalemme dove lo aspettavano come legato dell’imperatore, per la soluzione di vari problemi amministrativi per i quali era stato incaricato presso il governo della Palestina.

40.           Come avrebbe trovato lo zio Salvio? Più giovane di suo padre? Da molti anni non lo vedeva personalmente, ma era un poco più vecchio di lui. E quella Fulvia, leggera e capricciosa che aveva sposato lo zio nel turbinio dei suoi numerosi scandali mondani, rendendosi quasi indesiderabile in seno alla famiglia? Ricordava i più segreti particolari del suo passato, ma si guardava bene dal raccontare alla moglie le sue più gravi apprensioni. Nello stesso tempo, riflettendo sulla situazione della sua sposa e dei suoi due figli, esaminava preoccupato i primi ostacoli durante la sua permanenza in Giudea, in qualità di patrizio, ma anche di straniero, e considerava che le amicizie che lo aspettavano sarebbero state problematiche.

41.           Fra i suoi sospetti e le orazioni della sposa, la traversata del Mediterraneo stava per terminare, allorché egli richiamò l’attenzione del suo servo di fiducia con queste parole: «Comenio, fra poco saremo alle porte di Gerusalemme; ma prima che ciò si verifichi, dal punto dello sbarco dobbiamo affrontare una breve marcia che richiede molta attenzione da parte mia, trattandosi del trasporto della mia famiglia. Ci attendono alcuni rappresentanti dell’amministrazione della Giudea, ma chiaramente saremo seguiti dalla tua sorveglianza, perché sbarcheremo in una regione a me sconosciuta e straniera. Raduna tutti i servi sotto i tuoi ordini, in modo da garantirci un’assoluta sicurezza lungo il cammino».

42.           «Signore, contate pure sulla mia vigilanza e dedizione», rispose il servitore rispettoso e commosso.

*

43.           Il giorno dopo Publio Lentulo e tutto il gruppo sbarcarono in un piccolo porto della Palestina, senza alcun incidente degno di menzione. Lo aspettavano, oltre al legato del Procuratore, alcuni littori[5] e numerosi soldati pretoriani, comandati da Sulpicio Tarquinio, dotato di tutti i mezzi e di tutti gli uomini necessari per un viaggio tranquillo e confortevole attraverso le strade di Gerusalemme.

44.           Dopo il necessario riposo, la carovana si mise in cammino, sembrando più una spedizione militare che il semplice trasporto di una famiglia, facendo regolari fermate di riposo. Le armature dei cavalli e gli elmi romani che rilucevano al Sole, le vesti singolari, le portantine adornate, gli animali da trasporto e i carri sovraccarichi di bagagli davano l’idea di una spedizione trionfale, per quanto organizzata e silenziosa.

45.           La carovana procedeva in buon ordine, quando, nelle vicinanze di Gerusalemme, accade un imprevisto. Un oggetto sibilante tagliò l’aria fine e chiara, s’infisse nel baldacchino del senatore e, allo stesso tempo, si udì un grido stridente e lamentoso. Una piccolissima pietra aveva ferito leggermente il volto di Livia, provocando un grande allarme nella massa enorme di servi e cavalieri. Tra i carri e gli animali che si erano fermati impauriti, numerosi schiavi circondarono i signori, cercando con agitazione di sapere cosa fosse successo. Sulpicio Tarquinio, in un batter d’occhio, si lanciò al galoppo per afferrare un giovane che, circospetto, si allontanava dai margini della strada. E, colpevole o no, un ragazzo sui diciotto anni fu portato al cospetto dei viaggiatori per la debita punizione.

46.           Publio Lentulo si ricordò della raccomandazione fattagli da Flaminio alcuni momenti prima della partenza e, mettendo a tacere i suoi migliori sentimenti di tolleranza e generosità, decise di far valere la sua posizione e autorità agli occhi di quanti lo avrebbero seguito durante la sua permanenza in quel paese straniero.

47.           Diede ordini immediati ai littori che lo accompagnavano, e lì, sul posto, sotto i raggi abbacinanti e brucianti del Sole a picco e sotto lo sguardo intimorito di alcune decine di schiavi e numerosi centurioni, comandò che il ragazzo fosse frustato senza pietà, per il suo atto irresponsabile.

48.           Una scena ingrata e dolorosa.

49.           Tutti i servi seguivano, sconsolati, lo schioccare della frusta sulla schiena seminuda di quell’uomo, poco più che un ragazzo, il quale gemeva con singhiozzi strazianti sotto lo staffile spietato e crudele. Nessuno osò contrariare quegli ordini impietosi, fino a che Livia, non riuscendo a sopportare più a lungo la brutalità dello spettacolo, chiese al marito con voce supplichevole:

50.           «Basta, Publio, perché i diritti della nostra condizione non comportano obblighi di empietà...»

51.           Il senatore considerò, allora, la sua severità dura ed eccessiva, e ordinò la sospensione del castigo brutale ma, a una domanda di Sulpicio circa il nuovo destino dell’infelice, rispose in tono rude e irritato: «Alle galee!...»

52.           I presenti tremarono perché le galee significavano la morte o la schiavitù per sempre.

53.           Lo sventurato si abbandonò, esanime, nelle braccia dei centurioni che lo sorreggevano, ma nell’udire le parole della sentenza che lo condannava, rivolse al suo superbo giudice uno sguardo di odio e disprezzo supremi; nel profondo della sua anima lampeggiarono sentimenti di vendetta e di odio, ma la carovana si mise nuovamente in cammino tra il frastuono dei carri pesanti e lo sferragliare delle armature, con l’andatura dei cavalli irrequieti e focosi.

54.           L’arrivo a Gerusalemme avvenne senza altri fatti degni di nota.

55.           La novità del panorama e la differenza delle creature è ciò che impressionò i viaggiatori al loro primo contatto con la città, il cui aspetto, con rare modifiche, rimase, nel passare dei secoli, sempre uguale, triste e desolato, preludendo agli aridi paesaggi del deserto.

56.           Pilato e sua moglie presenziarono ai solenni festeggiamenti di benvenuto al senatore, il quale veniva come legato di Tiberio presso l’amministrazione della provincia, rappresentando il principio della legge e dell’autorità.

57.           Salvio Lentulo e sua moglie, Fulvia Procula, ricevettero i parenti con sfarzo e prodigalità. Numerosi gli omaggi presentati a Publio Lentulo e a sua moglie, e fu evidente che Livia, o per gli avvertimenti di Calpurnia o per la sua acutezza psicologica, capì subito che in quell’ambiente non palpitavano i cuori generosi e sinceri dei suoi amici di Roma, provando nel suo intimo una dolorosa sensazione di amarezza e ansietà. Aveva notato con soddisfazione che la sua piccola Flavia stava meglio, nonostante il viaggio faticoso, ma allo stesso tempo si torturava intuendo che Fulvia non possedeva generosità di cuore per accoglierli sempre con affetto e bontà. Aveva notato che, nel presentarle la figlioletta inferma, la superba patrizia aveva avuto un moto istintivo di ripugnanza, allontanando la sua piccola Aurelia, figlia unica, dal contatto con la famiglia, adducendo pretesti inammissibili. Bastò un giorno di permanenza in quella casa estranea, perché la povera signora capisse quante e quali angustie lì l’aspettavano, calcolando i sacrifici che la situazione avrebbe preteso dal suo cuore sensibile e affettuoso.

58.           E non era solo il quadro familiare nei suoi impressionanti dettagli a torturarle la mente travagliata da tristi aspettative. Quando Ponzio Pilato le si presentò proprio al momento dell’arrivo, lei aveva avvertito nel suo intimo di aver incontrato un rude e potente nemico.

59.           Forze sconosciute del mondo intuitivo parlavano al suo cuore di donna, come se delle voci del piano invisibile preparassero il suo spirito alle durissime prove dei giorni a venire. Sì, perché la donna, simbolo del santuario della casa e della famiglia, nella sua spiritualità può molte volte con una semplice riflessione scoprire misteri imperscrutabili dei caratteri e delle anime, nella tela fitta e tenebrosa delle successive e dolorose reincarnazioni.

60.           Publio Lentulo, al contrario, non provava le stesse emozioni della compagna. La diversità dell’ambiente gli avevano un po’ modificato le intime predisposizioni, sentendosi moralmente rafforzato di fronte alla missione che doveva svolgere nel nuovo scenario delle sue attività di uomo di Stato.

61.           Nel secondo giorno della sua permanenza nella città, subito dopo esser tornato dalla sua prima visita alle installazioni della Torre Antonia dove si era acquartierata una parte delle forze romane, mentre osservava l’andirivieni dei dottori della legge ebraica nel famoso Tempio di Gerusalemme, fu cercato da un uomo umile e relativamente giovane, che come credenziale gli presentò solamente il cuore affettuoso e afflitto di padre.

62.           Obbedendo più agli obblighi di ordine politico che a un sentimento di generosità del cuore, il senatore ruppe le regole di disciplina del momento, ricevendolo nel suo studio privato, disposto ad ascoltarlo.

63.           Un giudeo, poco più anziano di lui, con un atteggiamento di rispettosa umiltà e che si esprimeva con difficoltà, per farsi intendere, parlò in questi termini: «Illustrissimo senatore, sono Andrea, figlio di Giora, semplice operaio e poverissimo, benché molti membri della mia famiglia abbiano attribuzioni importanti nel tempio e nell’esercizio della legge. Oso venire alla vostra presenza, per reclamare mio figlio Saul, catturato tre giorni fa per vostro ordine e direttamente condannato alla prigionia perpetua delle galee... Vi chiedo clemenza e carità per la modifica di questa sentenza dalle conseguenze terribili per la mia povera casa... Saul è il mio primogenito, e in lui ripongo tutta la mia speranza paterna... Riconoscendogli l’inesperienza della vita, non vengo per dichiarare la sua innocenza e discolparlo, ma mi appello alla vostra clemenza e magnanimità, di fronte alla sua ignoranza di ragazzo, giurandovi, davanti alla legge, d’incamminarlo d’ora in avanti sulla strada del dovere austeramente compiuto...»

64.           Publio ricordò la necessità di far sentire l’autorità della sua posizione, replicando con il caratteristico orgoglio delle sue decisioni: «Come osi tu discutere i miei ordini, quando io ho la coscienza di aver praticato la giustizia? Non posso modificare le mie decisioni, e mi meraviglio che un giudeo metta in dubbio il comando e la parola di un senatore dell’Impero, esponendo reclami di tale natura».

65.           «Ma, signore, io sono il padre...»

66.           «Se tu sei il padre, perché hai fatto di tuo figlio un vagabondo e un inutile?»

67.           «Non riesco a comprendere i motivi che hanno portato il mio povero Saul a compromettersi in questo modo, ma vi giuro che è lui il braccio forte dei miei lavori di ogni giorno».

68.           «Non mi riguarda esaminare le ragioni del tuo sentimento, perché la mia parola è stata pronunziata irrevocabilmente».

69.           Andrea di Giora guardò Publio Lentulo dall’alto in basso, ferito nella sua sensibilità di padre e nel suo sentimento di uomo, furioso di dolore e di rabbia repressa. I suoi occhi umidi tradivano l’intima angoscia di fronte a quel rifiuto esplicito e inappellabile, ma, disprezzando tutte le convenzioni umane, disse con orgogliosa fermezza: «Senatore, io ho messo da parte la mia dignità per implorare la vostra compassione, e ricevo il vostro ignominioso rifiuto! .... In questo istante, con la durezza del vostro cuore, vi siete conquistato un nemico eterno e implacabile! ... Con i vostri poteri e le vostre prerogative potete distruggermi per sempre, sia mettendomi in prigione a vita, sia condannandomi a morire di morte infame; ma io preferisco affrontare la vostra orgogliosa superbia! ... Ora avete piantato un albero di spine, il cui frutto, un giorno, amareggerà senza rimedio il vostro cuore duro e insensibile, perché la mia vendetta potrà tardare, ma, come la vostra anima fredda e inflessibile, essa sarà altrettanto sicura e tenebrosa! ...»

70.           Il giudeo non aspettò la risposta del suo interlocutore e, amaramente emozionato dalla violenza di quelle parole, uscì dal recinto con passo deciso e a testa alta, come se avesse ottenuto i migliori risultati dal suo breve e decisivo incontro.

71.           Conteso tra orgoglio e ansietà, Publio Lentulo provò in quel momento le più svariate sfumature del sentimento che dominava il suo cuore. Desiderò ordinare l’immediata prigione per quell’uomo che gli aveva gettato in viso le più dure verità, provando allo stesso tempo il desiderio di richiamarlo a sé, promettendogli il ritorno dell’amato figlio che egli avrebbe protetto col suo prestigio di uomo di Stato; ma la voce gli scomparve nella gola in quel complesso di emozioni che di nuovo gli avevano rubato la pace e la serenità. Una dolorosa oppressione gli paralizzò le corde vocali, mentre nel cuore angosciato riecheggiavano quelle parole ardenti e amare.

72.           Una serie di riflessioni penose si susseguì nel suo intimo mondo, indicando i più forti conflitti di sentimenti. Non era forse padre lui stesso, e non cercava forse di tenere i suoi figli vicini al suo cuore? Quell’uomo aveva le più forti ragioni per considerarlo uno spirito ingiusto e perverso.

73.           Ricordò il sogno inspiegabile che, raccontato a Flaminio, era stato la causa indiretta della sua venuta in Giudea e rifletté sulle lacrime di pentimento che aveva versato, di fronte al vortice dei cattivi ricordi della sua esistenza passata e di fronte a tanti delitti e a tante colpe.

74.           Si allontanò dal suo studio privato con in mente la soluzione della questione e ordinò che portassero il giovane Saul alla sua presenza, con l’urgenza che il caso esigeva, al fine di rimandarlo alla casa paterna, modificando, in questo modo, le penose impressioni che aveva causato al povero Andrea. I suoi ordini furono trasmessi senza indugio. Tuttavia, attraverso le informazioni dei funzionari cui spettava l’incombenza di simili servizi, una sgradevole sorpresa lo attendeva.

75.           Il giovane Saul era scomparso dal carcere, e tutto faceva credere a una fuga disperata e imprevista. Le informazioni furono trasmesse alle autorità superiori, senza che Publio Lentulo fosse al corrente che i cattivi servitori dello Stato vendevano, molte volte, i prigionieri giovani agli ambiziosi mercanti di schiavi che agivano nei centri più popolosi della capitale del mondo.

76.           Informato che il prigioniero era fuggito, il senatore si sentì la coscienza alleggerita dalle accuse che gli pesavano nell’anima. Alla fine, pensò, si trattava di un caso di poca importanza, in quanto il ragazzo, lontano dal carcere, avrebbe cercato immediatamente la casa paterna; e per consolidare la sua tranquillità impartì ordini ai dirigenti del servizio di sicurezza, raccomandando loro di astenersi da qualsiasi indagine riguardo il fuggitivo, al quale opportunamente avrebbe dato un documento di libertà.

77.           Il cammino di Saul, tuttavia, sarebbe stato ben altro.

78.           In quasi tutte le province romane funzionavano perversi raggruppamenti di malfattori che, vivendo all’ombra della macchina dello Stato, si erano trasformati in mercanti di coscienze.

79.           Il giovane giudeo, nella sua vigorosa e promettente gioventù, era stato vittima di queste creature malvagie. Venduto clandestinamente a potenti mercanti di schiavi di Roma, insieme a molti altri fu imbarcato nell’antico porto di Joppe con destinazione la capitale dell’Impero.

*

80.           Anticipando la cronologia del racconto, lo incontriamo dopo alcuni mesi su un grande palco, vicino al Foro (di Roma), dove in fila, in penosa promiscuità, stavano uomini, donne e bambini, quasi tutti in miserevoli condizioni di povertà, ciascuno con al collo un piccolo cartello. Con gli occhi sfavillanti di sentimenti di vendetta, là si trovava Saul, seminudo, un berretto di lana bianca a coprirgli la testa e con i piedi scalzi leggermente cosparsi di gesso.

81.           Vicino a quella massa di creature sventurate, passeggiava un uomo dall’aspetto ignobile e ripugnante che gridava per la folla di curiosi che gli giravano intorno: «Cittadini, abbiate la gentilezza di ammirare ... Come sapete, non ho fretta di disfarmi della merce, perché non devo nulla a nessuno, ma sono qui per servire gli illustri romani! ...»

82.           E, soffermandosi nell’esame di quello o di questo infelice, così proseguiva nella sua arringa grossolana e insultante: «Guardate questo giovane! È un superbo esemplare di salute, riservatezza e docilità. Ubbidisce al primo segnale. Osservate bene l’eleganza del suo corpo robusto. Nessuna malattia potrà piegare il suo organismo.

83.           Esaminate quest’uomo! Sa parlare greco correntemente ed è ben fatto dalla testa ai piedi! ...»

84.           Con questi incitamenti da mercante, continuò la sua propaganda soggetto per soggetto di fronte alla folla di compratori che lo assediavano, e finalmente venne il turno del giovane Saul, il quale lasciava intravedere, pur nell’aspetto miserabile, i suoi impeti di collera e i suoi sentimenti brutali: «Fate bene attenzione a questo giovane! Arriva or ora dalla Giudea come il più bell’esempio di sobrietà e salute, di obbedienza e forza. È uno tra i più ricchi campionari del mio lotto di oggi. Osservate la sua giovinezza, illustri romani! ... Ve lo darò al prezzo ridotto di cinquemila sesterzi!»

85.           Il giovane schiavo osservò il mercante con l’animo traboccante di odio e custodendo nel suo intimo le più feroci promesse di vendetta. Il suo aspetto di giudeo fece impressione sulla folla che quella mattina era riunita nella piazza, sicché una grande agitazione di curiosità ne circondò la figura interessante e originalissima.

86.           Un uomo si staccò dalla folla dirigendosi verso il mercante, a cui sottovoce si rivolse con queste parole: «Fiacco, il mio padrone ha bisogno di un ragazzo elegante e forte per le bighe dei suoi figli. Questo giovane mi interessa. Non me lo daresti al prezzo di quattromila sesterzi?»

87.           «Va là ...» mormorò l’altro con tono d’affarista, «Il mio interesse è quello di servire bene l’illustre clientela».

88.           L’acquirente era Valerio Bruto, capo dei servizi comuni della casa di Flaminio Severo, il quale lo aveva incaricato di acquistare un nuovo schiavo e di buona presenza da destinare al servizio delle bighe dei figli, nelle grandi giornate delle feste romane.

89.           Fu così che, gonfio di sentimenti spregevoli e deplorevoli, Saul, il figlio di Andrea, fu introdotto, dalle forze del destino, accanto a Plinio e ad Agrippa nella residenza della famiglia Severo, nel cuore di Roma, al miserabile prezzo di quattromila sesterzi.

 

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Cap. III

IN CASA DI PILATO

1.                L’aridità della natura dove sorge Gerusalemme conferisce alla celebre città una bellezza melanconica, caratterizzata da una triste monotonia. Al tempo di Cristo il suo aspetto era quasi uguale a quello di oggi, soltanto la collina di Mizpa con le sue tradizioni soavi e belle rappresentava un angolo verde e allegro, dove gli occhi del forestiero, lontano dall’aridità e dalla durezza dei paesaggi, si riposavano.

2.                Tuttavia dobbiamo registrare che all’epoca della permanenza di Publio Lentulo e della sua famiglia, Gerusalemme rivelava novità e splendori di una nuova vita. Le costruzioni erodiane pullulavano nei suoi dintorni, manifestando un nuovo senso estetico da parte di Israele. La predilezione per i monoliti tagliati nella roccia viva, caratteristica dell’antico popolo israelita, era stata sostituita dagli adattamenti del gusto giudeo agli stili greci, rinnovando i panorami interni della famosa città. Il gioiello meraviglioso era comunque il Tempio, tutto nuovo all’epoca di Gesù. La sua ricostruzione era stata decisa da Erode nell’anno 21, se si considera che per costruire i portici ci vollero otto anni e se si considera ancora che i piani dell’opera grandiosa, continuati lentamente nel corso del tempo, furono conclusi soltanto poco prima della sua completa distruzione.

3.                Nei cortili immensi si riuniva ogni giorno l’aristocrazia intellettuale israelita, trovandosi lì il foro, l’università, il tribunale e il Tempio supremo di un’intera razza. Gli stessi processi civili, oltre le profonde discussioni di ordine teologico, raggiungevano in quel luogo le deliberazioni definitive, riunendosi in quel Tempio imponente e grandioso tutte le ambizioni e le attività di una patria.

4.                I romani, rispettando la filosofia religiosa dei popoli stranieri, non partecipavano alle tesi sottili e ai sofismi che si dibattevano e si esaminavano tutti i giorni; ma la Torre Antonia, dove era il quartier generale delle forze armate dell’Impero, dominava l’edificio, facilitando la vigilanza costante di ogni movimento dei sacerdoti e delle masse popolari.

5.                Publio Lentulo, dopo l’incidente del prigioniero che egli continuava a considerare un episodio senza importanza, andava riprendendo una certa serenità per il disimpegno dei suoi consueti obblighi. L’arido panorama di Gerusalemme aveva, ai suoi occhi stanchi, un nuovo incanto, in cui il pensiero riposava dalle numerose ed intense fatiche di Roma.

6.                Quanto a Livia, lei manteneva il cuore rivolto ai suoi affetti lontani, tenendo conto dell’aridità d’animo che si ritrovava al fianco durante la sua convivenza lì. Come per miracolo, la piccola Flavia era migliorata e si osservava una notevole trasformazione delle ferite che le coprivano l’epidermide, ma gli atteggiamenti ostili di Fulvia, che non le perdonava l’incantevole semplicità e le preziose doti dell’intelligenza e non perdeva occasione per sbatterle in faccia meschinità indirette, a volte ironiche e sarcastiche, lasciavano il suo spirito stordito in un vortice di aspettative allucinanti. Simili problemi erano ignorati dal marito, al quale la povera signora si asteneva dal raccontare i suoi più intimi dispiaceri.

7.                Questi fatti, tuttavia, non erano gli elementi che più contribuivano a renderla triste in quell’ambiente di penose incertezze. Era una settimana che si trovavano nella città e si notava che, venendo forse meno alle sue abitudini, Ponzio Pilato ogni giorno compariva in casa del pretore col pretesto di amare la conversazione con i patrizi arrivati da poco dalla Corte. Ore e ore erano impiegate in questo senso, ma Livia, attraverso le segrete intuizioni della sua anima, comprendeva i pensieri inconfessabili del governatore nei suoi riguardi, accogliendo con animo prevenuto i suoi amabili complimenti e le allusioni meno dirette.

8.                In questa specie di sentimenti che preannunciano l’alta marea delle passioni, si scorgeva anche la contrarietà di Fulvia, presa da una velenosa gelosia di fronte alla situazione che l’atteggiamento di Pilato andava creando. Dietro le quinte di quel brillante scenario di amicizia artificiale con cui erano stati ricevuti, Publio e Livia avrebbero dovuto comprendere che c’era una palude di basse passioni, che certamente avrebbero minato la tranquillità delle loro anime. Non capivano, tuttavia, i particolari della situazione, e con spirito fiducioso e ingenuo intrapresero il cammino oscuro e doloroso delle prove che Gerusalemme riservava loro.

9.                Ripetendo di continuo gli ossequi e moltiplicando le gentilezze, Pilato chiese che gli si permettesse di offrire una cena in cui tutta la famiglia si rasserenasse, e la fraternità e l’allegria fossero perfette.

10.           Nel giorno stabilito, Salvio e Publio, accompagnati dai loro familiari, si presentarono alla lussuosa residenza del governatore, dove anche Claudia li aspettava con un largo ed accogliente sorriso.

11.           Livia era pallida nel suo vestito semplice e senza alcun lusso, poiché bisogna far presente che, contro ogni dissuasione del marito, aveva insistito per portare la figlioletta malata, con il presupposto che le sue attenzioni materne rappresentassero una specie di scudo contro le avances del conquistatore, che il suo cuore di donna intuiva negli atteggiamenti indiscreti e audaci del padrone di casa di quella notte.

12.           La cena era servita secondo obblighi specialissimi e conformemente alle consuetudini più rigorose ed eleganti della Corte.

13.           Livia era stordita da quelle solennità che si svolgevano obbedendo alle più fini delicatezze dell’etichetta romana, abitudini queste che provenivano da un contesto sociale da cui lei e Calpurnia si erano sempre tenute lontane nella loro semplicità di cuore. Una numerosa sfilza di schiavi si muoveva in ogni direzione come un vero e proprio esercito di servitori, di fronte a un così ridotto numero di commensali.

14.           Disposti i piatti, apparvero i cantori che declamarono i nomi degli invitati, mentre i servitori portarono il vasellame sistemato con straordinaria simmetria. Gli invitati allora si accomodarono sul triclinio, ricoperto di cuscini di seta e cosparso di petali di fiori. Le carni furono servite su vassoi d’oro e i pani in cesti d’argento, moltiplicandosi i servi per ogni necessità, inclusi quelli che dovevano provare i cibi, al fine di attestare, attraverso il loro palato, che i cibi serviti erano della massima fiducia. I coppieri servirono un vino vecchio e pregiato, mescolato con aromi, in coppe ricoperte di pietre preziose, mentre altri servi li accompagnavano, servendo in ampolle d’argento l’acqua tiepida o fredda, secondo il gusto dei commensali. Vicino ai letti, dove ogni commensale doveva potersi sdraiare comodamente, stazionavano schiavi giovani vestiti con eleganza ed esibivano sulla fronte un grazioso turbante, con braccia e gambe seminude, ciascuno con la sua funzione ben definita. Alcuni agitavano nelle mani lunghi rami di mirto, per allontanare le mosche, mentre altri, inginocchiati ai piedi dei convitati, erano obbligati a pulire con discrezione i segni della loro ingordigia e intemperanza.

15.           Quindici portate differenti si erano succedute attraverso lo sforzo di schiavi umili e devoti quando, dopo cena, centinaia di torce illuminarono i saloni e si ascoltarono gradevoli sinfonie. Servi giovani ed eleganti eseguirono danze appassionate e voluttuose, in omaggio ai convitati, eccitandone i bassi istinti con la loro arte esotica e spontanea. Solamente, non fu presentato il numero dei gladiatori, come era costume nei grandi banchetti della Corte, perché Livia, con occhi supplichevoli, aveva chiesto che fosse risparmiato in quella festa il doloroso spettacolo del sangue umano.

16.           La notte era una delle più calde di Gerusalemme, per cui, terminata la cena e le relative cerimonie, il gruppo di amici, accompagnati ora da Sulpicio Tarquinio, si diresse verso un grande ed elegante terrazzo, dove giovani schiave suonavano una deliziosa musica orientale.

17.           «Non pensavo di incontrare a Gerusalemme una nottata aristocratica come questa», esclamò Publio meravigliato, rivolgendosi al governatore con rispettosa cortesia. «Devo alla vostra squisita e generosa bontà la soddisfazione di rivivere l’ambiente e la vita indimenticabili della Corte dove i romani lontani custodiscono il cuore e il pensiero».

18.           «Senatore, questa casa vi appartiene», rispose Pilato confidenzialmente. «Non so se la mia offerta vi sarà gradita, ma avremmo solo motivo per ringraziare gli déi, se ci concedeste la encomiabile gioia di ospitarvi qui con i vostri degni familiari. Credo che la casa del pretore Salvio non vi offra il necessario conforto, e aggiungendo la circostanza dell’intima parentela che lega mia moglie alla moglie di vostro zio, mi sento in dovere di farvi questa offerta, senza contravvenire ai nostri costumi sociali».

19.           «Ah, questo no!» esclamò a sua volta il pretore che seguiva attento la gentilezza dell’offerta. «Fulvia ed io ci opponiamo alla realizzazione di questa decisione», e accennando con fiducia verso la consorte, così terminò il suo pensiero «Non è vero, mia cara?»

20.           Fulvia, invece, lasciando trasparire una punta di contrarietà, rispose con sorpresa di tutti i presenti: «Di pieno accordo. Publio e Livia sono effettivamente nostri ospiti, ciononostante non possiamo dimenticare che l’obiettivo del loro viaggio è legato alla salute della figlia, centro di tutte le nostre preoccupazioni per il momento, e che è giusto non privarli di qualsiasi risorsa possa presentarsi a favore della piccola inferma...»

21.           E incamminandosi verso il panchetto di marmo dove riposava la piccola malata, esclamò tra lo scandalo generale: «Anzi, questa bambina rappresenta una seria preoccupazione per tutti noi. La sua pelle dilacerata indica sintomi ben noti, facendo ricordare...»

22.           Ma non riuscì a terminare l’esposizione dei suoi timori, perché Claudia, anima nobile e degna, essendo il contrario della sorella che il destino le aveva dato, comprendendo la situazione penosa che i suoi concetti andavano creando, la prevenne, dicendo: «Non vedo motivi che giustifichino questi timori; immagino la piccola Flavia molto migliorata e più forte. Voglio credere, perfino, che basterà il clima di Gerusalemme per la sua completa guarigione».

23.           E andando verso la piccola malata, come se desiderasse cancellare la dolorosa impressione di quelle osservazioni indelicate, la prese nelle sue braccia, baciandole il volto infantile coperto di macchie violacee come ferite di mali dissimulate.

24.           Livia, che mostrava il volto umiliato per le parole di Fulvia, accolse la gentilezza come un balsamo prezioso alle sue apprensioni materne; quanto a Publio, amaramente sorpreso, senti la necessità di recuperare la sua serenità e la sua virile energia nascondendo il dispiacere che l’episodio gli aveva pro­vocato, riavviando la conversazione, oltremodo commosso: «È vero, amici. La salute della mia povera Flavia rappresenta l'obiettivo principale del nostro lungo viaggio fin qui. Risolti i problemi di Stato che mi hanno portato a Gerusalemme, è da alcuni giorni che esamino la possibilità di sistemarmi in qualche regione dell’interno, in modo che la bambina possa recuperare il prezioso equilibrio organico, respirando un’aria più pura».

25.           «Certamente», replicò Pilato con sicurezza, «per l’argomento clima io qui sono un grande intenditore. Sono sei anni che mi trovo in questi luoghi in funzione della carica che ricopro, ed ho visitato quasi ogni angolo della provincia e delle regioni vicine, ed ho motivi per garantire che la Galilea è al primo posto. Appena posso riposare dopo un periodo di intenso lavoro che qui mi trattiene, cerco immediatamente la nostra villa nei dintorni di Nazareth per godere della serenità del panorama e delle brezze deliziose del suo grande lago. Concordo che la distanza è molta, ma la verità è che se rimanessi nelle vicinanze della città, nei miei periodi di riposo passerei il tempo ad ascoltare le continue richieste dei rabbini del tempio, sempre in balìa di innumerevoli problemi. Proprio ora Sulpicio dovrà partire per sovrintendere ad alcuni lavori di restauro della nostra casa, poiché pensiamo di andare là tra poco per riacquistare le energie consumate nella lotta quotidiana.

26.           E giacché la mia ospitalità non vi sarà più necessaria a Gerusalemme, chissà se avremo il piacere di ospitarvi, più tardi, nella villa a cui mi riferisco».

27.           «Nobile amico», esclamò grato il senatore «dovrei risparmiarvi tanto lavoro, ma vi sarò immensamente grato se il vostro amico Sulpicio provvedesse all’acquisto a Nazareth di una casa semplice e confortevole che faccia al mio caso, adattandola alle nostre esigenze e abitudini familiari, e dove potremo abitare senza preoccupazioni per alcuni mesi».

28.           «Col massimo piacere».

29.           «Molto bene», intervenne Claudia con bontà, mentre Fulvia mal celava un velenoso risentimento, «mi assumerò io l’incarico di far sì che la nostra buona Livia si adegui alla vita campestre, poiché la gente si trova molto bene a diretto contatto con la natura».

30.           «Purché non si trasformino in giudee...» disse il senatore, di buon umore, mentre tutti ridevano allegramente.

31.           A quel punto, sentendo parlare dettagliatamente dei servizi che gli sarebbero stati affidati nei giorni seguenti, Sulpicio Tarquinio, uomo di fiducia del governatore, si sentì legittimato ad entrare in argomento, esclamando, tra la sorpresa di quanti lo ascoltavano: «E parlando di Nazareth, avete già sentito parlare del suo profeta?». Poi continuò:  «Sì, Nazareth ha ora un profeta che vive realizzando grandi cose».

32.           «Chi è costui, Sulpicio?» domandò Pilato ironicamente. «Perché, tu non sai che tra i giudei nascono profeti tutti i giorni? Per caso, le lotte nel Tempio di Gerusalemme si verificano per altri motivi? Tutti i dottori della Legge si considerano ispirati dal Cielo, e ognuno è detentore di una nuova rivelazione».

33.           «Ma questo, signore, è ben differente».

34.           «Ti sei forse convertito a una nuova fede?»

35.           «Assolutamente no, proprio perché so cos’è il fanatismo e conosco la cecità spirituale di queste miserabili creature. Ma sono rimasto realmente colpito dalla figura impressionante di un galileo ancora giovane, quando alcuni giorni fa è passato da Cafarnao. Al centro di una piazza, sistemata su panche improvvisate, fatte di pietra e sabbia, io ho visto una grande folla che ascoltava la sua parola, in un’estasi di ammirazione e commozione... Io stesso, come se fossi stato raggiunto da una forza misteriosa e invisibile, mi sono seduto per ascoltarlo.

36.           Dalla sua personalità, straordinaria nella sua semplice bellezza, proveniva un qualcosa che dominava la folla, la quale se ne stava quieta e silenziosa per ascoltare le sue promesse di un regno eterno... I suoi capelli erano agitati dalle brezze del tardo e tranquillo pomeriggio come se fossero fili di luce sconosciuta nel chiarore sereno del crepuscolo; e dai suoi occhi amorevoli sembrava nascere un’onda di pietà e commiserazione infinita. Scalzo e povero, si notava la sua tunica pulita, il cui candore armonizzava con la finezza dei suoi lineamenti delicati. La sua parola era come un cantico di speranza per tutti i sofferenti del mondo, sospeso tra il cielo e la Terra, rigenerando i pensieri di quanti lo ascoltavano... Parlava delle nostre grandezze e delle nostre conquiste come se fossero ben miserabili cose, faceva amare considerazioni sulle opere monumentali di Erode, in Sebaste, affermando che al di sopra di Cesare c’è Dio onnipotente, provvidenza di tutti i disperati e di tutti gli afflitti... Nel suo insegnamento di umiltà e amore, Egli considerava tutti gli uomini fratelli amatissimi, figli dello stesso Padre di misericordia e giustizia, …che noi non conosciamo»

37.           La voce di Sulpicio traboccava di quell’emozione caratteristica dei sentimenti, figli della verità.

38.           L’auditorio era stato contagiato dalla commozione del suo racconto, ascoltando la sua parola con il più grande interesse.

39.           Pilato, tuttavia, senza dimenticare le sue vanità di governatore, lo interruppe esclamando: «Tutti fratelli! Questo è un assurdo. La dottrina di un Dio unico non è novità per noialtri, su questa terra di ignoranti; ma non possiamo concordare con questo concetto di fraternità incondizionata. E gli schiavi? E i vassalli dell’Impero? Dove vanno a finire le prerogative del patriziato? Quello che più mi stupisce, però…», esclamò con enfasi, rivolgendosi in modo particolare al narratore, «…è che tu, uomo pratico e deciso, ti sia lasciato irretire dalle pazze parole di questo nuovo profeta, mescolandoti con la folla per ascoltarlo. Non sai che la presenza di un littore può significare enorme prestigio per le idee di quest’uomo?»

40.           «Signore…», rispose Sulpicio, contrariato, «…io stesso non saprei spiegare la ragione delle mie osservazioni di quel pomeriggio. Anch’io inizialmente considerai che le dottrine da lui predicate erano sovversive e pericolose, per il fatto di mettere sullo stesso piano, servi e padroni, ma osservai anche le sue penose condizioni di povertà, considerate dai suoi discepoli e seguaci come uno stato di gioia e di felicità, la qual cosa in nessun modo può costituire motivo di timore per le autorità provinciali.

41.           Oltre a ciò, queste predicazioni non danneggiano i contadini, perché sono fatte generalmente nelle ore di ozio e di riposo, nella pausa del lavoro quotidiano, pur notandosi altresì che i suoi compagni prediletti sono i pescatori più ignoranti e più umili del lago».

42.           «Ma come hai potuto lasciarti entusiasmare così da questo uomo?» replicò Pilato con energia.

43.           «In quanto a questo v’ingannate», rispose il littore, più controllato. «Non mi sento affatto impressionato, come voi supponete, tanto che, notando la sua originalità semplice e bella, non gli riconosco privilegi soprannaturali, e ritengo che la scienza dell’Impero spiegherà il fatto che sto per raccontarvi, rispondendo alla vostra domanda.

44.           Non so se voi conoscete Caponio, un vecchio centurione che presta servizio nella città che ho citato, ma sento il dovere di spiegarvi il fatto da me osservato. Dopo la voce del profeta di Nazareth, una dolce quiete si era diffusa sul paesaggio, e un mio conoscente gli presentò il figlioletto moribondo, implorando pietà per il bambino che agonizzava. Io lo vidi levare gli occhi sfolgoranti verso il firmamento, come se stesse chiedendo la benedizione dei nostri dèi, e dopo notai le sue mani toccare il bambino che, a sua volta, sembrava aver avvertito un flusso di vita nuova; improvvisamente si alzò a piangere e, si protese verso le carezze del padre, dopo aver posato sul profeta gli occhi inteneriti».

45.           «Mah, perfino dei centurioni già si mescolano coi giudei nelle loro usanze? Devo mettermi in contatto con le autorità di Tiberiade, circa questi fatti», esclamò il governatore, visibilmente contrariato.

46.           «Il caso è curioso», disse Publio Lentulo, turbato dal racconto.

47.           «La verità, tuttavia, amico mio…», obiettò Pilato rivolgendosi a lui, «…è che da queste parti nascono religioni tutti i giorni. Questo popolo è molto diverso dal nostro, riconoscendosi in lui una palpabile deficienza di raziocinio e senso pratico. Un governatore qui non può lasciarsi attrarre dai personaggi, ma deve mantenere rigidi princìpi, nel senso di salvaguardare la sovranità inviolabile dello Stato. È per questo motivo che, seguendo le sagge disposizioni del governo centrale, non mi soffermo sui casi isolati, per studiare unicamente le ragioni dei sacerdoti del Sinedrio che rappresentano l’organo del potere legittimo, atto a concordare con noi la soluzione di tutti i problemi di ordine politico e sociale».

48.           Publio si mostrò soddisfatto sull’argomento, ma le signore presenti, ad eccezione di Fulvia, sembravano profondamente impressionate dalla descrizione di Sulpicio, inclusa la piccola Flavia che aveva bevuto le parole con la massima curiosità infantile.

49.           Un velo di preoccupazione adombrò il volto di tutti i presenti, ma il governatore non si rassegnò all’atteggiamento generale ed esclamò: «Oh, questa, poi! Un littore che invece di far giustizia per il nostro bene, agisce contro noi stessi, turbando il nostro ambiente festoso, merita una severa punizione per i suoi racconti inopportuni!»

50.           Un riso generale fece seguito alle sue parole pompose e superficiali, mentre concludeva: «Scendiamo in giardino ad ascoltare nuova musica, liberando il cuore da queste inattese preoccupazioni».

51.           L’idea fu accettata con piacere da tutti.

*

52.           La piccola Flavia fu sistemata dalla padrona di casa in una stanza confortevole, e in pochi minuti i presenti si divisero in tre gruppi distinti attraverso i viali del giardino, illuminato da torce sfolgoranti al suono di musiche stravaganti e lascive.

53.           Publio e Claudia parlavano del paesaggio e della natura; Pilato moltiplicò le gentilezze accanto a Livia, mentre Sulpicio si mise al fianco di Fulvia, avendo il pretore Lentulo deciso di rimanere nell’archivio per esaminare alcune opere d’arte.

54.           Allontanandosi di proposito dagli altri gruppi, il governatore notò il pallore della compagna che, quella notte, gli sembrava ancora più attraente e più bella. Il rispetto che la sua bellezza discreta gli incuteva nell’anima, in quel momento sembrava accrescere l'ardore del suo cuore appassionato.

55.           «Nobile Livia», esclamò con emozione, «non posso trattenere più a lungo i sentimenti che le vostre virtù piene di bellezza mi ispirano. So del naturale rifiuto della vostra anima degna, di fronte alle mie parole, ma mi dispiace che non comprendiate il mio cuore vinto da questa ammirazione che mi distrugge...»

56.           «Io pure…», rispose la povera signora, con dignità ed energia spontanee, «…deploro di aver ispirato al vostro spirito una simile passione. Le vostre parole mi sorprendono amaramente, non solo perché partono da un patrizio investito delle alte responsabilità di procuratore di Stato, ma anche considerando l’amicizia fiduciosa e nobile che vi ha dedicato il mio sposo».

57.           «Ma nelle questioni di cuore», interruppe lui prontamente, «non possono prevalere le formalità delle convenzioni politiche, anche trattandosi delle più elevate. Possiedo dei miei doveri la più alta comprensione e so affrontare la soluzione di tutti i problemi della mia posizione, …ma non mi ricordo dove io possa avervi vista prima d’ora! La realtà è che da una settimana sento il cuore fatto a pezzi ed oppresso... Incontrandovi, m’è parso che mi si presentasse davanti questa immagine, adorala e non dimenticarla. Ho fatto di tutto per evitare questa scena sgradevole e penosa, ma, confesso che una forza invincibile mi confonde il cuore!»

58.           «V’ingannate, signore! Fra noi non può esistere altro legame eccetto quello ispirato dal rispetto verso l’identità delle nostre condizioni sociali. Se avete così alta considerazione dei vostri obblighi di ordine politico, non dovete dimenticare che l’uomo pubblico deve coltivare le virtù della vita privata sviluppando in se stesso la venerazione e l’incorruttibilità della propria coscienza».

59.           «Ma la vostra personalità mi fa dimenticare tutti questi imperativi. Dove vi avrei già vista, infine, per sentirmi avvinto in questo modo?»

60.           «Tacete! Per gli déi!» mormorò Livia impaurita e facendosi pallida. «Non vi ho mai visto prima del nostro arrivo a Gerusalemme, e faccio appello alla vostra cavalleria affinché mi risparmiate questi complimenti che mi amareggiano! Ho buoni motivi per credere alla vostra felicità coniugale accanto a una donna degna e pura, così come io la vedo, e giudico una pazzia le proposte che le vostre parole mi lasciano intendere».

61.           Pilato stava per proseguire con i suoi argomenti, quando la povera signora, amaramente sorpresa, si sentì mancare. Invano ella fece appello alle sue energie vitali per evitare lo svenimento.

62.           Vinta dal malore, si appoggiò a un albero del giardino dove si svolgeva la conversazione che abbiamo appena finito di seguire. Temendone le conseguenze, il governatore le prese la mano delicata e graziosa, torturato dai suoi inconfessabili pensieri, ma al suo solo contatto il fisico di Livia sembrò reagire con decisione e inflessibile fermezza.

63.           Riprendendo le forze, fece con la testa un lieve cenno di ringraziamento, mentre Publio e Claudia si avvicinavano ai due, ravvivandosi così la conversazione generale con soddisfazione di tutti. Tuttavia la scena provocata dalle dichiarazioni d’amore del governatore non rimase circoscritta solo ai due attori che l’avevano vissuta intensamente.

64.           Fulvia e Sulpicio l’avevano seguita nei suoi minimi particolari, attraverso squarci luminosi tra il fogliame scuro.

65.           «Ah, questa, poi!», esclamò il littore verso la compagna, commentando dettagliatamente la conversazione che abbiamo terminato di descrivere. «E com’è che hai già perduto le buone grazie del procuratore della Giudea?»

66.           A questa domanda, Fulvia, che a sua volta non staccava gli occhi dalla scena, tremò convulsamente, covando i più profondi sentimenti di gelosia e di dispetto.

67.           «Non rispondi?» continuò Sulpicio, godendosi lo spettacolo. «Perché mi allontani sempre, se ho da offrirti un sentimento profondo di devozione e lealtà?»

68.           L’interpellata rimase in silenzio al suo posto di osservazione, sconvolta da un’intima collera allorché vide che il governatore stringeva tra le sue mani la mano esanime della compagna, pronunciando parole che le sue orecchie non potevano udire, ma che i suoi bassi sentimenti presumevano d’indovinare in quel colloquio inaspettato.

69.           Non appena, però, Claudia e Publio apparvero sullo scenario, Fulvia si voltò verso il compagno, mormorando con voce roca: «Soddisferò tutti i tuoi desideri se mi aiuterai in una cosa».

70.           «Quale cosa?»

71.           «Mettere il senatore al corrente, al momento opportuno, dell’infedeltà di sua moglie».

72.           «Ma come?»

73.           «Prima di tutto, impedirai che Publio si stabilisca a Nazareth e li porterai più lontano, in modo da rendere più difficili le relazioni fra Livia e il governatore, in occasione della sua assenza da Gerusalemme, poiché sto presagendo che lei desidererà trasferirsi a Nazareth fra pochi giorni. In seguito cercherò di interferire personalmente, in modo che sia tu quello designato a proteggere il senatore nel suo periodo di riposo, e, una volta investito della carica, tu manovrerai gli avvenimenti in modo da realizzare i nostri piani. Fatto questo, io saprò ricompensare i tuoi sforzi e i tuoi buoni servizi di sempre con la mia assoluta dedizione».

74.           Il littore ascoltò la proposta, in silenzio, indeciso. Ma la sua interlocutrice, come se fosse ansiosa di suggellare la sinistra alleanza, domandò con voce decisa: «Tutto combinato?»

75.           «Di pieno accordo!» rispose Sulpicio già risoluto.

76.           E le due personificazioni dell’odio e della lascivia si riunirono al gruppo fraterno, con la maschera di apparenti allegrie, dopo aver stretto il patto tenebroso. L’ultima parte della festa fu dedicata ai saluti, con la tipica affabilità esteriore delle convenzioni sociali.

77.           Livia si astenne dal raccontare al marito la scena penosa del giardino, considerando non solo le sue esigenze di tranquillità interiore, ma anche l’importanza sociale delle personalità in gioco, promettendo a se stessa di evitare, ad ogni costo, qualsiasi espressione men che degna sul terreno dello scandalo, attraverso le parole.

 

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Cap. IV

IN GALILEA

1.                Il giorno immediatamente successivo a questi avvenimenti, alle prime ore del mattino Publio Lentulo fu cercato, nell’intimità del suo studio particolare, da Fulvia che gli si rivolse insidiosamente in questi termini: «Senatore, l’influenza delle nostre relazioni familiari mi obbliga a cercarvi per parlarvi di un argomento sgradevole e doloroso, ma per le mie esperienze di donna, mi preme consigliarvi di tener lontana vostra moglie dall’insidia degli stessi amici, poiché proprio ieri ho avuto occasione di sorprenderla in intimo colloquio con il governatore...»

2.                L’interpellato trovò strano quell’atteggiamento insolito, grossolano e contrario a tutte le sue norme di uomo dabbene. Respinse con dignità l’attacco, esaltando la nobiltà morale della sua sposa, sebbene Fulvia prendesse a raccontargli, con i più folli infiorettamenti della sua immaginazione malata, la scena del giorno prima nei suoi minimi dettagli.

3.                Il senatore rimase pensoso, ma si trovò nella precisa disposizione morale per respingere l’insinuazione calunniosa.

4.                «E va bene», disse lei, determinata a portare a termine la denuncia. «Approfittate troppo della vostra fiducia e della vostra buona fede. Un uomo non ha mai nulla da perdere ad ascoltare i consigli che nascono dall’esperienza femminile. La prova che Livia cammina sulla larga strada della trasgressione l’avrete molto presto, visto che lei preferirà la partenza immediata per Nazareth dove il governatore farà di tutto per incontrarla».

5.                E, dicendo questo, si ritirò rapidamente, lasciando il senatore alquanto confuso e preoccupato, pensando agli animi meschini che lo circondavano, perché in coscienza, non si sentiva disposto ad accettare l’idea che si venisse a offendere la fiera nobiltà di sua moglie.

6.                Un immenso velo d’ombre si distese sul suo spirito sensibile e innamorato. Capì che a Gerusalemme cospiravano contro di lui tutte le forze tenebrose del suo destino, e sentì un grande deserto scendere a coprirgli il cuore. Lì non avrebbe incontrato la parola prudente e generosa di un amico come Flaminio, con cui potersi sfogare delle sue profonde tristezze.

7.                Assorto in queste angosciose meditazioni, non si accorse che i petali delle ore volteggiavano incessantemente nei vortici del tempo. Solo molto dopo percepì la voce di uno dei servi di fiducia, dal quale venne a sapere che Sulpicio Tarquinio gli chiedeva il piacere di un incontro particolare, richiesta che egli accolse con la massima attenzione.

8.                Ammesso nel suo studio, il littore fece subito riferimento, senza preamboli, allo scopo della visita, spiegando con disinvoltura: «Senatore, onorato della vostra fiducia, nel caso di un vostro trasferimento per una stazione climatica, vi suggerisco di affittare una ricca proprietà che appartiene a un nostro connazionale nei dintorni di Cafarnao, una incantevole città della Galilea, situata sulla strada per Damasco. È vero che avete già scelto Nazareth, ma lungo la pianura di Esdrelon, le case confortevoli sono molto rare, e aggiungo che sareste obbligato ad enormi spese per adattamenti e migliorie. A Cafarnao, invece, il caso è differente. Ho lì un amico, Caio Grato, deciso ad affittare a tempo indeter­minato la sua splendida villa, che è una tenuta fornita di ogni conforto, con frutteti rari, in un ambiente di assoluta tranquillità».

9.                Il senatore ascoltò l’uomo di fiducia di Pilato come se il suo spirito si librasse da un’altra parte; ma, come se la sua attenzione si fosse all’improvviso risvegliata, esclamò con l’atteggiamento di chi stia parlando con se stesso: «Da Gerusalemme a Nazareth ci sono settanta miglia. ... Dove rimane Cafarnao?»

10.           «Molto lontano da Nazarethh», disse il littore, con un secondo fine.

11.           «Va bene, Sulpicio», rispose Publio con l’aria di chi ha preso un’intima decisione «Ti sono molto grato per la tua gentilezza, che non dimenticherò di compensare al momento giusto. Accetto il tuo suggerimento che ritengo sensato, anche perché non può interessarmi l’acquisto definitivo di un qualsiasi immobile nella Galilea, vista la necessità di ritornare a Roma, fra breve. Tu ritieniti autorizzato a concludere l’accordo, poiché mi fido delle tue informazioni, riponendo tutta la mia fiducia nella tua conoscenza di tali cose».

12.           Un’intima soddisfazione trasparì negli occhi di Sulpicio, che si congedò con simulata gratitudine.

13.           Publio Lentulo appoggiò nuovamente i gomiti sul tavolo di lavoro, immerso in profonde preoccupazioni. Il suggerimento di Sulpicio arrivava in un momento psicologico turbato da pensieri pieni di angoscia, sicché, di fronte a questa nuova decisione, sarebbe riuscito a sistemare la famiglia lontano da qualsiasi influenza della casa del procuratore della Giudea, salvando così la sua reputazione dagli schizzi ignobili della maldicenza.

14.           La denuncia di Fulvia, tuttavia, raddoppiava le preoccupazioni nel suo intimo. Sia per l’imprevedibilità della calunnia, sia per lo spirito di perversione con cui la medesima fu preparata, il suo pensiero s’immerse in un’ansiosa attesa.

*

15.           La notte di quello stesso giorno, dopo cena, lo incontriamo da solo con Livia, sul terrazzo della casa del pretore, il quale a sua volta si era assentato per alcune ore in compagnia dei suoi familiari per attendere a certi obblighi.

16.           Vedendo sul suo viso i segni evidenti di un profondo dispiacere, la moglie con l’incantevole intimità del suo cuore femminile, così proruppe: «Mio caro, mi dispiace vederti così, oppresso da grandi dispiaceri, benché questo lungo viaggio avrebbe dovuto restituirci la tranquillità necessaria per lo svolgimento dei tuoi incarichi. ... Oso chiederti di sollecitare il nostro trasferimento da Gerusalemme per un luogo più calmo dove starcene per conto nostro, fuori da questo circolo di creature le cui abitudini non sono le nostre e di cui non conosciamo i sentimenti. … Quando partiremo per Nazareth?»

17.           «Per Nazareth?» ripeté il senatore con voce irritata e cupa, come morso dallo spirito velenoso della gelosia, ricordando involontariamente le accuse infondate di Fulvia.

18.           «Sì», proseguì Livia, supplichevole e dolce, «perché, non erano stati questi i progetti ventilati ieri?»

19.           «È vero, cara!» esclamò Publio, già dispiaciuto e tornando in sé dai cattivi pensieri che aveva avuto per un istante. «Ma poi ho deciso di sistemarci a Cafarnao, contrariamente alle ultime decisioni...». E prendendo la mano della compagna come se cercasse un balsamo per la sua anima ferita, le sussurrò delicatamente: «Livia, tu sei tutto quello che mi resta in questo mondo! I nostri figli sono fiori della tua anima, che gli dei ci hanno dato per la mia gioia! ... Perdonami, cara, ...per quanto tempo ho vissuto assorto e taciturno, dimenticando il tuo cuore sensibile e affettuoso! Mi sembra di svegliarmi ora da un sonno molto doloroso e molto profondo, ma di svegliarmi con l’anima oppressa e piena di paura. Mi passano per la mente amare previsioni. ... Ho paura di perderti, quando invece vorrei stringerti al mio petto, custodendoti nel cuore eternamente. ...Perdonami!»

20.           Mentre lei lo contemplava, sorpresa, le labbra di lui assetate d’amore le coprivano le mani di baci ardenti. E in questa manifestazione di affetto non scaturirono solo i teneri baci. Una lacrima scivolò dai suoi occhi stanchi, mescolandosi ai fiori del suo amore.

21.           «Che cosa c’è, Publio? Tu piangi?» esclamò Livia, tenera e angosciata.

22.           «Sì, sento i geni del male circondarmi il cuore e la mente. Il mio animo è popolato di visioni tristi che preannunciano la fine della nostra felicità; ma io sono un uomo e sono forte. ... Cara, non negarmi la tua mano per attraversare insieme il cammino della vita, …perché con te vincerò l’impossibile!»

23.           Ella rabbrividì di fronte a queste osservazioni che non le erano familiari. In un attimo, ritornò alla sera prima e ripensò all’insolenza del governatore che lei aveva respinto degnamente, provando, insieme all’afflizione per il compagno, un’infinita tranquillità di coscienza.

24.           Prendendo delicatamente le mani del marito, lo guidò verso un angolo del terrazzo, dove si mise davanti a un’arpa armoniosa e antica, cantando sotto voce, come se la sua voce quella notte fosse il gorgheggio di un’allodola pugnalata:

«Anima gemella dell’anima mia,

fiore di luce della mia vita,

sublime stella caduta

dalle bellezze dell’infinito! ...

Quando io erravo nel mondo,

triste e sola, sul mio cammino

arrivasti, piano piano,

e colmasti il mio cuore.

 

Venisti con la benedizione degli dèi,

nel divino chiarore,

a tessere la mia felicità

con sorrisi di splendore! ...

Sei il mio tesoro infinito,

ti giuro eterna alleanza,

perché sono la tua speranza,

come tu sei tutto il mio amore!»[6]

25.           Si trattava di una composizione da lui creata da ragazzo secondo il gusto della gioventù romana, dedicata a lei stessa, e che il suo talento musicale teneva sempre in serbo per le circostanze speciali del loro sentimento.

26.           In quel momento, però, la sua voce ebbe tonalità differenti, come se avesse nascosto in gola un uccello divino, esiliato dagli splendidi prati del paradiso.

27.           All’ultima nota, piena di tristezza e angoscia indefinibili, Publio, forte e risoluto, la strinse dolcemente al petto, come se volesse trattenere per sempre nel cuore il suo gioiello d’inimmaginabile purezza.

28.           Ora, era Livia a piangere copiosamente tra le braccia del compagno, e questi la baciava con l’entusiasmo della sua anima leale e, a volte, impulsiva.

29.           Dopo quell’esplosione emotiva, Publio si sentì rasserenato e soddisfatto.

30.           «Perché non ritorniamo a Roma quanto prima?» domandò Livia come se il suo spirito fosse illuminato da luci profetiche riguardo i giorni futuri. «Insieme ai nostri figli, riprenderemo i nostri obblighi abituali, consapevoli che la lotta e la sofferenza ci accompagnano in ogni luogo e che ogni gioia indica, in questo mondo, una benedizione degli dei».

31.           Il senatore rifletté sulla proposta della compagna e, facendo tra sé e sé l’analisi di tutta la situazione, alla fine rispose: «La tua osservazione è giusta e opportuna, mia cara, ma cosa direbbero i nostri amici quando venissero a sapere che, dopo i tanti sacrifici del viaggio, abbiamo deciso di fermarci ap­pena una settimana in una regione così distante? E la nostra piccola malata? Il suo organismo non ha forse reagito in modo efficace al nuovo clima? Rimaniamo qui fiduciosi e tranquilli. Affretterò la partenza per Cafarnao e, in pochi giorni, saremo in un nuovo ambiente, secondo i nostri desideri».

32.           E così in realtà accadde.

*

33.           Reagendo alle vibrazioni negative dell’ambiente, Publio Lentulo provvide alla soluzione di tutti i problemi relativi al cambiamento di casa, facendo orecchie da mercante alle allusioni maligne di Fulvia, mentre Livia, rifugiandosi nella superiorità della sua anima, cercava di isolarsi nel suo piccolo mondo d’amore dei suoi due figlioletti, sfuggendo alla presenza del governatore che non aveva desistito dai suoi assedi, e rimanendo accanto a Claudia, che era una persona nobile sapendo suscitare in tutti la più sincera simpatia.

34.           Due serve furono assegnate al servizio della famiglia, in previsione del trasferimento a Cafarnao; non che fossero indispensabili al disbrigo dei lavori di casa, a fronte dei numerosi servi portati da Roma, ma il senatore aveva esaminato l’utilità di questa decisione, pensando che lui e la famiglia avrebbero avuto bisogno di un contatto più diretto con i costumi e i dialetti del popolo, accertata la circostanza che le due conoscevano bene la Galilea.

35.           Anna e Semele, raccomandate da amici del pretore, furono accolte al servizio di Livia, che le ricevette con bontà e simpatia. Furono impiegati trenta giorni nei preparativi del progettato viaggio.

36.           Sulpicio Tarquinio, spinto dai vantaggi dei propri interessi materiali, non perse occasione per guadagnarsi la piena fiducia del senatore, organizzando la residenza in tutti i particolari con ogni attenzione e gentilezza, suscitando la soddisfazione e gli elogi di tutti.

37.           Alla vigilia della partenza, Publio Lentulo si recò nello studio di Pilato per i ringraziamenti e i saluti del commiato.

38.           Dopo averlo salutato cordialmente, il governatore con giovialità forzata esclamò: «Mi dispiace, caro amico, che le circostanze ti portino a Cafarnao, quando speravo di avere la soddisfazione di trattenerti nelle vicinanze della nostra casa, a Nazareth. Ma finché rimarrai in Galilea, invece delle mie abituali visite a Tiberiade, cercherò di venire più a nord per incontrarci».

39.           Publio gli manifestò la sua gratitudine e riconoscenza e, mentre si accingeva ad andarsene, il procuratore della Giudea continuò in tono affettuoso e paternalistico: «Senatore, non solo come responsabile della situazione dei patrizi nella provincia, ma anche in qualità di amico sincero, non posso lasciarti partire così, alla mercé del caso, solamente in compagnia di schiavi e servi sia pure di fiducia. Ho appena scelto Sulpicio, uomo che si è meritata tutta la mia stima, per dirigere i servizi di sicurezza che sono dovuti a te e alla tua famiglia. Oltre a lui, un altro littore e alcuni centurioni partiranno per Cafarnao, dove rimarranno ai vostri ordini».

40.           Publio ringraziò cortesemente, sentendosi confortato dall’offerta, nonostante la persona del governatore gli infondesse ben poca simpatia intima.

41.           Finalmente, terminati i preparativi del viaggio, la numerosa carovana si mise in movimento, attraversando i territori della Giudea e le montagne verdi della Samaria, in direzione del luogo di destinazione. Alcuni giorni furono spesi attraverso strade che fiancheggiavano molte volte le acque leggere e limpide del Giordano.

42.           Poco prima di arrivare a Cafarnao, a una distanza di mezzo chilometro di cammino, fra alberi frondosi vicino al lago di Genezaret, una tenuta imponente aspettava i nostri personaggi per una tappa di riposo. Sulpicio Tarquinio si era prodigato fin nei minimi particolari secondo quanto dettava lo stile dell’epoca.

43.           La proprietà era situata su una piccola collina circondata da alberi da frutto dei climi freddi, poiché duemila anni fa la Galilea, oggi trasformata in un deserto pieno di polvere, era un paradiso verdeggiante. Nei suoi paesaggi meravigliosi sbocciavano fiori di tutti i tipi. Il suo grande lago, formato dalle acque cristalline del fiume sacro del cristianesimo, era forse il più pescoso bacino di tutto il mondo, infrangendosi le sue onde calme e dolci ai piedi delle siepi ricche di linfa, le cui radici erano piene del profumo agreste degli oleandri e dei fiori di campo. Stormi di uccelli graziosi coprivano, in gruppi compatti quelle acque fatte di un prodigioso azzurro celeste, oggi incanalate fra rocce taglienti e ardenti.

44.           A nord, le cime nevose del monte Hermon si delineavano in una cresta allegra e bianca, mentre a occidente si potevano vedere le immense pianure della Galizia e della Perea avvolte dal Sole, formare insieme il grande altopiano che si protende da Cesarea di Filippo verso sud. Una vegetazione meravigliosa e unica produceva un’emissione incessante di aria pura, attenuando il caldo della regione, laddove il lago si trovava, molto al di sotto del livello del Mediterraneo.

45.           Publio e sua moglie sentirono come un’ondata di vita nuova, che respirarono a pieni polmoni. La stessa cosa, però, non accadeva alla piccola Flavia, il cui stato generale peggiorava sempre di più, contro tutte le previsioni.

46.           Si aggravarono le ferite che le ricoprivano il corpicino magro, e la povera bimba non riusciva più a levare i piedi dal letto, dove se ne stava in profonda prostrazione.

47.           Aumentava, in questo modo, l’angoscia del padre che, inutilmente, ricorse a tutti i mezzi per migliorare le condizioni della piccola malata.

48.           Era trascorso un mese da quando erano arrivati a Cafarnao dove, maggiormente in contatto con i dialetti del popolo, non era ormai loro sconosciuta la fama delle opere e delle predicazioni di Gesù.

49.           Molte volte Publio pensò di rivolgersi al taumaturgo, per chiedere il suo intervento in favore della figlia, ascoltando un richiamo segreto del cuore. Nel suo intimo, però, riconosceva che un simile atto rappresentava un’umiliazione, per la sua posizione politica e sociale, agli occhi dei plebei e dei vassalli dell’Impero, e andava esaminando le conseguenze che sarebbero potute scaturire da un tale comportamento. Nonostante queste considerazioni, permetteva che numerosi servi della sua casa assistessero, al sabato, alle prediche del profeta di Nazareth, inclusa Anna, che nutriva una rispettosa ve­nerazione per Colui che gli umili chiamavano “Maestro”.

50.           Di Lui gli schiavi raccontavano storie meravigliose, nelle quali il senatore non vedeva nulla di più che gli entusiasmi istintivi dell’anima popolare, per quanto non negasse di rimanere sorpreso dall’opinione lusinghiera di un uomo come Sulpicio.

51.           Un pomeriggio, però, le sofferenze della piccola avevano raggiunto l’acume. Oltre alle ferite che da parecchi anni si erano moltiplicate nel corpo grazioso, altre ferite erano apparse in altre parti del corpo; dapprima come segni violacei, avevano in seguito trasformato i suoi organi delicati in una piaga viva. Publio e Livia, intimamente costernati, sentivano vicina la fine.

52.           Quel giorno, dopo una cena molto frugale, Sulpicio si trattenne più del solito col pretesto di confortare il senatore con la sua presenza.

53.           E così li incontriamo tutti e due sul grande terrazzo, dove Publio gli parla in questi termini: «Amico mio, che cosa mi dici di queste voci che circolano sul profeta di Nazareth? Abituato a non dare ascolto alle parole ignoranti del popolo, gradirei ascoltare nuovamente le tue impressioni su quest’uomo straordinario».

54.           «Ah, sì!», disse Sulpicio, come chi si sforza di ricordare qualcosa. «Affascinato da quella scena a cui fui presente tempo addietro e che ebbi occasione di raccontare a casa del governatore, ho cercato di seguire le attività di quest’uomo, compatibilmente con il tempo a mia disposizione. Alcuni nostri compatrioti lo ritengono un visionario, opinione che condivido per quanto si riferisce alle sue prediche, piene di parabole incomprensibili, ma non per quanto concerne le sue opere, che ci toccano il cuore. Il popolo di Cafarnao è stupito dai suoi miracoli, e posso assicurarvi che intorno a Lui si è già formata una comunità di discepoli devoti, disposti a seguirlo in ogni dove».

55.           «Ma, in conclusione, che cosa insegna Egli alle moltitudini?» domandò Publio interessato.

56.           «Predica alcuni principi che colpiscono le nostre più antiche tradizioni, come, per esempio, la dottrina dell’amore verso i propri nemici e la fraternità assoluta fra tutti gli uomini. Esorta i suoi ascoltatori a cercare il regno di Dio e la sua giustizia, ma non si tratta di Giove, il signore delle nostre divinità; al contrario, parla di un Padre misericordioso e pieno di compassione, il quale ci segue dall’Olimpo e al quale sono chiare le nostre idee più nascoste. Altre volte, il profeta di Nazareth si esprime intorno al regno dei Cieli con apologhi interessanti e incomprensibili, nei quali ci sono re e prìncipi creati dalla sua immaginazione sognatrice, che mai potrebbero essere esistiti.

57.           Il peggio, però…», concluse Sulpicio, imprimendo un tono grave alle sue parole, «…è che quest’uomo singolare, con questi princìpi di un nuovo regno, appare alla mentalità popolare come un principe sorto per rivendicare prerogative e diritti dei giudei, dei quali, forse, vuole un giorno assumere il comando...»

58.           «Quali provvedimenti adottano le autorità della Galilea, esaminando queste idee rivoluzionarie?» domandò il senatore, con maggior interesse.

59.           «Appaiono già i primi indizi di reazione da parte degli elementi più legati ad Antipa. Alcuni giorni fa, quando passai per Tiberiade, notai che si formavano alcune correnti di opinione, nel senso di presentare l’argomento all’esame delle alte autorità».

60.           «Si vede bene…», esclamò il senatore, «…che si tratta di un semplice uomo del popolo, al quale il fanatismo dei templi giudei ha acceso pruriti di rivendicazioni ingiustificabili. Suppongo che l’autorità amministrativa non abbia nulla da temere da un simile predicatore, maestro di una umiltà e di una fraternità incompatibili con le conquiste contemporanee. D’altra parte, a sentire dalla tua bocca la descrizione delle sue azioni, sento che quest’uomo non può essere una creatura tanto volgare, come andiamo supponendo».

61.           «Desiderereste conoscerlo più da vicino?» domandò Sulpicio premuroso.

62.           «No, assolutamente!», rispose Publio, ostentando superiorità. «Un tale atteggiamento da parte mia inficerebbe la dignità dei doveri che mi competono come uomo di Stato, poiché sgretolerebbe la mia autorità agli occhi del popolo. Anzi, penso che i sacerdoti e i predicatori della Palestina dovrebbero fare corsi di lavoro e di studio nella sede del governo imperiale, al fine di rinnovare questo spirito di profetismo che qui si vede in ogni parte. A contatto del progresso di Roma, modificherebbero i loro intimi concetti circa la vita, la società, la religione e la politica».

63.           Mentre i due tenevano questa conversazione sulla personalità e gli insegnamenti del Maestro di Nazareth, penetriamo all’interno della casa. Nella camera della malata incontriamo Livia e Anna, le quali stavano medicando le ferite che coprivano l’epidermide della piccola inferma, ormai trasformate in un’unica grande piaga.

64.           Anna, cuore buono e delicato, di poco più vecchia della signora, si era trasformata nella sua compagna prediletta nell’ambito delle faccende domestiche. In quel deserto di cuori, lei era quella serva intelligente e affettuosa, tanto che l’anima sensibile di Livia aveva incontrato un’oasi per le sue confidenze e le sue lotte di ogni giorno.

65.           «Ah, signora…», esclamò la serva con un affetto così sincero da trasparirle dagli occhi e dai gesti, «…custodisco nel cuore una profonda fede nei miracoli del Maestro, e credo proprio che, se portassimo questa bambina a ricevere la benedizione dalle sue mani, tutte le ferite guarirebbero, e voi stessa risorgereste nel vostro amore materno. ... Chissà se…»

66.           «Purtroppo…», rispose Livia, con prudenza e tristezza, «…io non oserei a rievocare questa opportunità, sapendo che Publio rifiuterebbe, data la nostra posizione sociale, ma francamente desidererei vedere quest’uomo straordinario pieno di carità di cui mi parli sempre ».

67.           «Proprio sabato scorso, signora,» rispose la serva, incoraggiata dalle parole di simpatia appena udite, «il Profeta di Nazareth ha tenuto nelle sue braccia molti bambini. Sceso dalla barca di Simone, noi lo aspettavamo in massa per bere i suoi insegnamenti che consolano. Siamo accorsi verso di Lui, ansiosi tutti di ricevere anche i sacri effluvi della sua presenza confortatrice ma, quel giorno, molte madri erano presenti alla predica, portando con sé bambini che si mescolavano nella gazzarra assordante, come uno stormo di passerotti incoscienti. Simone e altri discepoli cominciarono a riprendere severamente i bambini, affinché non perdessimo l’incanto soave e dolce delle parole del Maestro. Ma quando meno ce l’aspettavamo, Egli si sedette su una semplice pietra ed esclamò con indicibile tenerezza: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di loro è il regno dei cieli!” Si fece allora un prodigioso silenzio fra tutti i presenti di Cafarnao e fra i pellegrini che erano arrivati da Corazim e da Magdala, mentre quei piccoli birichini si gettavano tra le sue braccia amorose, baciandogli la tunica con infinita allegria.

68.           Molti di quei bambini erano infermi che le madri avevano portato alle predicazioni sul lago, perché fossero curati da vecchie piaghe o da mali considerati incurabili».

69.           «Quello che mi racconti è di una bellezza edificante», esclamò Livia, profondamente commossa, «ma possedendo io tutti i mezzi materiali, sento che non potrò ricevere i grandi benefici del tuo Maestro».

70.           «Ed è un peccato, signora, perché molte donne di alta posizione sociale lo accompagnano nella città. Non siamo solo noi, i più umili, a seguirlo nelle sue predicazioni ma molte distinte signore di Cafarnao, mogli di funzionari di Erode e di pubblicani, assistono alle lezioni ricche d’amore del lago, confondendosi coi poveri e con gli schiavi. E il Profeta non disdegna nessuno. Invita tutti nel regno di Dio e tutti affida alla Sua giustizia. Contrariamente a tutti gli inviati del cielo che conosciamo, Egli evita i favoriti dalla sorte, per intrattenersi con le creature più infelici, considerando tutti come fratelli molto cari al suo cuore...»

71.           Livia ascoltava attenta e rapita le parole della serva. La figura di quell’uomo, buono e famoso, esercitava un’attrazione singolare sul suo spirito. E, mentre i suoi grandi occhi esprimevano il più grande interesse per i racconti incantevoli e semplici della serva sincera, entrambe non si accorsero che la piccola malata le ascoltava con acuta curiosità, caratteristica delle anime infantili, nonostante la febbre alta le divorasse l’organismo.

72.           In quel momento, il senatore, dopo il commiato di Sulpicio, entrò nella camera della piccola inferma, seguendo il suo istinto paterno.

73.           Di fronte a lui, le due donne ammutolirono, dedicandosi solamente alle faccende che le trattenevano vicino al letto della piccolina, che gemeva dolorosamente.

74.           Publio Lentulo si chinò sul letto della figlia, con gli occhi colmi di lacrime. Giocò con le sue manine magre e ferite, facendole festa, con il cuore ferito da infinita amarezza. «Figlia mia, che cosa desideri oggi per dormire meglio?» domandò con la voce tremante, strappando lacrime agli occhi di Livia. «Ti comprerò molti balocchi e molte cose nuove... Di’ al tuo papà che cosa desideri...»

75.           Una copiosa secrezione sgorgò dalle escrescenze ulcerose della piccola malata, la quale lasciava trasparire una dolorosa ansietà. Si notava in lei un grande sforzo, come se stesse facendo l’impossibile per rispondere alla domanda paterna.

76.           «Parla, figlia mia», mormorò Publio, quasi soffocato, notando il suo desiderio di pronunciare una risposta. «Andrò a prenderti tutto quello che vorrai... Manderò appositamente un corriere a Roma perché ti porti tutti i tuoi giocattoli...»

77.           Dopo un visibile sforzo, la piccola riuscì a mormorare con voce flebile e quasi impercettibile: «Padre... io voglio... il profeta... di Nazareth...»

78.           Il senatore abbassò gli occhi, umiliato e confuso, di fronte all’imprevedibilità di quella risposta, mentre Livia e Anna, come se fossero state toccate da una forza invisibile e misteriosa per quella scena improvvisa, nascosero il volto inondato di lacrime.

 

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Cap. V

IL MESSIA DI NAZARETH

1.                Il giorno seguente spuntò portando le più serie preoccupazioni a Publio e alla sua famiglia. Ancora presto lo incontriamo in intimo colloquio con la sposa, che si rivolge a lui con voce supplichevole e affettuosa: «Penso, caro, che tu dovresti attenuare un poco la rigorosità della posizione in cui il destino ci ha collocati, cercando quest’uomo generoso per il bene di nostra figlia. Tutti parlano dei suoi atti e sono impressionati dalla sua edificante bontà; io credo che il suo cuore si muoverà a pietà per la nostra infelice situazione».

2.                Il senatore l’ascoltava, preoccupato e incerto, esclamando infine: «E va bene, Livia; mi piegherò ai tuoi desideri, ma solo la pena che abbiamo nell’anima mi costringe a scendere a patti in modo così grossolano, con i miei principi. Non procederò, tuttavia, secondo quanto tu suggerisci. Andrò da solo in città, come se mi trovassi lì per un semplice trattenimento, passando per quel tratto di strada che porta alla riva del lago, senza arrivare al colmo di abbordare personalmente il profeta, in modo da non svilire la mia dignità sociale e politica e, nel caso sorga qualche circostanza favorevole, gli farò intendere il piacere che ci farebbe una sua visita, per rianimare la nostra malata».

3.                «Molto bene», disse Livia grata e confortata, «custodisco nella mia anima la più sincera e profonda fede. Sì, vai, caro, ... rimarrò in casa chiedendo la benedizione dei cieli per il nostro piano. Il profeta che ora appare come un vero medico delle anime, saprà che dietro la tua posizione di senatore dell’Impero, …ci sono cuori che soffrono e piangono!»

4.                Publio notò che la moglie si esaltava nelle sue considerazioni, lasciandosi trasportare da quello che egli giudicava un eccesso di debolezza e sentimentalismo, ma non la riprese affatto al riguardo e di fronte alle amarezze del momento, capaci di sconvolgere la mente più resistente.

*

5.                Lasciò che le ore movimentate del giorno svanissero con le ultime luci del tramonto, e quando il crepuscolo diffuse i suoi chiaroscuri sul paesaggio meraviglioso, uscì, fingendo indifferenza e distrazione, come se desiderasse conoscere da vicino l’antica fontana della città, motivo d’attrazione per tutti i forestieri. Dopo aver percorso circa trecento metri di cammino, incontrò passanti e pescatori che tornavano a casa e lo guardarono con malcelata curiosità.

6.                Trascorse circa un’ora sulle sue amare intime riflessioni. Un velo immenso di ombre scese su tutta la regione, piena di vitalità e di profumi. Dove sarà stato il profeta di Nazareth in quel momento? Non sarà un’illusione la storia dei suoi miracoli e della sua incantatrice magia sulle anime? Non sarebbe assurdo cercarlo sulla strada, sottraendosi alle esigenze della posizione sociale? In ogni caso doveva trattarsi di un uomo semplice e ignorante, vista la sua predilezione per Cafarnao e per i pescatori. Riflettendo sulle idee che gli affluivano alla mente in fiamme e avvilita, Publio Lentulo ritenne molto improbabile l’ipotesi di un suo incontro col Maestro di Nazareth.

7.                Come si sarebbero capiti? Non lo aveva interessato la conoscenza minuziosa dei dialetti del popolo, e certamente Gesù gli avrebbe parlato in aramaico, dialetto comunemente usato nella regione del Tiberiade. Profondi dubbi gli ronzavano dal cervello al cuore, come le ombre del crepuscolo che precedono la notte. Il cielo, però, a quell’ora era di un blu meraviglioso, mentre il chiarore opalescente della Luna non aveva atteso la chiusura assoluta dell’immenso ventaglio della notte.

8.                Il senatore sentì il cuore sprofondare in un abisso di infiniti pensieri, ascoltandone il palpitare alterato nel petto oppresso. Una dolorosa emozione gli stringeva ora le fibre più intime dello spirito. Inconsapevolmente si era appoggiato a un panchina di pietra, ornata da siepi di rovo, ed era rimasto lì ad esplorare l’infinito del pensiero. Mai aveva provato una simile sensazione; solo nel memorabile sogno, raccontato unicamente a Flaminio. Ricordava i minimi particolari della sua vita terrena, ma gli sembrò di aver abbandonato temporaneamente il carcere del corpo materiale. Avvertì una profonda estasi davanti alla natura e alle sue meraviglie, senza sapere come esprimere la sua ammirazione e la sua gratitudine ai poteri celesti; tale era lo straniamento in cui sempre aveva mantenuto il cuore irrequieto e orgoglioso.

9.                Dalle acque calme del lago di Genezareth gli sembrava provenissero soavissimi profumi che si univano deliziosamente all’aroma agreste delle fronde. Fu in quel momento, mentre il suo spirito era come sotto il comando di uno strano e soave magnetismo, che udì i passi delicati di qualcuno che si dirigeva verso quel luogo. Davanti ai suoi occhi ansiosi, si distingueva una personalità inconfondibile e unica. Si trattava di un uomo ancora giovane, che lasciava trasparire dagli occhi, profondamente misericordiosi, una bellezza soave e indefinibile. Lunghi e morbidi capelli gli incorniciavano il volto compassionevole, come se fossero fili castani, lievemente dorati da una luce sconosciuta. Con un sorriso divino, che rivelava immensa bontà e allo stesso tempo straordinaria energia, Egli irradiava dalla sua melanconica e maestosa figura un fascino irresistibile.

10.           Publio Lentulo non ebbe difficoltà a riconoscere quella creatura impressionante, ma nel suo cuore si agitarono ondate di sentimenti che fino a quel momento gli erano del tutto ignoti. Nemmeno la sua presentazione a Tiberio, nella magnificenza di Capri, gli aveva provocato una simile commozione nel cuore. Lacrime cocenti gli scesero dagli occhi, che rare volte avevano pianto, e una forza misteriosa e invincibile lo fece inginocchiare sull’erba inondata dal chiaro di Luna. Desiderò parlare, ma aveva il petto soffocato e oppresso.

11.           Fu allora che, in un gesto di dolce e di sovrana bontà, il semplice Nazareno camminò verso di lui, quale visione concretizzata di uno degli dèi delle sue antiche credenze e, appoggiando affettuosamente la destra sulla sua fronte, esclamò in un linguaggio carismatico, che Publio intese perfettamente come se stesse ascoltando la sua lingua patria, dandogli l’indimenticabile impressione che la parola era da spirito a spirito, da cuore a cuore: «Senatore, perché mi stai cercando?» e spaziando lo sguardo profondo sul paesaggio come se desiderasse che la sua voce fosse ascoltata da tutti gli uomini del pianeta, concluse con serena nobiltà: «Sarebbe stato meglio che mi avessi cercato pubblicamente e nell’ora più chiara del giorno, perché tu potessi acquisire in una sola volta e per tutta la vita, la lezione sublime della fede e dell’umiltà... Ma io non sono venuto al mondo per violare le leggi supreme della natura, e vengo incontro al tuo cuore triste

12.           Publio Lentulo non riuscì ad esprimere nulla, oltre alle sue copiose lacrime, pensando amaramente alla figlia; ma il profeta, come se non considerasse le sue parole appena pronunziate, continuò: «... non vengo a cercare l’uomo di Stato, superficiale e orgoglioso, che solo secoli di sofferenza possono guidare verso le braccia del Padre mio; vengo per attendere alle suppliche di un cuore infelice e oppresso. Ma anche così, amico mio, non è il tuo sentimento che salva la figlia lebbrosa e senza speranza per la scienza del mondo, poiché tu hai ancora una razionalità egoistica e umana; bensì è la fede e l’amore di tua moglie, poiché la fede è divina... Basta un solo raggio delle sue poderose energie, …perché si polverizzino tutti i monumenti delle vanità della Terra».

13.           Commosso e rapito, il senatore pensò intimamente che il suo spirito si stava librando in un’atmosfera di sogno, tali e tante erano le commozioni sconosciute e impreviste che gli si accumulavano nel cuore, e volle credere che i suoi sensi reali si trovassero incastrati in un gioco incomprensibile e di completa illusione.

14.           «No, amico mio, tu non stai sognando...» esclamò dolce ed energico il Maestro, scorgendo i suoi pensieri. «Dopo lunghi anni di deviamento dal buon cammino, attraverso un sentiero di errori clamorosi, tu incontri oggi un punto di riferimento per la rigenerazione di tutta la tua vita. Dipende però dalla tua volontà approfittarne ora, …o da qui ad alcuni millenni. Se lo sviluppo della vita umana è subordinato alle circostanze, tu sei obbligato a considerare che esse esistono di tutti i tipi, poiché spetta alle creature l’obbligo di esercitare il potere della volontà e del sentimento, cercando di avvicinare i destini delle correnti del bene e dell’amore ai loro simili. Per il tuo spirito, in questo istante, suona un momento glorioso, se riesci ad utilizzare la tua libertà perché sia esso, nel tuo cuore, d’ora in avanti, un cantico d’amore, di umiltà e di fede, nell’ora indeterminabile della redenzione, …dentro l’eternità. Ma nessuno potrà agire contro la tua coscienza, se tu vuoi disprezzare, senza limiti, questo prezioso minuto! Pastore delle anime umane, fin dalla formazione di questo pianeta, da molte migliaia di anni vengo per cercare di riunire le pecore smarrite, …per tentare di portare nei loro cuori le gioie eterne del regno di Dio e della Sua giustizia».

15.           Publio fissò quell’uomo straordinario, la cui franchezza provocava ammirazione e timore. Umiltà? Quali credenziali gli presentava il profeta per parlargli così? A lui, senatore dell’Impero, investito di tutti i poteri, davanti a un vassallo? In un attimo ricordò la città dei Cesari, ricoperta di trionfi e glorie, i cui monumenti e poteri egli credeva, in quel momento, che fossero immortali.

16.           «Tutti i poteri del tuo Impero sono ben fragili e tutte le sue ricchezze ben miserabili... Le magnificenze dei Cesari sono illusioni effimere di un giorno, perché tutti i savi, come pure tutti i guerrieri, sono chiamati al momento opportuno davanti ai tribunali della giustizia del Padre mio che sta in Cielo. Un giorno cesseranno di esistere le sue poderose aquile sotto un pugno di miserabilissime ceneri. Le sue scienze si trasformeranno al soffio degli sforzi di altri operai più degni del progresso, le sue leggi inique saranno inghiottite dall’abisso tenebroso di questi secoli di empietà, perché una sola legge esiste e sopravvivrà alle rovine dell’inquietudine dell’uomo: …la legge dell’amore istituita dal Padre mio fin dal principio della creazione! Ora, torna a casa, consapevole delle responsabilità del tuo destino. ... Se la fede avrà portato nella tua casa ciò che ritieni sia la gioia con la guarigione di tua figlia, non dimenticarti che questo rappresenta un aumento di doveri per il tuo cuore, …davanti al Padre nostro onnipotente

17.           Il senatore voleva parlare, ma la voce gli si ruppe in gola per la commozione e per i profondi sentimenti. Desiderava ritirarsi. Ma in quel momento notò che il profeta di Nazareth si trasfigurava, …gli occhi rivolti al cielo.

18.           Quel luogo doveva essere un santuario delle sue meditazioni e delle sue preghiere, nel cuore profumato della natura, perché Publio intuì che pregava intensamente, osservando che lacrime copiose gli bagnavano il viso, illuminato da una tenue luce, evidenziando la sua bellezza serena e la sua indefinibile melanconia...

19.           In quel momento, tuttavia, un soave torpore paralizzò le facoltà di osservazione del patrizio, che si acquietò impaurito. Dovevano essere circa le ore ventuno, quando il senatore avvertì che si stava svegliando. Una lieve brezza gli accarezzava i capelli e la Luna spandeva i suoi raggi argentei nello specchio bello ed immenso delle acque.

20.           Serbando nella memoria i minimi particolari di quel momento indimenticabile, Publio si sentì umiliato e sminuito, per la fragilità di cui aveva dato prova di fronte a quell’uomo straordinario.

21.           Un torrente di idee contrastanti gli si accumulava nel cervello circa i suoi avvertimenti e le sue parole, ora custodite per sempre nella parte più intima della sua coscienza. E Roma, non possedeva anch’essa i suoi indovini? Cercò di ricordare tutti i drammi misteriosi della città lontana, con le sue figure impressionanti e incomprensibili. Non avrebbe potuto essere quell’uomo una copia fedele dei maghi e interpreti di sogni, che ugualmente preoccupavano la società romana?

22.           Egli avrebbe dovuto, allora, abbandonare le sue più care tradizioni di patria e famiglia, per diventare un uomo umile e fratello di tutte le creature? Sorrise con se stesso, nella sua presunta superiorità, esaminando l’inutilità di quelle esortazioni che considerava poco apprezzabili. Allo stesso tempo gli sali­rono dal cuore alla mente altri richiami commoventi. Non aveva parlato il profeta dell’opportunità unica e meravigliosa? Non aveva promesso, con fermezza, la guarigione della figlia per merito della fede ardente di Livia?

23.           Sprofondato in questi intimi pensieri, entrò con cautela in casa, dirigendosi ansioso verso la camera della malata, e... Oh, dolce miracolo! La figlia riposava nelle braccia di Livia con serenità assoluta.

24.           Una sovrumana e sconosciuta forza le aveva mitigato le atroci sofferenze, poiché i suoi occhi lasciavano intravedere una dolce soddisfazione infantile che le illuminava il viso sorridente. Livia gli raccontò allora, piena di gioia materna, che a un certo momento la piccina aveva detto di sentire sulla sua fronte il contatto di mani gentili, e sedette poi sul letto, come se un’energia misteriosa le rivitalizzasse l’organismo in modo imprevisto. Si era alimentata, e la febbre era scomparsa contro ogni aspettativa; ella già mostrava atteggiamenti da convalescente, parlando con la madre con la grazia spontanea della sua fanciullezza.

25.           Finito il racconto, la giovane signora concluse con entusiasmo: «Fin da quando sei uscito, Anna ed io abbiamo pregato con fervore vicino alla nostra piccola malata, chiedendo al profeta di esaudire la tua supplica, ascoltando le nostre preghiere, …ed ecco che ora la nostra cara figlia si ristabilisce! Potrà esistere, mio caro, …felicità maggiore di questa? Ah! Gesù deve essere un messaggero diretto di Giove, mandato in questo mondo in gloriosa missione di amore e di gioia per tutte le anime!»

26.           Anna, però, che ascoltava commossa, intervenne in uno slancio spontaneo e irrefrenabile, che nasceva dalla grata soddisfazione di quel momento: «No, mia signora! … Gesù non viene da parte di Giove. Egli è Figlio di Dio, Padre Suo e Padre nostro, che sta nei Cieli e il cui cuore è sempre pieno di bontà e misericordia per tutti gli esseri, secondo quello che il Maestro ci insegna. Lodiamo quindi l’Onnipotente per la grazia ricevuta, …ringraziando Gesù con un’orazione di umiltà».

27.           Publio Lentulo seguì la scena in silenzio, profondamente contrariato nel vedere la stretta intimità di sua moglie con una semplice serva di casa. Osservò con grande disappunto non solo la spontaneità della gratitudine entusiasta di Livia, ma anche l’interferenza di Anna nella conversazione, cosa che egli consi­derava un’impudenza. Di scatto mobilitò tutte le riserve del suo orgoglio per ristabilire la disciplina all’interno della sua casa e, riprendendo la sua espressione altezzosa, seccamente si rivolse alla moglie: «Livia è necessario che tu ti astenga da questi entusiasmi. In conclusione, non vedo nulla di straordinario in ciò che è appena avvenuto. Nulla è mancato alla nostra malata, in relazione al trattamento e alle cure necessarie, ed era logico che ci aspettassimo una reazione salutare del suo organismo, data la nostra continua assistenza. Quanto a te, Anna…», disse rivolgendosi con arroganza alla serva intimorita, «…credo che sia terminato il compito che ti tratteneva in questa camera, perciò, considerando i miglioramenti della bambina, non vedo la necessità della tua permanenza accanto alla padrona, che da Roma ha portato serve in abbondanza per il suo servizio personale».

28.           Anna guardò tristemente la signora che mostrava sul viso i segni evidenti della sua amarezza per quelle impreviste e furiose parole, e facendo una leggera e rispettosa riverenza uscì da quella camera dove aveva profuso le migliori energie della sua fraterna abnegazione.

29.           «Che succede, Publio?» domandò Livia, profondamente emozionata. «Proprio ora, quando dovremmo dimostrare alla serva devota la gioia della nostra gratitudine, tu agisci con una simile durezza?»

30.           «Sono i tuoi infantilismi che mi obbligano a farlo. Cosa diranno della matrona che si offre con anima aperta alle sue schiave più umili? Come si comporterà il tuo cuore con questi eccessi di confidenza? Noto con dispiacere che tra noi esistono, ora, profonde divergenze. Perché questa esagerata fiducia nel profeta di Nazareth, quando Egli non è superiore ai maghi e agli indovini di Roma? E, oltre a ciò, dove metti le tradizioni delle nostre divinità familiari, se non sai osservare la fede per il nostro altare domestico?»

31.           «Non concordo con te, caro, su queste idee. Ho la piena convinzione che la nostra Flavia è stata curata da questo uomo straordinario... Nel momento del suo miglioramento improvviso, quando ella ci parlava delle mani soprannaturali che l’accarezzavano, io ho visto, con i miei occhi, che il letto della bambina era inondato da una luce differente, …come non ne avevo mai vista fino a quel momento».

32.           «Luce differente? Certamente tu stai delirando dopo tante fatiche; o forse sei contagiata dalle allucinazioni di questo popolo di fanatici, nel cui seno abbiamo avuto la poca fortuna di cadere. ...»

33.           «No, amico mio, non si tratta di allucinazioni. Nonostante le tue parole, che riconosco uscite dal cuore che più adoro e ammiro sulla Terra, ho la certezza che il Maestro di Nazareth ha curato nostra figlia. E, quanto ad Anna, caro, ritengo ingiusto il tuo atteggiamento, anzi, in contrasto con la tua proverbiale generosità con i servi di casa nostra. Non possiamo né dobbiamo dimenticare che lei è stata di una dedizione a tutta prova, con me e con nostra figlia, in questi luoghi sconosciuti. Diverse possono pur essere le sue credenze, ma ritengo che la sua condotta onesta e leale può solo onorare la nostra casa».

34.           Il senatore considerò la elevatezza dei concetti della moglie, sentendosi pentito del suo gesto impulsivo, e si arrese davanti al buon senso di quelle parole: «E va bene, Livia, apprezzo la nobiltà del tuo cuore e gradirei che Anna continuasse ad essere al tuo servizio privato; ma non transigo per quanto riguarda la cura di nostra figlia. Non ammetto che si attribuisca al mago di Nazareth la riacquistata salute della bambina. Quanto al resto dovrai ricordare sempre che mi piace sapere riservata solo a me la tua fiducia e la tua intimità. A servi o a sconosciuti non deve un patrizio, e specialmente una matrona romana, aprire le porte del cuore».

35.           «Tu sai come rispetto i tuoi ordini», gli disse la sposa, più tranquilla, rivolgendogli uno sguardo affettuoso e riconoscente, «e ti chiedo di perdonarmi se ho offeso la tua anima generosa e sensibile!»

36.           «No, mia cara, se esiste qui un problema di perdono, sono io che devo chiederlo, ma tu non dimenticare che questa regione mi tormenta e mi spaventa. Mi sento confortato, riconoscendo la reazione benefica di nostra figlia, perché questo significa il nostro ritorno a Roma tra breve tempo. Aspetteremo ancora solo alcuni giorni, e domani stesso chiederò a Sulpicio di cominciare a prendere provvedimenti per il nostro ritorno».

37.           Livia concordò con le osservazioni del marito, accarezzando la figlioletta rianimata e ristabilita dall’abbattimento profondo che l’aveva debilitata per molti giorni. Intimamente soddisfatta, ringraziava Gesù, poiché il cuore le diceva che quanto accaduto era una benedizione che il Padre dei Cieli aveva concesso al suo spirito materno, attraverso le mani caritatevoli e sante del Maestro.

38.           Publio, nonostante tutto, obbedendo alla spinta del suo orgoglio personale, non desiderava ricordare la figura straordinaria che aveva avuto davanti ai suoi occhi meravigliati. Architettava castelli di teorie nella sua immaginazione super eccitata, per allontanare l’influenza diretta di quell’uomo nel caso della guarigione della figlia, rispondendo, così, alle obiezioni del suo spirito di osservatore e critico meticoloso.

39.           Non poteva dimenticare che il Profeta lo aveva dominato con forze sconosciute, soffocandogli la voce e facendolo inginocchiare; e doleva al suo orgoglio dispotico questa circostanza, considerata penosa e umiliante. Idee tormentose gli popolavano la mente stanca di tante lotte interiori e, dopo un’invocazione ai geni protettori della famiglia, sull’altare domestico, cercò di riposare dalle amare fatiche intime.

40.           Quella notte, tuttavia, la sua anima provò sulle ali riposanti del sogno gli stessi ricordi della vita passata. Si rivide vestito con le stesse insegne di console al tempo di Cicerone, rivide le atrocità commesse da Publio Lentulo Sura, la sua espulsione dal consolato, le riunioni segrete di Lucio Sergio Catilina, le perversità della rivolta, sentendosi di nuovo trascinato alla presenza di quello stesso tribunale di giudici severi e venerandi che nel sogno precedente gli avevano comunicato la sua rinascita sulla Terra, in un’epoca di grandi illuminazioni spirituali.

41.           Davanti a quei venerabili magistrati che ostentavano toghe bianche come la neve, provò un’amara sensazione d’angoscia, mentre il cuore gli batteva disordinatamente. Lo stesso rispettabile giudice si levò in piedi, nell’ambiente trasfigurato da luci spirituali, esclamando: ‘Publio Lentulo, perché hai disprezzato il minuto glorioso col quale avresti potuto comprare l’ora interminabile e radiosa della tua redenzione nell’eternità? Questa notte ti sei trovato tra due cammini, quello di servo di Gesù e quello di servo del mondo. Nel primo, soave sarebbe stato il giogo e leggero il peso; ma tu hai scelto il secondo, nel quale non esiste amore sufficiente per lavare tutta l’iniquità. ... Preparati, quindi, a percorrerlo con coraggio, perché hai scelto il cammino più difficile, quello in cui mancano fiori d’umiltà ad attenuare l’asperità delle spine velenose! ... Tu soffrirai molto, perché su questa strada il giogo è inflessibile e il carico è pesantissimo; ma hai agito con libertà di coscienza nell’ampio gioco delle circostanze della tua vita. ... Guidato verso un’opportunità meravigliosa, tu perseverasti nel proposito di percorrere la via amara e dolorosa delle prove più aspre e più forti. Non ti condanniamo, unicamente per lamentare l’indurimento del tuo spirito di fronte alla verità e alla luce. Ritempra tutte le fibre del tuo io, perché enorme dovrà essere, da qui in avanti, la tua lotta!’

42.           Mentre ascoltava attento quelle esortazioni commoventi, in quell’istante si risvegliò per le sensazioni della vita materiale, provando un profondo abbattimento psichico, simile a un’indefinibile tristezza. Era ancora presto, allorquando la sua attenzione fu richiamata da Livia, che gli mostrava la piccola Flavia, convalescente e felice. La pelle sembrava come se fosse stata levigata, sottoposta a un processo terapeutico sconosciuto e meraviglioso, mentre stavano scomparendo i toni violacei che, una volta, precedevano le rose della piaga viva.

43.           Il senatore recuperò un po’ della sua serenità interiore, verificando i sicuri miglioramenti della figlia che strinse amorosamente al petto, esclamando più tranquillo: «Livia, è vero che ieri sera mi sono incontrato con il cosiddetto Maestro di Nazareth, ma con la logica della mia educazione e delle mie idee, non posso ammettere che sia stato Lui l’artefice della guarigione di nostra figlia».

44.           Quindi, raccontò superficialmente gli avvenimenti che già conosciamo, senza tuttavia riferire i particolari che più lo avevano impressionato.

45.           Livia ascoltò con attenzione il racconto, ma notando le sue intime predisposizioni per il profeta, che lei considerava una creatura superiore e venerabile, non volle manifestare il suo pensiero sull’argomento, temendo un conflitto di opinioni, inopportuno e ingiustificabile. Nel suo cuore, ringraziò quel Gesù affettuoso e misericordioso che aveva ascoltato le sue angosciose suppliche di madre e, nel più profondo della sua anima, accarezzò la speranza di baciargli il lembo della tunica, con umiltà, come testimonianza della sua sincera gratitudine, prima di ritornare a Roma.

46.           Passati quattro giorni, l’inferma presentava segni evidenti di un sicuro ristabilimento fisico, procurando motivo della più grande gioia per tutti i cuori.

*

47.           In una radiosa mattina incontriamo la giovane Livia che accarezza il bambino, vicino a compiere un anno, mentre dà istruzioni alla serva di nome Semele, di origine ebrea, incaricata della custodia del figlio, ciò per l’interessamento che aveva dimostrato per il piccolo Marco fin dal primo momento della sua ammissione al servizio.

48.           A un certo punto, la serva esclamò indicando il largo sentiero acciottolato: «Signora, là! Stanno arrivando due cavalieri sconosciuti, a tutto galoppo».

49.           Udite quelle parole, anche Livia poté vederli lungo l’ampia strada, e subito si ritirò all’interno della casa, per avvisare il marito.

50.           Infatti, dopo alcuni minuti, due cavalli si arrestavano davanti alla porta, sudati e ansimanti. Un uomo vestito alla romana, in compagnia di una guida giudea, scendeva rapido e ben disposto. Si trattava di Quirilio, liberto di fiducia di Flaminio Severo, che veniva, a nome del padrone a portare a Publio e alla sua famiglia alcune notizie e numerosi ricordi.

51.           Quest’amabile sorpresa riempì il giorno di graditi ricordi e grandi piaceri, procurando ore tra le più simpatiche e allegre. Il nobile patrizio non aveva dimenticato gli amici lontani e, insieme alle notizie confortanti e a una considerevole quantità di denaro, arrivarono anche i dolci ricordi di Calpurnia, indirizzati a Livia e ai due figli.

52.           Quel giorno Publio Lentulo si occupò solamente di riempire numerosi rotoli di pergamena, per inviare al compagno di lotta notizie particolareggiate di tutti gli avvenimenti. Fra questi c’era la buona notizia del ristabilimento della figlia, attribuita al clima adorabile della Galilea. Ma poiché possedeva in quel valo­roso discendente dei Severi un’anima fraterna, devota e fedele, al cui cuore mai tralasciò di confidare le più segrete emozioni del suo animo, gli scrisse, come supplemento, una lunga lettera[7], con visione al senato romano, sulla personalità di Gesù Cristo, esaminandola serenamente dal punto di vista strettamente umano, senza nessuno strappo sentimentale. E, alla fine, Publio e Livia annunziavano allegramente ai loro amici lontani che sarebbero ritornati a Roma, possibilmente entro un mese, visto il perfetto ristabilimento della piccola Flavia.

53.           Si terminò il lungo disbrigo di tutto che già era pomeriggio; ma in quello stesso giorno, al calar della sera, mentre i due sposi si trattenevano nel triclinio per leggere nuovamente le dolci parole dei cari assenti, commentando le felici speranze del vicino ritorno, ecco che Sulpicio si fa annunziare in compa­gnia di un messaggero di Pilato.

54.           Attendendoli nel suo studio particolare, il senatore accolse la visita del messaggero, il quale gli si rivolse con rispetto in questi termini: «Illustrissimo, il signor governatore della Giudea vi informa di essere giunto nella sua residenza nei pressi di Nazareth, dove aspetta il gradito piacere di vostri ordini e notizie».

55.           «Felicissimo!» replicò Publio di buon umore, aggiungendo: «Felice anche che il signor procuratore non è troppo distante, dandomi così l’opportunità di una breve permanenza a Gerusalemme, nel mio ritorno a Roma, fra pochi giorni».

56.           Furono scambiate alcune frasi di circostanza, ma Publio Lentulo non intese i gesti di Sulpicio, il quale gli lanciava sguardi significativi.

 

 

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Cap. VI

IL RAPIMENTO

1.                Al tempo di Gesù la Galilea era un vasto granaio che riforniva quasi tutta la Palestina. In quell’epoca il bel lago di Genezareth non presentava un livello tanto basso, come attualmente. Tutto il territorio circostante era irrigato, grazie alle numerose sorgenti, ai canali e al servizio delle nòrie che sollevava le acque, dando origine a una vegetazione lussureggiante che ornava di frutti e riempiva di profumi quei paesaggi paradisiaci.

2.                Il grano, l’orzo, le zucche, le lenticchie, i fichi e le uve erano elementi di semina e raccolta per tutto l’anno, dando all’esistenza soddisfazione e abbondanza. Sulle colline, che si alternavano a estesi vigneti e oliveti, si elevavano palmizi e preziose palme da dattero, che erano tra i frutti più ricchi della Palestina.

3.                A Cafarnao, oltre a queste ricchezze, era molto sviluppata l’attività della pesca, data l’abbondanza di pesce in quello allora chiamato “Mare di Galilea”, la qual cosa si traduceva in una vita semplice e tranquilla. Tra tutti i popoli dei centri della Galilea, quello della città di Cafarnao si distingueva per la sua bellezza spirituale, semplice e sincera. Coscienzioso e credente, esso accettava la Legge di Mosè, ma stava molto lontano dalle manifestazioni ipocrite del fariseismo di Gerusalemme. Fu in virtù di questa semplicità naturale e di questa fede spontanea e sincera che il paesaggio di Cafarnao servì da palco alle prime lezioni indimenticabili e immortali del Cristianesimo, nella sua primitiva purezza. Lì Gesù incontrò l’affetto di cuori sinceri e di valore e fu lì che il mondo spirituale incontrò i migliori elementi per la formazione della scuola innovatrice, dove il divino Maestro avrebbe attestato i Suoi insegnamenti.

4.                In tutte le città della regione c’erano sinagoghe, perché le lezioni della Legge fossero impartite ogni sabato, giorno che tutti gli individui dovevano dedicare esclusivamente al riposo del corpo e alle attività dello spirito. In queste piccole sinagoghe si concedeva libertà di parola a quanti desiderassero servirsene, ma Gesù per la diffusione dei Suoi insegnamenti preferiva il tempio soave della natura.

5.                Tutte le classi umili accorrevano alle Sue prediche all’aria aperta, la cui straordinaria bellezza seduceva i cuori più impietriti. Un’antica convenzione, fra i signori, stabiliva il riposo dei servi nel giorno sacro agli studi della Legge, e gli stessi romani cercavano di coltivare quelle tradizioni regionali, per guadagnarsi la simpatia del popolo conquistato. In quell’epoca, grande era l’affluenza degli schiavi alle prediche consolatrici del Messia di Nazareth.

*

6.                Una settimana era passata da quando erano state ricevute le notizie da Roma, e quel sabato, alle prime ore del pomeriggio, incontriamo Livia e Anna in intima e affettuosa conversazione.

7.                «Sì, se ti sarà possibile, oggi ringrazierai a viva voce il profeta a mio nome, giacché mi sento tanto felice, grazie alla sua infinita bontà», disse la giovane patrizia alla serva che si trovava abbigliata per uscire. «E digli che, se potrò, prima di partire per Roma, farò di tutto per conoscerlo, per baciargli le generose mani, a testimonianza della mia gratitudine!»

8.                «Non dimenticherò i vostri ordini, e spero che possiate andare fino alla casa di Simone per fargli visita, …prima di lasciare questi luoghi», proseguì in tono confidenziale. «Proprio oggi devo incontrare in città il vecchio zio Simeone che è venuto dalla Samaria esclusivamente per ricevere la sua benedizione e i suoi insegnamenti. Non so se la signora è a conoscenza che fra samaritani e galilei ci sono dissidi molto antichi; ma il Maestro, molte volte, nelle sue lezioni di amore e fraternità, ha elogiato i primi per la loro carità leale e sincera. Molti miracoli sono già stati fatti da Lui in Samaria, e mio zio è uno di questi beneficiati, e oggi verrà per ricevere la benedizione dalle sue mani consolatrici!»

9.                Una dolce e commovente fede ungeva l’anima di quella donna del popolo, intensificando in Livia il desiderio di conoscere quell’uomo straordinario che, con la sua grazia, sapeva illuminare i cuori più ignoranti e più semplici.

10.           «Anna, aspetta un momento», disse commossa, dirigendosi verso la sua camera. E tornando con il viso raggiante, soddisfatta per aver iniziato in quel momento la sua fraternizzazione cristiana, dette alla serva alcune monete, esclamando con gioia maggiore:

11.           «Porta questo denaro allo zio Simeone, …a mio nome. Lui è venuto da lontano per vedere il Messia, ed ha necessità di risorse!»

12.           Anna accettò la somma, che era di alcuni denari, e ringraziò raggiante per quel dono da considerarsi una vera fortuna. Poco dopo, con Semele e altre compagne, si diresse sulla strada di Cafarnao, in direzione del lago, dove avrebbero aspettato il tardo pomeriggio, quando la barca di Simone Barjona avrebbe portato il Messia per le prediche abituali.

*

13.           Giunta in città, la sua prima preoccupazione fu di correre in una vecchia e povera capanna dove il vecchio Simeone l’abbracciò affettuosamente, piangendo di contentezza. Una grande allegria provocò in quei cuori, dimenticati dalla sorte, la generosa offerta di Livia, che per loro significava un piccolo tesoro.

14.           Lasciando le amiche nel luogo abituale, in virtù di quella circostanza, Anna non poté notare che, subito dopo la sua assenza, Semele si allontanò rapidamente in direzione di una casa nascosta tra fitti ulivi, alla fine di una stradina quasi completamente abbandonata. Alcuni colpi alla porta, e una signora di bell’aspetto andò, sollecita, ad aprire.

15.           «È arrivato il nostro amico?» domandò la serva, simulando tranquillità.

16.           «Sì, il signor Andrea è qui in tua attesa da ieri. Per favore, attendi un momento».

17.           Dopo pochi minuti, un personaggio che conosciamo andò incontro a Semele in un angolo della sala, abbracciandola con entusiasmo come se fosse persona da lui profondamente stimata.

18.           Era Andrea di Giora, che andava a Cafarnao per un colpo di rappresaglia, aiutato da un’alleata che la sua sete di vendetta era riuscita a collocare a Gerusalemme, nella casa di Publio Lentulo, attraverso un’astuzia crudele.

19.           Dopo una lunga conversazione a voce molto bassa, udiamo la serva del senatore parlargli in questi termini: «Non c’è dubbio. ... Sono già riuscita a guadagnarmi tutta la fiducia dei padroni e la simpatia del piccolo. Dunque puoi stare tranquillo, poiché è il momento opportuno, visto che il senatore vuole ritornare a Roma fra pochi giorni».

20.           «Infame!» esclamò Andrea, pieno di rabbia, «già pensa quindi al ritorno? Molto bene! ... Quel maledetto romano è riuscito a far schiavo per sempre il mio povero figlio, senza voler ascoltare le mie suppliche di padre, ma dovrà pagare a ben caro prezzo la sua arroganza di conquistatore, perché suo figlio sarà un servo della mia casa! Un giorno gli dimostrerò la mia vendetta, provandogli che anch’io sono un uomo!»

21.           Queste parole egli le disse a denti stretti, con voce smorzata, con gli occhi fissi e lucidi, come se apostrofasse esseri invisibili.

22.           «Allora, è tutto pronto?» chiese a Semele, dimostrando una decisione definitiva.

23.           «Perfettamente», rispose la serva con la più grande tranquillità.

24.           «Bene! Fra tre giorni andrò fin là, a cavallo, nelle prime ore del mattino». E consegnandole una minuscola boccetta, che lei nascose prontamente fra le proprie vesti, continuò a voce bassa: «Bastano venti gocce perché il bambino si addormenti, e non si sveglierà se non dopo dodici ore... Quando sarà notte alta dagli da bere un poco di acqua lievemente mescolata a un vino leggero e aspetta il mio segnale. Io sarò nelle vicinanze della casa – che fin da ieri ho conosciuto – ad aspettare il prezioso carico. Avvolgi il bambino addormentato in modo tale che il volume non faccia indovinare il contenuto, visto da una certa distanza, e siccome in azioni del genere si deve sempre pensare alla possibilità di una testimonianza di occhi estranei, io verrò vestito come un romano, sperando che tu riesca ad indossare una delle tuniche della tua padrona, per evitare che la colpa di questo ratto possa ricadere su qualcuno della nostra razza, nel caso appaia un testimone inopportuno e imprevisto. ... Dato il segnale della mia presenza sulla strada che costeggia il frutteto, tu mi verrai incontro, consegnandomi il prezioso fardello».

25.           E, con gli occhi persi nella visione anticipata della sua vendetta, Andrea di Giora esclamò, serrando i pugni: «Se quei maledetti romani, senza pietà, ci portano via schiavi i nostri figli, possiamo anche noi portar via come schiavi i loro disgraziati discendenti! Gli uomini, …sono nati con uguali diritti in questo mondo!»

26.           Ascoltando le sue parole con attenzione, Semele un po’ impaurita disse: «Ma, e io? Non accompagnerò il piccolo Marco nella notte stessa?»

27.           «Sarebbe una grande imprudenza. Tu dovrai rimanere a Cafarnao tutto il tempo necessario, finché non si perderanno tutte le piste del futuro senatore che, anzi, non sarà altro che un futuro schiavo. La tua fuga sarebbe un indizio sicuro, ora o più tardi, e noi dobbiamo ostacolare questo cammino sicuro. Come sai, io ho parenti ben posizionati in Giudea e non è eccessivo sperare che un colpo di fortuna mi conceda il posto importante cui aspiro nel tempio di Gerusalemme. Non possiamo, pertanto, avere complicazioni con la giustizia; rimani dunque tranquilla, poiché più tardi il tuo sforzo di oggi sarà largamente ricompensato».

28.           La serva sospirò rassegnata, acconsentendo a tutte le decisioni di quello spirito vendicativo.

29.           Dopo alcune ore, sul far della notte, i servi di Publio, ritornavano a casa conversando animatamente e allegramente, commentando i piccoli incidenti e le preoccupazioni del giorno.

30.           Semele non sembrava preoccupata, anche perché da molto tempo veniva istruita con pazienza da Andrea, in modo da collaborare con risolutezza a quel piano di vendetta. Numerosi vincoli la legavano alla famiglia di Giora e, collaborando in quella trama sinistra a favore di una vendetta, non faceva niente di più, secondo quanto lei supponeva, che riscattare numerosi debiti di ordine materiale.

31.           ‘Finalmente’, ragionò tra sé, ‘liquidato il caso del ragazzino, sarebbe ritornata a Gerusalemme quando più le fosse piaciuto, cosciente di aver compiuto un dovere, obbedendo alle terribili esigenze di Andrea’.

*

32.           Il giorno dopo, calcolò tutte le possibilità sull’esito dell’impresa e, nella data prevista, prese tutte le decisioni necessarie.

33.           Impossessarsi di una tunica di proprietà di Livia, di stile particolare, non era difficile. La signora ne possedeva in gran numero, e quasi ogni giorno Anna era incaricata di preparare quelle che si trovavano fuori dagli appartamenti privati, per il necessario servizio di pulitura; e fu così che Semele, ingannando la dedizione e la vigilanza della collega, ottenne una tunica elegante e discreta della signora, in modo da osservare, integralmente, le avvertenze di colui di cui era divenuta complice.

34.           In casa, il senatore e sua moglie non avevano mai vissuto momenti di così profonda pace e di tante speranze, da quando erano arrivati nella Palestina. La guarigione della figlia era la dolce felicità di ogni istante e studiavano i più affettuosi piani per i giorni a venire.

35.           Livia stava già organizzando tutte le sue cose per il viaggio, pensando che da lì a pochi giorni sarebbero stati nell’antico porto di Joppe, di ritorno nella cara metropoli. Una serenità che sembrava imperturbabile, riposava ora sulla famiglia, rendendo tranquilli e felici i loro cuori.

36.           Publio aveva dimenticato del tutto le avvertenze del sogno, che considerava soltanto il risultato della sua impressionante conversazione col profeta di Nazareth, e il cuore gli si rasserenava, considerando il valore dei poteri umani, dentro i limiti dell’orgogliosa vanità che gli soffocava tutte le preoccupazioni di ordine spirituale. Un unico pensiero dominava il suo cuore: tornare a Roma entro pochi giorni.

37.           Quella notte, però, si sarebbero sgretolate tutte le sue speranze, e si sarebbero modificate per sempre le linee del suo destino sulla Terra. Chi avesse conosciuto la trama ordita nell’ombra dallo spirito vendicativo di Andrea, dopo la mezzanotte avrebbe potuto udire un lungo fischio, che si ripeté per tre volte, nel profondo silenzio del bosco.

38.           Un uomo vestito alla romana era sceso da un focoso destriero a pochi metri dalla casa, sul largo sentiero che separava la vegetazione dal campo degli alberi da frutto. In seguito una porta si aprì furtivamente e una donna vestita secondo la moda patrizia si incontrò col cavaliere che l’aspettava ansioso, deponendogli fra le braccia, con la massima cautela, un fagotto voluminoso.

39.           «Semele», disse lui a bassa voce, «quest’ora è decisiva per i nostri destini».

40.           La serva di Lentulo nulla poté rispondere, sentendosi il petto oppresso. In quel momento, gli attori della scena non avevano visto l’avvicinarsi di un uomo che si era prontamente fermato, a una distanza di alcuni passi, nel folto dei rami frondosi.

41.           «Ora», tornò a dire il cavaliere, prima di partire a briglia sciolta, «non dimenticarti che il silenzio è d’oro e che, se un qualche giorno tu fossi ingrata, …potrai pagare con la vita la rivelazione del nostro segreto!»

42.           Detto questo, Andrea di Giora partì precipitosamente di gran trotto, per strade nascoste, portando con sé il fagotto per lui tanto prezioso.

43.           La serva lo seguì ancora con lo sguardo per alcuni istanti, fra terrorizzata e pentita, tornandosene a casa a passi incerti. I due non sapevano che gli occhi di un calunniatore sono ben peggiori delle braccia di un ladro, e che questi occhi li avevano spiati nella solitudine della notte.

44.           Era Sulpicio che, per coincidenza, tornava a casa tardi quella notte, sorprendendo quella scena pallidamente illuminata dai raggi della Luna.

45.           Osservando da lontano che un uomo e una donna, abbigliati alla romana, s’incontravano per strada a un’ora così insolita, a passi felini s’inoltrò fra gli alberi, per tentare di riconoscerli più da vicino. La scena era stata molto rapida, arrivandogli alle orecchie solo le ultime parole «nostro segreto», dette da Andrea, nella sua promessa odiosa e minatoria.

46.           In seguito, osservò che la donna, con la partenza del cavaliere, ritornava verso la casa a passi incerti, come se fosse dominata da un’irrefrenabile prostrazione. Affrettò allora i passi con l’intenzione di sorprenderla per vederne il volto a pochi metri di distanza. Ma, non si arrischiò di avvicinarsi, per il fatto di aver riconosciuto le caratteristiche delle vesti alla luce fioca della notte. Quella tunica gli era ben nota. Quella donna, a suo vedere, era Livia, l’unica che, da quelle parti, poteva vestire in quel modo.

47.           In un istante le sue idee rapide, di uomo esperto nelle peggiori azioni del mondo, associarono fatti, persone e cose. Ricordò, nei suoi più intimi particolari, la scena a cui ebbe occasione di assistere nel giardino di Pilato, credendo che la moglie di Publio fosse diventata l’amante del governatore, il cui cuore lei aveva soggiogato in pochi minuti, in virtù della sua singolare bellezza; ricordò, da ultimo, la permanenza del governatore della Giudea a Nazareth, e concluse monologando:

48.           ‘Un governatore, pur nella sua alta posizione, non dimenticherà per questo di essere un uomo, e un uomo è ben disposto a passare tutta una notte su un buon cavallo, per coprire la distanza che va da Cafarnao a Nazareth, per incontrarsi con la donna amata... E allora, dobbiamo andare ancora avanti per osservare i due amanti... L’unico fatto strano è la facilità con cui questa donna, apparentemente tanto austera, si è lasciata dominare in tal modo. Ma, poiché ho i miei interessi con Fulvia, esamineremo il sistema migliore per informare questo pover’uomo che, senatore, tanto giovane e tanto ricco, è un marito tanto sventurato!...’

49.           E dopo aver così prudentemente monologato, Sulpicio andò a dormire intimamente soddisfatto, considerandosi padrone della situazione, già pregustando il piacere dell’istante in cui avrebbe messo Publio a parte del suo segreto, al fine di esigere dopo, a Gerusalemme, il prezzo ignobile della sua perversità, secondo le promesse di Fulvia.

50.           Il giorno dopo avvenne la dolorosa sorpresa per il senatore e sua moglie, attoniti per l’impensato avvenimento. Nessuno conosceva le circostanze in cui si era verificato il rapimento del bambino nel silenzio della notte.

51.           Come pazzo, Publio Lentulo prese tutte le misure possibili, congiuntamente con le autorità di Cafarnao, senza ottenere risultati favorevoli. Numerosi servi di sua fiducia furono mandati a battere i dintorni, inutilmente, e mentre il marito si divideva fra ordini e decisioni, Livia si era rincantucciata nel suo letto, vinta da un inesprimibile dolore.

52.           Semele, che fingeva la più profonda costernazione, aiutava Anna accanto alla signora, prostrata dal dolore.

53.           In quello stesso pomeriggio, Publio ordinò a Comenio, che allora ricopriva la carica di sovrintendente di tutti i servizi della tenuta, la riunione generale di tutti i servi della casa, affinché traessero insegnamento dal severo castigo inflitto ai servi incaricati del servizio notturno di vigilanza, e durante tutte le ore del crepuscolo, la frusta lavorò nelle carni di tre uomini robusti che invano imploravano clemenza e misericordia, lamentando la loro innocenza. Solamente davanti a quelle creature ingiustamente punite, Semele considerò la gravità del suo operato, ma intimamente impaurita dalle conseguenze che sarebbero potute scaturire dal delitto, soffocò il sentimento per nascondere, ancora di più, la colpa e il terribile segreto.

54.           Le azioni punitive proseguirono, finché Livia, tormentata da quelle grida lancinanti che le straziavano il cuore, si alzò con grande difficoltà e, chiamando lo sposo che si trovava in un angolo della veranda, da dove assisteva impassibile all’orribile sacrificio di quelle misere creature, gli disse supplichevole: «Publio, basta punizioni per questi uomini deboli e infelici! Non potrebbe essere un eccesso di rigore, da parte nostra verso i nostri servi, la causa di tanto doloroso castigo degli déi verso di noi? Questi schiavi non sono forse anch’essi figli di creature che molto li hanno amati in questo mondo? Nel mio dolore materno, penso che ancora abbiamo diritti e mezzi per tenere vicino a noi gli idolatrati figli; ma come deve essere doloroso il martirio della madre di uno sventurato, allorché se lo vede strappare dalle sue amorevoli braccia per esser venduto da ignobili mercanti di coscienze umane!»

55.           «Livia, il dolore ti ha provocato strane idee nel cuore» esclamò il senatore con serena energia. «Come puoi credere in un’assurda uguaglianza di diritti, fra una cittadina romana e una miserabile serva? Non vedi che fra te e la madre di uno schiavo esistono enormi differenze di sentimento?»

56.           «Io penso che ti sbagli», rispose la moglie con indicibile amarezza, «perché gli stessi animali posseggono i più elevati istinti, …quando si tratta di maternità. … E così, caro, anche se io non avessi nessuna ragione, il raziocinio ci comanda di esaminare la nostra posizione di genitori, affinché consideriamo che nessuno, più di noi stessi, sia passibile di colpa per l’accaduto, visto che i figli sono un deposito sacro degli dèi che li affidano al nostro cuore, imponendoci come dovere di ogni minuto la moltiplicazione della tenerezza e della vigilanza necessarie. Se soffro amaramente è perché considero sublime l’amore che ci unisce ai figli, senza perciò poter intendere la causa di questo delitto misterioso, senza poter imputare ai nostri servi la colpa di questo oscuro avvenimento...»

57.           La voce di Livia, però, si spense rapidamente. Uno svenimento fu il risultato delle sue parole appassionate, sul finire di quel giorno pieno di tante e tante amare emozioni. Sorretta dalle mani affettuose e premurose di Anna, la povera signora tornò a letto con la febbre alta. Quanto a Publio, poiché avvertiva che le amare verità della moglie gli facevano male nel profondo del cuore, comandò di sospendere immediatamente la punizione, con sollievo generale, ritirandosi nel suo studio per meditare sulla situazione.

58.           Quella notte stessa ricevette la visita di Sulpicio, che andava a portargli il risultato infruttuoso delle sue indagini, nella ricerca del piccolo Marco. Nell’accomiatarsi, il littore esclamò con grande sorpresa di Publio, che aveva colto il tono enigmatico delle sue parole: «Senatore, io non posso risolvere questo doloroso mistero della scomparsa di vostro figlio, ma forse potrei orientarvi su qualche pista sicura, con le mie osservazioni personali relative all’argomento».

59.           «Ma se tu possiedi simili elementi, apriti senza timore!» esclamò Publio col massimo interesse.

60.           «I miei elementi di osservazione non sono punti di un chiarimento positivo, e come esistono alcune medicine che invece di curare una ferita producono altre ulcere incurabili, ritengo sia meglio rimandare a domani notte le mie impressioni personali sui fatti».

61.           Godendo dell’espressione di stupore del suo interlocutore, profondamente impressionato dalle sue insinuazioni riguardo il rapimento, Sulpicio concluse i saluti di congedo, aggiungendo intenzionalmente: «Domani sarò qui a questa stessa ora; e se oggi non soddisfo il vostro desiderio, rimanendo qui fino a tardi, è perché mi aspettano alcuni affari nel mio studio, riguardanti richieste di informazioni da parte delle nostre autorità amministrative».

62.           Dominato dalle espressioni di quell’enigma, Publio Lentulo gli porse la buona notte, avendo ancora la forza per mormorare: «Allora, a domani. Conto sul mantenimento della tua promessa, in modo che mi si alleggeriscano i timori che ho nel cuore».

63.           Rimasto solo, il senatore s’inabissò nel mare profondo delle sue inquietudini e dei suoi timori. Proprio quando contava di ritornare a Roma, ecco che sorge l’imprevisto, con caratteristiche peggiori della infermità stessa della figlia, per tanti anni sopportata con serenità e rassegnazione, perché ora era il rapimento inspiegabile di un bambino a coinvolgere serie questioni circa la moralità della sua casa e l’onore stesso della famiglia.

64.           Intimamente, si sentiva un uomo senza nemici in Palestina, poiché, ad eccezione del giovane Saul, figlio di Andrea che, a suo giudizio, doveva starsene tranquillo nella casa del padre, mai aveva umiliato l’amor proprio di alcun israelita, visto che a tutti dispensava il massimo della sua attenzione personale. Quindi: qual era la causa di quel delitto misterioso?

65.           Nei suoi ricordi affiorò la parola sicura di Flaminio Severo, quando gli consigliò molta prudenza e coraggio individuale in Palestina, a causa di certi malfattori che infestavano la regione; ma d’altra parte, ricordava il sogno simbolico e, con gli occhi dell’immaginazione, gli sembrò di intravedere il volto venerando di quel giudice austero e integerrimo che gli aveva profetizzato un’esistenza piena di amarezze, dato il suo disprezzo e la sua indifferenza per le verità redentrici di Gesù di Nazareth.

66.           Travagliato dal dolore di tanti pensieri angoscianti, si curvò sul tavolo da lavoro e lasciò che l’orgoglio ferito si sciogliesse in un pianto copioso, considerando la sua impotenza per scongiurare le forze occulte e spietate che cospiravano contro la sua sorte, nei cammini oscuri del suo doloroso destino.

67.           Più tardi, di notte, cercò di aprire il suo cuore, accanto all’affettuosa premura della sposa, scambiandosi tutt’e due lamenti e lacrime.

68.           «Publio», esclamò lei con la caratteristica tenerezza del suo cuore, «cerchiamo di rafforzare le nostre energie a favore di noi stessi. ... Non tutto è perduto! Con i diritti che ci spettano, possiamo prendere tutti i provvedimenti indispensabili per cercare il nostro piccolo angelo. Rimanderemo il ritorno a Roma illimitatamente, se tanto sarà necessario, e il resto lo faranno gli dèi per noi, riconoscendo la nostra angoscia e la nostra abnegazione. Quello che non è giusto è l’abbandonarci irrimediabilmente alla nostra disperazione, sprecando così le ultime forze per la lotta».

69.           La povera signora fece appello alle ultime risorse delle sue energie materne nel proferire quelle parole di speranza e di conforto. Dio, però, sapeva delle sue inenarrabili intime torture in quei momenti di angoscia, e solo il suo sentimento puro, di rinuncia e di amore, avrebbe trasformato in forze le sue fra­gilità di donna, per poter confortare il cuore abbattuto del marito, in tante penose circostanze.

70.           «Sì, mia cara, farò tutto quello che è alla mia portata per sperare nella provvidenza divina», disse il senatore, più o meno rianimato di fronte alla forza morale che lei gli dava come prova.

*

71.           Il giorno seguente trascorse nelle stesse angosciose attese, con i soliti movimenti incerti di ricerche infruttuose. Di notte, come aveva promesso, Sulpicio Tarquinio stava aspettando là il momento decisivo.

72.           Dopo la cena, a cui Livia non poté partecipare a causa del suo profondo abbattimento fisico, Publio ricevette il littore con ogni familiarità, lì, sul triclinio, sui cui morbidi cuscini tutt’e due si distesero per l’abituale conversazione.

73.           «E allora, ieri…», esclamò il senatore rivolgendosi al presunto amico, «…tu hai destato il mio paterno interesse, parlandomi di tue osservazioni personali che solo oggi mi avresti potuto trasmettere».

74.           «Ah! Sì», rispose il littore, con falsa sorpresa, «è la verità. Io desidererei sollecitare la vostra attenzione sui fatti misteriosi di questi ultimi giorni. Avete voi qualche nemico qui in Palestina, interessato al fatto che voi rimaniate in regioni poco adatte alle abitudini di un patrizio romano?»

75.           «No, assolutamente», rispose il senatore estremamente sorpreso. «Suppongo di trovarmi in un ambiente di amicizie sincere, trattandosi delle nostre autorità amministrative, e credo che nessuno sia interessato alla mia assenza da Roma. Sarei molto soddisfatto se tu mi chiarissi meglio le tue osservazioni».

76.           «È che qui, in Giudea, alcuni anni fa, ci fu un caso identico al vostro. Si racconta che uno dei predecessori dell’attuale governatore s’innamorò perdutamente della sposa di un patrizio romano, che ebbe la poca fortuna di stabilirsi a Gerusalemme. Ma quello, raggiunti i suoi obiettivi, tutto fece per impedire il ritorno delle sue vittime alla sede dell’Impero. E quando vide che a nulla valevano gli impedimenti posti in atto dalla sua autorità, commise il delitto di sequestrare il figlioletto della coppia patrizia, facendo seguire il misfatto da altre atrocità che rimasero impunite a causa del suo prestigio politico nel Senato».

77.           Publio ascoltò questo racconto con la testa in fiamme. A causa del suo carattere molto emotivo, il sangue gli affluì al cervello, parendogli che gli si raccogliesse in larghe correnti contro la diga delle tempie. Un pallore di cera coprì in seguito il suo viso conferendogli un aspetto cadaverico, senza poter definire l’emozione che gli esplodeva intimamente, di fronte a tali insinuazioni contro la sua dignità personale e contro le rispettabili tradizioni della famiglia.

78.           In un istante rivisse tutte le accuse di Fulvia e, giudicando i suoi simili a misura dei suoi sentimenti, non poté ammettere nell’animo di Sulpicio una crudeltà così grande.

79.           Mentre il pensiero sprofondava in dubbi atroci, senza rispondere al littore che l’osservava godendo dell’effetto delle sue tenebrose rivelazioni, il calunniatore proseguì con falsa umiltà: «Ben riconosco la portata delle mie parole, per le quali, anzi, mi appello alla benevolenza della vostra discrezione, ma io non aprirei il mio cuore in questo senso, se non fossi obbligato dal profondo affetto che la vostra amicizia è riuscita a ispirare alla mia anima devota e sincera. Francamente, non desideravo costituirmi delatore di chicchessia davanti al vostro spirito giusto e generoso; tuttavia comincerò a raccontarvi quello che ho visto con i miei stessi occhi, in modo da orientare con maggior sicurezza lo sforzo delle vostre indagini nella ricerca del bambino».

80.           E Sulpicio Tarquinio, con la falsa modestia delle sue parole velenose, sgranò un lungo rosario di calunnie, inframmezzando i suoi argomenti con continui sorsi di vino, il che infiammava ancora di più la fonte prodigiosa delle sue fantasie.

81.           Raccontò al suo interlocutore, che lo ascoltava attonito a causa della coincidenza delle sue osservazioni con le accuse a Fulvia, i minimi particolari della scena del giardino in casa di Pilato e, in seguito, raccontò quello che aveva visto nella notte del rapimento, mettendo in risalto la coincidenza della permanenza del governatore a Nazareth.

82.           Il senatore ascoltò quel racconto, nascondendo con grande difficoltà la sua dolorosa sorpresa. La trasgressione della sposa, secondo quella denuncia spontanea, era un fatto indubitabile. Tuttavia egli voleva credere il contrario. Durante tutto il tempo della vita coniugale, Livia aveva manifestato il più pro­fondo disinteresse per gli ambienti sociali, vivendo solamente per lui e per i molto amati figli. Era nella sua parola giudiziosa e sincera che il suo spirito andò a cercare le necessarie ispirazioni per il buon esito nelle lotte della vita; ma quella denunzia gli sconvolgeva il cuore ed annullava tutti gli elementi dell’antica fiducia. Oltre a ciò, penose coincidenze andavano a ferire la sua mente, suscitando in lui amari sospetti nel profondo della sua anima.

83.           Non fu forse lei che intercedette a favore degli schiavi, nel momento della punizione, supplichevole, come se la colpa di quello che era successo le pesasse sul cuore?

84.           Pure il giorno prima aveva suggerito di prolungare la permanenza di tutt’e due nella Palestina, dimostrando un coraggio poco comune. Non avrebbe potuto essere questo un gesto di presunta consolazione per il marito oltraggiato, obbedendo a scopi inconfessabili?

85.           Un vortice di idee contrastanti turbinava nel mare delle sue dolorose meditazioni. Dall’altra parte, considerò per un attimo la sua posizione di uomo di Stato e le austere responsabilità che gravavano su di lui nell’organismo sociale. La carica elevata, le severe obbligazioni a cui si era consacrato nel meccanismo delle relazioni quotidiane, l’orgoglio del nome e le tradizioni di famiglia generarono l’energia necessaria al dominio delle emozioni del momento. Ed egli, nascondendo l’uomo sentimentale che era per natura per rivelare solamente l’uomo pubblico, ebbe la forza di esclamare: «Sulpicio, ti sono grato per l’interessamento, sempre che le tue parole siano il riflesso della tua sincera generosità, ma devo farti osservare, di fronte a quello che hai appena detto su mia moglie, che non accetto nessun argomento che ferisca la sua dignità e l’austera sua nobiltà; doti, queste, che nessuno, più di me, conosce.

86.           La conversazione nel giardino di Pilato, a cui ti riferisci, fu da me autorizzata, e le tue osservazioni sulla notte del rapimento non sono ben definite, posto il carattere positivo richiesto dalle nostre indagini. Così pure, ti ringrazio per la dedizione nei miei confronti, ma la tua opinione innalza fra noi, da qui in avanti, una linea divisoria che la mia fiducia non oserà più oltrepassare.

87.           Rimani, così, dispensato dal servizio che ti tratteneva vicino alla mia famiglia, anche perché la prospettiva del mio ritorno a Roma è svanita con la scomparsa del mio bambino. Non potremo tornare alla sede dell’Impero finché non lo ritroveremo o non avremo la certezza dolorosa della sua morte. In questo modo io sarei imprudente se esigessi la continuazione dei tuoi servizi a Cafarnao, sacrificando decisioni dei tuoi superiori gerarchici; ragion per cui sarai dimesso dalla mia casa senza scandali che possano pregiudicare la tua carriera professionale.

88.           Aspetterò l’occasione di parlare con il governatore al tuo riguardo, quando, perciò, sarai esonerato ufficialmente dal mio servizio, senza nessun pregiudizio per il tuo nome. Vedi, dunque, che come uomo di Stato ti ringrazio per il tuo interesse e apprezzo la tua dedizione. Ma, come amico, non mi è più possibile riporre su di te lo stesso grado di fiducia».

89.           Il littore, che non si aspettava una simile risposta, divenne livido nella sua manifesta delusione, ma osò ancora replicare ipocritamente: «Signor senatore, verrà il momento in cui dovrete apprezzare il mio zelo, non solo come servitore della vostra casa, ma anche come amico premuroso e sincero. E giacché non avete ricompensa migliore che il disprezzo ingiusto per corrispondere al mio impulso di amicizia, è con piacere che mi sento libero dalle obbligazioni che mi collocavano accanto alla vostra autorità».

90.           Nel seguito, Sulpicio pronunciò alcune parole di commiato, alle quali Publio rispose seccamente, tormentato dai più profondi dispiaceri.

91.           Nel silenzio del suo studio, esaminò quanta energia le circostanze avevano preteso dal suo cuore in così penose vicende. Riconobbe che aveva adottato con il littore l’atteggiamento più conveniente e più consono alla situazione, ma nel suo intimo custodiva una profonda incertezza circa la condotta di Livia. Tutto cospirava contro di lei, tendendo a presentarla al suo cuore di marito rispettabile come la personificazione della falsa innocenza.

92.           A quel tempo non era ancora stato diffuso nel mondo il “pregate e vigilate” degli insegnamenti eternamente dolci del Cristo, e il senatore, abbandonandosi quasi completamente al dominio delle amare emozioni che lo affliggevano, si curvò su numerose pergamene, cominciando a piangere convulsamente.

 

 

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Cap. VII

LE PREDICHE AL LAGO DI TIBERIADE

1.                Erano passati alcuni giorni dai fatti che abbiamo appena finito di raccontare. A Cafarnao, non solo lo scenario, ma anche gli attori mantenevano la stessa fisionomia. Costretto dall’atteggiamento irremovibile ed energico del senatore, Sulpicio Tarquinio era ritornato a Gerusalemme, obbedendo agli ordini di Pilato che, a sua volta, aveva ricevuto la notificazione di Publio Lentulo, riguardo la dispensa del littore.

2.                Non dobbiamo dimenticare che Publio rimaneva nella Palestina con ampi poteri, in qualità di emissario di Cesare e del Senato; a lui tutte le autorità della provincia, incluso il governatore, erano obbligati a obbedire con speciale attenzione e massimo rispetto.

3.                Il procuratore della Giudea non aveva perciò dimenticato di sostituire Sulpicio nel miglior modo possibile, cercando di sapere, interessatamente, i motivi del suo allontanamento, argomento che il senatore aveva liquidato con il più ampio spirito di superiorità, da un punto di vista politico. Pilato coadiuvò, con la migliore buona volontà, al servizio di ricerche circa il nascondiglio del piccolo Marco, rendendo operanti funzionari di sua piena fiducia e recandosi personalmente a Cafarnao, per conoscere nei particolari le investigazioni effettuate.

4.                Il senatore lo ricevette con le più alte dimostrazioni di stima e accettò la sua cooperazione, sinceramente confortato, poiché gli avvenimenti avrebbero smentito, davanti al suo tribunale interiore, le calunnie di cui era vittima la moglie.

5.                Invece la sua vita familiare aveva sofferto le più profonde alterazioni. Egli non sapeva più vivere quelle ore di colloquio felice con la sposa, dalla quale lo separava un velo di dubbi amari e infiniti. Molte volte tentò, inutilmente, di riacquistare l’antica fiducia e la sua spontaneità affettiva. Rughe di dolore avevano raggrinzito il suo volto, normalmente altero e orgoglioso, annebbiandone i lineamenti sotto una cappa di preoccupazioni angoscianti.

6.                Tutti i suoi intimi, inclusa la sposa, attribuivano alla scomparsa del figlio tale singolare metamorfosi. Nelle ore abituali dei pasti, si notava il suo sforzo per mostrare un volto sereno. Pertanto, si rivolgeva alla moglie o rispondeva alle sue domande affettuose, con rapidi monosillabi, evidenziando le sue parole una laconicità incomprensibile.

7.                Soffrendo molto di quella situazione, Livia appariva ogni giorno più abbattuta, cercando invano di comprendere il motivo di tante prove e disgrazie. Molte volte cercò di esplorare l’animo di Publio, in modo da donargli più affetto e più conforto, ma egli evitava quelle effusioni affettuose con fermi pretesti. Tanto che appariva solamente nella sala del triclinio e, consumato il pasto abituale, si ritirava subito nella grande sala dell’archivio, dove passava tutte le ore in preoccupante meditazione. Di Marco non si aveva alcuna notizia che potesse dargli la più lieve ombra di speranza.

8.                In una di quelle mattinate meravigliose della Galilea, incontriamo Livia in intima conversazione con la serva leale e amica fedele, a cui lei rispose in questi termini, dopo essere stata affettuosamente interpellata sulle sue condizioni di salute: «Mi sento molto male, mia buona Anna! ... Di notte il cuore mi batte disordinatamente e di ora in ora sento crescere dentro di me un doloroso senso di amarezza. Non potrei definire bene il mio stato, neppure se lo volessi... La scomparsa del bambino mi riempie l’anima di lugubri presagi, e moltiplica il peso delle mie afflizioni materne il fatto di non poter immaginare, nem­meno debolmente, la causa di così grandi sofferenze...

9.                E ora è soprattutto lo stato di Publio che mi preoccupa. Egli è stato sempre un uomo puro, leale e generoso; ma da qualche tempo a questa parte, noto in lui profonde mutazioni del temperamento, che gli aggravano molto intensamente i sintomi della sua sofferenza, dopo l’incomprensibile scomparsa di nostro figlio! A me sembra che egli soffra di fortissimi disturbi emozionali, con gravi pregiudizi per la salute...»

10.           «Capisco, signora, quanto soffriate!» disse la serva con affettuosità. «So che sono una creatura umile e senza alcun valore, ma chiederò a Dio che vi protegga sempre, ristabilendo la pace nel vostro cuore».

11.           «Creatura umile e senza valore?» disse la povera signora, cercando di dimostrarle quanto sinceramente la stimava. «Non dire questo, anche perché non sono una di quelle anime che misurano il valore di ognuno dalle posizioni che occupa o dagli onori che riceve. Io, figlia unica di genitori che mi lasciarono una considerevole fortuna, cittadina romana, con i vantaggi di moglie di un senatore, vedi quanto soffro negli amari travagli di questo mondo. I titoli che la culla mi offrì non sono riusciti a evitarmi le prove che tuttavia il destino mi riservò, insieme alla gioventù e alla ricchezza facile.

12.           Riconosci, quindi, che io, una patrizia, e tu, una serva, non abbiamo un cuore diverso, bensì il miglior sentimento di fraternità che ci apre la porta a un’affettuosa comprensione, da stimare come un soave rifugio nei giorni tristi della vita. Fra me e me, ho sempre pensato, contrariamente all’educazione ricevuta, che tutte le creature sono tra loro fratelli, figli di un’origine comune, senza voler seguire linee divisorie tra coloro che possiedono molte ricchezze e molti titoli, e coloro che non possiedono nulla in questo mondo all’infuori del cuore, dove sono solita riscontrare i valori di ognuno, in questa vita».

13.           «Signora, le vostre parole mi commuovono», esclamò la serva, commossa per la graditissima sorpresa, «non solo perché vengono dalle vostre labbra, dalle quali sono abituata ad ascoltarvi sempre con devozione e venerazione, ma anche perché il profeta di Nazareth ci ha detto la stessa cosa nei suoi discorsi».

14.           «Gesù?...» domandò Livia, con gli occhi lucidi, come se quel riferimento le facesse ricordare una fonte di consolazione della quale si fosse momentaneamente dimenticata.

15.           «Sì, mia signora, e poiché stiamo parlando di Lui, perché non cercate un po’ di conforto nelle sue divine parole? Vi giuro che le sue espressioni sapienti e amorose vi darebbero sollievo in mezzo a tutti questi dispiaceri, offrendovi sensazioni di vita nuova! ... Qualora lo voleste, io potrei accompagnarvi alla casa di Simone, con molta discrezione, per ricevere il beneficio delle sue sublimi lezioni. Avreste così la gioia della sua benedizione, senza esporvi alle critiche della gente, nutrendo il vostro cuore con i suoi luminosi insegnamenti».

16.           Livia pensò seriamente a quel consiglio che le si presentava come provvidenza salvifica, rispondendo infine: «Le sofferenze della vita molte volte mi hanno dilaniato il cuore, rafforzando i principi che mi sono stati inculcati fin dall’infanzia, ed è per questo che, accettando la tua idea, ritengo mio dovere incontrarmi con Gesù pubblicamente, come fanno le altre donne di questi luoghi.

17.           Era mia intenzione incontrarlo prima del nostro ritorno a Roma, per manifestargli la mia gratitudine per la guarigione di Flavia, fatto che mi ha lasciata profondamente impressionata, ma che a noi due non fu possibile commentare, a causa dell’atteggiamento ostile di mio marito; ora, nuovamente abbandonata, nel tormento dei miei dolori ricorrerò al profeta per ottenere un sollievo al mio cuore oppresso e torturato.

18.           Moglie di un uomo che in virtù della sua carriera politica occupa ora la più alta carica di questa provincia, andrò da Gesù come una creatura diseredata dalla sorte, in cerca di rifugio e conforto».

19.           «Signora, e vostro marito?» domandò Anna, prevedendo le conseguenze di quel comportamento.

20.           «Cercherò di informarlo della mia decisione; ma, se Publio si sottrarrà ancora una volta alla mia presenza per un intendimento più intimo, andrò lo stesso senza ascoltarlo a questo riguardo. Vestirò gli abiti umili delle creature semplici di questa regione, andrò a Cafarnao, alloggiando dai tuoi parenti per le ore necessarie e, nel momento delle prediche, voglio ascoltare la parola del Messia, col cuore contrito e l’anima triste per le sofferenze dei miei simili. Mi sento profondamente isolata in questi ultimi giorni, ed ho bisogno di conforto spirituale per il mio cuore indebolito dalle dure prove».

21.           «Signora, Dio benedica i vostri buoni propositi. A Cafarnao i miei parenti sono molto poveri e molto semplici, ma la vostra figura è lì nel sacrario della gratitudine di tutti, e basterà una vostra parola perché si mettano a vostra disposizione come schiavi».

22.           «Per me non esiste ricchezza che si possa comparare a quella della pace e del sentimento. Non incontrerò il Profeta per chiedergli attenzioni speciali, perché è sufficiente la sua carità nel caso di mia figlia, oggi sana e forte grazie alla sua pietà di giusto, ma solo per cercare conforto per il mio cuore dilaniato. È mio presentimento che, ascoltando le sue esortazioni caritatevoli e amichevoli, otterrò energie nuove per affrontare le prove più amare e crudeli. Io so che lui mi riconoscerà sotto le povere vesti del popolo di Galilea; mentre, nella sua intuizione divina, comprenderà che dentro al petto di una romana batte un cuore triste e infelice».

23.           Le due si misero, quindi, d’accordo per andare insieme in città nel pomeriggio del sabato seguente. Invano, Livia cercò l’occasione per chiedere al marito il tanto desiderato permesso per realizzare il suo desiderio. Più volte cercò, inutilmente, di esplorare l’animo di Publio, la cui freddezza le faceva perdere il coraggio per la necessaria richiesta.

24.           Ella, però, aveva deciso di incontrare il Maestro, a ogni costo. Abbandonata in una situazione in cui solo il marito avrebbe potuto comprenderla completamente, nella sfera della sua educazione e, duramente provata fin nelle fibre più sensibili della sua anima femminile, di sposa e di madre, la povera signora decise così, col pieno consenso della sua coscienza onesta e pura.

25.           Si cucì un vestito nuovo secondo gli usi della Galilea, in modo da non farsi notare in mezzo alla solita folla lì per assistere ai discorsi del lago e, avvisato Comenio che in quel giorno aveva bisogno di uscire, affinché il marito ne fosse informato all’ora di cena, si diresse, nel giorno stabilito, verso i luoghi che già conosciamo, in compagnia della serva di fiducia.

26.           Nell’umile casa di pescatori dove abitavano i parenti di Anna, Livia si sentì avvolta da radiose vibrazioni di serenità dolce e cordiale. Era come se il suo cuore abbandonato avesse incontrato una luce nuova in quell’ambiente di povertà, di umiltà e tenerezza.

27.           La figura patriarcale del vecchio Simeone della Samaria, invece, s’imponeva ai suoi occhi tra tutti coloro che la ricevettero con le più grandi dimostrazioni di affettuosa bontà. Dal suo sguardo profondo e dai suoi venerandi capelli bianchi si sprigionavano le dolci irradiazioni della meravigliosa semplicità dell’antico popolo ebraico, e la sua parola piena di fede sapeva toccare i cuori nelle sue corde più sensibili, quando raccontava le prodigiose azioni del Messia di Nazareth.

28.           Livia, accolta da tutti con sincera simpatia, sembrava che scoprisse un mondo nuovo, fino ad allora sconosciuto nella sua vita. La confortava soprattutto l’aspetto di sincerità e di candore di quella vita semplice e umile, senza ricercatezze né artifici sociali, ma anche senza preconcetti né infingimenti dannosi.

29.           A pomeriggio inoltrato, confusa con i poveri e i malati che andavano a ricevere la benedizione del Signore, la incontriamo col cuore sollevato e sereno che aspetta il momento felice di ascoltare dal Maestro le parole di amore e di conforto.

30.           Il crepuscolo di un giorno caldo e sereno dava un riflesso di luce dorata a tutte le cose e a tutti i dolci profili del paesaggio. Le placide acque del lago di Tiberiade si increspavano al lieve soffio degli zefiri delle ultime ore del pomeriggio, che erano impregnate del profumo dei fiori e degli alberi. Le brezze fresche vincevano il caldo, spandendo gradevoli sensazioni di vita libera, nel grembo rigoglioso e ricco della natura.

31.           Finalmente tutti gli occhi si volsero verso un punto scuro che appariva sullo specchio trasparente delle acque, molto lontano, all’orizzonte. Era la barca di Simone che traghettava il Maestro per i suoi abituali discorsi. Un sorriso di ansietà e di speranza illuminò, allora, tutti quei volti che lo aspettavano nello sconforto delle loro sofferenze.

32.           Livia osservò quella folla che, a sua volta, aveva notato la sua presenza estranea. Semplici operai, umili pescatori, molte madri nei cui visi sofferenti si potevano leggere le storie amare dei più incredibili patimenti, creature del popolo, anonime e sofferenti, mogli adultere, pubblicani gaudenti, infermi disperati e numerosi bambini che portavano con sé i segni del più doloroso abbandono.

33.           Livia si mantenne a fianco del vecchio Simeone, la cui espressione di fermezza e dolcezza ispirava il più profondo rispetto a quelli che gli si avvicinavano; e quanti notavano il delicato profilo romano della donna, infilata nel semplice abito galileo, pensavano d’intravedere nella sua figura una qualche giovane di Samaria della Giudea, che fosse comunque venuta da lontano, attratta dalla fama del Messia.

34.           La barca di Simone si era accostata dolcemente alla riva, permettendo che il Maestro si dirigesse verso il solito luogo per i suoi discorsi divini. Il suo volto appariva trasfigurato da una splendente bellezza. I capelli, come sempre, gli ricadevano sulle spalle secondo il costume dei nazareni, agitandosi lievemente al bacio carezzevole dei soavi venti della sera. La moglie del senatore non poteva più distogliere gli occhi abbagliati da quella figura semplice e meravigliosa.

35.           Il Maestro aveva dato inizio a un discorso d’inconfondibile bellezza, e le sue parole sembravano toccare gli spiriti più insensibili, sembrando che i suoi insegnamenti echeggiassero nelle valli di tutta la Galilea, risuonando per tutto il mondo, previamente adattati per diffondersi nel mondo, per l’eternità:

36.           «Beati gli umili di spirito, perché loro sarà il regno del Padre mio che sta nei Cieli...

37.           Beati i pacifici, perché erediteranno la Terra!...

38.           Beati coloro che hanno sete di giustizia, perché saranno saziati!...

39.           Beati coloro che soffrono e piangono, perché saranno consolati con le gioie eterne del regno di Dio!...»

40.           E la sua parola energica e soave parlava della misericordia del Padre Celeste, dei beni terreni e celesti, del valore delle inquietudini e angosce umane, aggiungendo che era venuto al mondo non per i più ricchi e i più felici, ma per consolare i più poveri e i diseredati dalla sorte. La folla eterogenea lo ascoltava estasiata nei suoi entusiasmi di speranza e piacere spirituale. Una luce serena e carezzevole sembrò scendere dal monte Hebron, illuminando il paesaggio con tonalità celestiali d’opale e zaffiri.

41.           Era già tardi e alcuni apostoli del Signore avevano deciso di portare alcuni pani per i più bisognosi di cibo. Furono portate due grandi ceste di frugali merende, ma gli astanti erano molto più numerosi. Gesù benedì il contenuto delle ceste e, come per divino miracolo, la scarsa provvista fu suddivisa in piccoli pezzi che furono religiosamente distribuiti a centinaia di persone.

42.           Anche Livia ricevette la sua parte e, mangiandola, sentì un sapore differente, come se avesse ingerito una medicina capace di curarle tutti i mali dell’anima e del corpo, perché fu come se una specie di tranquillità le avesse anestetizzato il cuore flagellato e disilluso. Commossa fino alle lacrime, vide che il Maestro ascoltava caritatevolmente numerose donne, fra le quali molte, secondo quello che il popolo di Cafarnao diceva, erano di vita dissoluta e scellerata.

43.           Il vecchio Simeone voleva anche lui avvicinarsi al Signore, in quell’ora memorabile del suo passaggio sulla Terra. Livia lo accompagnò automaticamente e, in pochi minuti, si trovarono tutt’e due davanti al Maestro che li accolse col suo generoso e profondo sorriso.

44.           «Signore», esclamò con rispetto il vecchio di Samaria, «che cosa dovrò fare per entrare, un giorno, nel Tuo regno?»

45.           «In verità ti dico», gli rispose Gesù amorevolmente «che molti verranno dall’Occidente e dall’Oriente, cercando le porte del Cielo, ma incontreranno il regno di Dio e della Sua giustizia solamente coloro che ameranno profondamente, sopra tutte le cose della Terra, il Padre nostro che sta nei Cieli, amando il prossimo come se stessi».

46.           E spaziando lo sguardo compassionevole e misericordioso su quella grande folla, continuò dolcemente: «Molti, inoltre, di quelli che sono stati chiamati qui, saranno scelti per il grande sacrificio che si avvicina! Questi Mi incontreranno nel regno celeste, perché le loro rinunce dovranno essere il sale della Terra e …il Sole di un nuovo giorno!»

47.           «Signore», osò l’anziano con gli occhi pieni di lacrime, «tutto farei per essere uno dei Tuoi prescelti».

48.           Ma Gesù, fissando dritto negli occhi il patriarca di Samaria, mormorò con infinita dolcezza: «Simeone, in pace e non aver fretta, perché, in verità, accetterò il tuo sacrificio al momento opportuno...», e estendendo il raggio di luce dei suoi occhi fino alla persona di Livia, che assorbiva le sue parole con la sete ardente della sua attenzione, esclamò con la chiarezza profetica delle sue esortazioni: «Quanto a te, rallegrati col Padre nostro, perché le Mie parole e i Miei insegnamenti ti hanno toccato il cuore per sempre. e non perdere la fede, perché tempo verrà in cui saprai accettare i tuoi sacrifici santificanti».

49.           Queste parole furono pronunciate con una tale espressione che la sposa del senatore non ebbe difficoltà a comprenderne il significato profondo, per un lontano futuro. Lentamente il grande assembramento di poveri, d’infermi e di afflitti si disperse. Era notte quando Livia e Anna, sole, tornarono a casa confortate per le grazie ricevute dalle mani caritatevoli del Messia. Una profonda sensazione di sollievo e conforto inondava la loro anima.

50.           Tuttavia, entrando nei suoi appartamenti, Livia si trovò davanti la figura risoluta del marito, il quale lasciava trasparire dalla sua espressione seria i più intensi segnali di irritazione, come succedeva nei momenti del suo più profondo malumore. Ella notò l’esasperazione del suo animo, ma, al contrario di altre volte, sembrò completamente preparata a vincere le più tremende lotte del cuore, perché, con serenità imperturbabile, lo fissò faccia a faccia, affrontando il suo sguardo sospettoso. Le sembrò che il fiore dell’eterna pace spirituale le fosse sbocciato nell’intimo, al soave calore delle parole di Cristo, in quanto le pareva di aver toccato il terreno, fino ad allora sconosciuto, di una serenità insolita e superiore.

51.           Dopo averla guardata dall’alto in basso con il suo sguardo severo e inquisitorio, Publio, mal celando la collera incomprensibile, esclamò: «E allora, che cosa significa tutto questo? Quali grandi ragioni avrebbero portato la signora ad assentarsi da casa in ore tanto inopportune per una madre di famiglia?»

52.           «Publio», rispose lei con umiltà, trovando strano quel trattamento ironicamente cerimonioso, «per quanto abbia cercato di comunicarti la mia decisione, cioè di uscire nel pomeriggio di oggi, tu sempre hai eluso la mia presenza, sottraendoti alla mia richiesta. Ed io avevo bisogno di incontrare il Messia di Nazareth, per calmare il mio cuore infelice...»

53.           «Ed era necessario un travestimento per incontrare il profeta del popolo?» rispose il senatore con ironia. «È la prima volta che vedo una patrizia usare tali artifici per consolare il cuore. Arriva a così alto grado il suo disprezzo per le nostre più sacre tradizioni familiari?»

54.           «Ho pensato che non sarebbe stato opportuno farmi notare in mezzo alla folla di poveri e infelici che incontrano Gesù sulle rive del lago, e immedesimandomi nei sofferenti, non ho inteso mancare di riguardo ai nostri costumi familiari, bensì ho creduto di agire a favore del nostro nome, considerando il fatto che tu occupi, al momento, in questa provincia, la più alta carica politica dell’Impero».

55.           «A meno che tu non stia nascondendo qualche altro sentimento, come nascondi la tua posizione sociale con gli indumenti, molto hai sbagliato a incontrare il Messia con questo abbigliamento, perché, in fin dei conti, io sono investito di poteri tali da permettermi la presenza di qualsiasi persona della regione, nella mia casa».

56.           «Ma Gesù», ribatté Livia con coraggio, «deve stare per noi molto più al di sopra dei poteri umani, che sappiamo tanto precari a volte. Ritengo che la guarigione della nostra figlioletta, per la quale tutti i nostri mezzi erano stati impotenti, è motivo sufficiente per renderlo creditore della nostra gratitudine eterna».

57.           «Non sapevo che la tua mente fosse tanto fragile di fronte ai successi del Maestro di Nazareth, qui a Cafarnao», continuò il senatore, aspramente. «La cura di nostra figlia? Come affermare una cosa che le tue argomentazioni personali non possono provare con dati sicuri? E quand’anche quest’uomo, investito di forze divine, per lo spirito semplice e ignorante dei pescatori galilei, avesse operato questa guarigione col suo intervento soprannaturale, venendo in questo mondo da parte degli dèi, dovremmo ritenerlo impietoso e crudele, avendo guarito una bambina inferma da tanti anni e permettendo che i geni del male e della perversità ci strappassero il figlio sano e amorevole, sulla cui testa la mia tenerezza di padre collocava tutto un futuro brillante e promettente».

58.           «Taci, Publio!», replicò lei, dominata da una forza superiore che le manteneva tutta la serenità del cuore. «Ricordati che gli dèi possono umiliare, e con severità, vanità e orgoglio assurdi. ... Se Gesù di Nazareth ci ha guarito la figlia tanto amata, che stringevamo nelle braccia fragili contro i poteri immensi della morte, poteva anche permettere che fossimo toccati nel più sacro sentimento della nostra anima con l’incomprensibile scomparsa del nostro Marco, affinché ci piegassimo alla compassione e alla pietà per i nostri simili! ...»

59.           «La signora si compromette con questa esagerata tolleranza che giunge all’assurdo della fraternità con gli schiavi», disse Publio, con durezza e austera severità.

60.           «Tale atteggiamento da parte tua mi ha fatto seriamente pensare che la tua personalità è cambiata nel corso di quest’anno, perché le tue idee, lontane dal livello sociale della sede dell’Impero, si sono abbassate fino a toccare i sentimenti peggiori, di fronte alla dignità che si esige dalla moglie di un senatore o da una matrona romana».

61.           Livia ascoltò con angoscia le parole ingiuste del marito. Mai lo aveva visto tanto irritato durante tutto il periodo di vita coniugale; ma aveva verificato in se stessa un rinnovamento singolare, come se il rustico pane benedetto dal Maestro le avesse trasformato le più recondite fibre della coscienza. I suoi occhi si riempirono di lacrime, non per un orgoglio ferito o per l’ingratitudine che quegli ingiusti rimproveri rivelavano, ma per una profonda compassione verso lo sposo che non la comprendeva, immaginando la dolorosa tempesta che flagellava il suo cuore generoso, però arbitrario sul piano delle sue risoluzioni. Serena e silenziosa, non si giustificò di fronte a quei severi ammonimenti.

62.           Fu allora, comprendendo che quell’attrito non sarebbe dovuto continuare, che il senatore si diresse verso la porta d’uscita della camera e, aprendola violentemente, esclamò: «Non ho mai fatto un viaggio così penoso e così infelice! I geni maligni sembrano presiedere alle mie attività in Palestina, perché, se ho guarito una figlia, ho perduto un figlio nell’ignoto, e comincio a perdere anche la moglie nell’abisso della sconsideratezza e dell’incoerenza; e finirò anch’io col perdermi per sempre».

63.           Dicendo questo, sbatté la porta con tutta la forza dei suoi moti istintivi e s’incamminò verso il suo studio, mentre la sposa, col cuore afflitto, rivolgeva il suo pensiero a quel Gesù buono e tenero che era venuto al mondo per salvare tutti i peccatori. Lacrime dolorose sgorgarono dai suoi occhi, ancora fissi nel paesaggio del lago di Genezareth, dove le sembrò di essere tornata nuovamente in spirito. Là stava il Maestro in dolce atteggiamento di preghiera, fissando nelle stelle del cielo gli occhi sfolgoranti.

64.           Le sembrò che Gesù avesse notato la sua presenza in quell’ora oscura della notte, poiché Lui aveva distolto lo sguardo fulgido dal firmamento pieno di stelle e le tendeva le braccia compassionevoli e misericordiose, esclamando con infinita dolcezza: «Figlia, lascia che i tuoi occhi piangano le imperfezioni dell’anima che il Padre nostro destinò come gemella della tua! Non aspettarti da questo mondo, se non lacrime e sofferenze, poiché è nel dolore che i cuori si illuminano per il Cielo. Tempo verrà in cui ti sentirai al colmo delle afflizioni, ma non dubitare della Mia misericordia, poiché al momento opportuno, quando tutti ti disprezzeranno, Io ti chiamerò nel Mio regno di divine speranze, dove potrai aspettare il tuo sposo, nel corso incessante dei secoli!...»

65.           Le parve che il Maestro avrebbe continuato a cullare il suo cuore con soavi e affettuose promesse di beatitudini, ma un rumore la distrasse da quella visione di luce e di felicità indefinibile. Si era spezzato il quadro della sua concentrazione spirituale, come se fosse fatto di leggerissime filigrane.

66.           Tuttavia, la sposa del senatore comprese che non era stata vittima di un delirio allucinatorio, e custodì con amore nel profondo del suo cuore le dolci parole del Messia. E mentre si spogliava delle vesti galilee per riprendere il corso dei suoi obblighi domestici con anima limpida e consolata, le sembrò di scorgere ancora il volto sereno e amato del Signore sulle alture verdeggianti delle rive del lago di Tiberiade, attraverso la nebbia soave che le offuscava gli occhi umidi di pianto.

 

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Cap. VIII

NEL GRANDE GIORNO DEL CALVARIO

 

1.                Dal momento della discussione con la moglie, Publio Lentulo si era chiuso nel più triste silenzio. Dolorosi sospetti flagellavano il suo cuore riguardo il comportamento di colei che il destino aveva unito al suo spirito per sempre nell’istituzione della vita coniugale. Non riusciva a comprendere il travestimento che Livia aveva usato per l’incontro col Profeta di Nazareth, poiché il suo temperamento orgoglioso si ribellava a quell’atteggiamento di sua moglie, considerando la sua posizione sociale un simbolo di venerazione e di rispetto per tutti, dando adito, così, alle più penose idee di sfiducia, avvelenato dalle calunnie di Fulvia e di Sulpicio.

2.                Era passato un po’ di tempo e, mentre lui si trincerava nel suo mutismo e nella sua malinconia, Livia si attaccava alla fede, alle parole affettuose e persuasive del Nazareno. Non era più tornata a Cafarnao ad ascoltare le prediche consolatrici del Messia, ma per mezzo di Anna, che vi andava puntualmente, cercò di aiutare, sempre che le fosse possibile, i poveri che cercavano la parola di Gesù, in misura dei suoi mezzi materiali. Una profonda tristezza invadeva il suo cuore sensibile e generoso nell’osservare gli atteggiamenti incomprensibili del compagno; ma la verità era che ormai non riponeva più le sue speranze in una qualche realizzazione del mondo terreno, volgendo le più ardenti aspirazioni verso quel regno di Dio, meraviglioso e sublime, dove tutto traspirava amore, felicità e pace, nel grembo traboccante di sovrane consolazioni celesti.

3.                Si avvicinava la Pasqua dell’anno 33. I numerosi amici di Publio avevano consigliato il suo ritorno temporaneo a Gerusalemme, al fine di intensificare i servizi di ricerca del figlio nel corso delle festività che in quell’epoca radunavano le grandi moltitudini della Palestina, creando possibilità maggiori di in­contrare lo scomparso. Innumerevoli pellegrini di tutte le regioni della provincia si dirigevano verso Gerusalemme per partecipare alle grandi feste, offrendo allo stesso tempo il tributo della loro fede nel sontuoso tempio. Anche la nobiltà locale si faceva notare lì, in tali circostanze attraverso i suoi per­sonaggi più rappresentativi. Tutti i partiti politici si organizzavano per i servizi straordinari delle solennità che riunivano le più grandi masse del giudaismo, e verso la città s’incamminavano gli uomini più importanti del tempo. Le autorità romane, a loro volta, nella stessa occasione si concentravano anch’esse a Gerusalemme, riunendosi nella città quasi tutti i centurioni e legionari inviati in distaccamento al servizio dell’Impero nelle regioni più remote della provincia.

4.                Publio Lentulo non disdegnò l’idea e, prima che la città si riempisse di pellegrini ed esploratori, già si trovava lì con la famiglia, a dare istruzioni ai servi di fiducia che conoscevano il piccolo Marco, in modo da formare un cordone di investigatori attenti e stabili, per tutta la durata dei festeggiamenti.

5.                A Gerusalemme, le convenzioni sociali non si erano modificate, notandosi appena la circostanza che Publio aveva lasciato la residenza dello zio Salvio, acquistando una villa comoda e graziosa nel pieno centro di una via movimentata, da dove si potevano osservare ugualmente le manifestazioni popolari.

6.                Erano arrivati pochi giorni prima della Pasqua con la gran massa dei pellegrini di ogni classe e di tutte le località della provincia. Interessante osservare, in quei blocchi eterogenei di popolo, le abitudini più differenti fra loro. Un numero inestimabile di carovane che mostravano i più singolari costumi, attraversava le porte della città, sorvegliate da numerosi soldati pretoriani.

7.                E mentre il senatore faceva comparazioni di ordine economico, sociale e politico, osservando le masse di popolo che affluivano per le strade movimentate, noi incontriamo Livia in intima conversazione con la serva di sua fiducia e amica.

8.                «Sapete, signora, che anche il Messia è arrivato ieri in città?» esclamò Anna con un raggio di gioia nei grandi occhi.

9.                «Davvero?» chiese Livia, sorpresa.

10.           «Sì, fin da ieri Gesù è arrivato a Gerusalemme, salutato da grandi manifestazioni popolari. La resurrezione di Lazzaro, in Betania, ha confermato le sue doti divine di Figlio di Dio, fra gli uomini più miscredenti di questa città, e ora ho saputo che il suo arrivo è stato oggetto di immensa gioia da parte del popolo. Tutte le finestre si sono ornate di fiori al Suo passaggio trionfale, i bambini hanno sparso palme verdi e profumate lungo il cammino, in omaggio a Lui e ai suoi discepoli! ... Molta gente ha accompagnato il Maestro dalle rive del lago di Genezareth, seguendolo fin qui, attraverso tutte le località. Chi mi ha portato la notizia è stato un conoscente che ha accompagnato lo zio Simeone, il quale, anche lui, è venuto a Gerusalemme, facendosi questa gran camminata, nonostante l’età avanzata ...».

11.           «Anna, questa notizia è molto confortante», le disse la signora con bontà «e se io potessi, andrei ad ascoltare la parola del Maestro, ovunque Egli fosse; ma tu ben conosci le difficoltà per la realizzazione di questo mio desiderio. Nel frattempo tu sei libera da ogni tuo obbligo e lavoro durante la permanenza di Gesù a Gerusalemme, in modo da approfittare delle feste della Pasqua, per ascoltare, al tempo stesso, le prediche del Messia, che tanto bene fanno al nostro cuore».

12.           E consegnando alla serva l’indispensabile aiuto pecuniario, osservò che Anna partiva soddisfatta in direzione dei luoghi circostanti al Monte degli Ulivi dove erano accampate masse compatte di pellegrini, fra i quali si notava la presenza del vecchio Simeone della Samaria, pellegrino coraggioso che non aveva esitato, nonostante l’età avanzata, ad aderire allo spostamento dei pellegrini, attraverso i più scabrosi e lunghi cammini.

13.           In casa di Lentulo non c’era tanto interesse per le grandi feste del giudaismo. Un unico motivo giustificava la presenza del senatore a Gerusalemme, in quei giorni di confusione: la ricerca incessante del figlio, che sembrava perduto per sempre! Ogni giorno ascoltava i servi di fiducia dopo le indagini fatte, e di momento in momento si sentiva più triste per la dura disillusione, considerando l’inutile lotta con quelle ricerche minuziose e infruttuose.

14.           Nella villa luminosa e con giardino, le ore passavano lente e tristi. Invano si animavano le vie, pattugliate dai soldati e piene di creature di tutte le classi sociali. Il vociare delle rumorose manifestazioni popolari passava oltre quelle porte quasi silenziose, come echi spenti di rumori più lontani.

15.           La penosa situazione coniugale in cui era venuto a trovarsi, separava il senatore dalla moglie come se essi fossero irrimediabilmente distanti l’una dall’altro, e i sacri legami del cuore, distanti per sempre. Fu in questo ritiro di calma apparente che Anna tornò una mattina, dopo alcuni giorni, per raccontare alla signora la repentina cattura del Messia.

16.           Con la semplicità spontanea e sincera dell’anima popolare che ella rappresentava, l’umile serva raccontò, nei minimi dettagli, la scena provocata dall’ingratitudine di uno dei discepoli, a causa dell’animosità e dell’ambizione dei sacerdoti e dei farisei del tempio della grande città israelita.

17.           Amaramente addolorata di fronte all’accaduto, Livia pensò che, se fosse stato in un altro momento, avrebbe immediatamente fatto ricorso alla protezione politica del marito, in modo da evitare al profeta di Nazareth gli attacchi delle smisurate ambizioni. Ora, però, riconosceva che non le era possibile avvalersi del prestigio del marito in simili circostanze. Proprio per questo cercò di avvicinarsi a lui con tutti i mezzi, per quanto inutilmente. Da una sala contigua allo studio del marito, notò che Publio ascoltava le numerose persone che, in atteggiamento riservato, lo cercavano personalmente; e l’interessante era che secondo quanto aveva potuto osservare, tutti esponevano al senatore lo stesso problema, cioè l’arresto inatteso di Gesù il Nazareno, avvenimento che aveva sviato tutte le attenzioni delle feste di Pasqua. Tale era l’interesse provocato dagli atti del Maestro, in tutti gli spiriti. Alcuni sollecitavano il suo intervento nel processo contro l’accusato; altri, dalla parte dei farisei, legati ai sacerdoti del Sinedrio, mostravano ai suoi occhi il pericolo dei discorsi di Gesù, presentato da molti come un incosciente rivoluzionario contro le autorità politiche dell’Impero.

18.           Inutilmente Livia sperò che il marito le concedesse due minuti di attenzione, nella sala vicina al suo studio privato. La sua ansietà era allo stremo, quando intravide la figura di Sulpicio Tarquinio che veniva da parte di Pilato per chiedere al senatore l’onore della sua presenza nel palazzo del governo provinciale, il più presto possibile, per risolvere un caso di coscienza.

19.           Publio Lentulo non si fece pregare. Esaminando i suoi doveri di uomo di Stato, concluse che avrebbe dovuto dimenticare qualsiasi aspetto della sua vita personale e privata, andando incontro agli obblighi che doveva all’Impero.

20.           Livia perdette, allora, ogni speranza di implorare il suo aiuto a favore del Maestro, per quel giorno. Senza saperne il perché, una grande tristezza invase il suo mondo interiore. E fu con l’anima avvolta nelle tenebre che elevò al Padre Celeste le sue fervide e sincere preghiere per Colui che il suo cuore con­siderava un chiaro Messaggero dei Cieli, chiedendo a tutte le forze del bene che il Figlio di Dio fosse liberato dalla persecuzione e dalla perfidia degli uomini.

21.           Arrivato alla corte provinciale romana in quell’indimenticabile giorno di Gerusalemme, Publio Lentulo fu colto da una straordinaria sorpresa: una folla compatta di popolo si accalcava nella grande piazza, con un clamore assordante.

22.           Pilato lo ricevette con cortesia e sollecitudine, conducendolo in un ampio studio dove stava riunito un piccolo numero di patrizi scelti con cura nella città di Gerusalemme. Il pretore Salvio, funzionari importanti, militari graduati e alcuni romani civili di una certa notorietà che si trovavano per caso in città, erano lì riuniti, convocati dal governatore che si rivolse a Publio Lentulo in questi termini:

23.           «Senatore, non so se avete avuto l’occasione di conoscere nella Galilea un uomo straordinario che il popolo ha preso l’abitudine di chiamare Gesù Nazareno. Quest’uomo è stato ora arrestato a causa della condanna decretata dai membri del Sinedrio, e la massa popolare che lo aveva accolto in questa città con palme e fiori, chiede ora, in questa piazza, la sua immediata condanna da parte delle autorità provinciali, confermando la sentenza emessa dai sacerdoti di Gerusalemme. Io, francamente, non gli riconosco alcuna colpa, se non quella di ardente visionario di cose che non posso o non so comprendere, mentre mi sorprende amaramente il suo penoso stato di povertà».

24.           In quel momento entrarono nella sala le due sorelle, Claudia e Fulvia, che presero posto in quel ristretto consiglio di patrizi.

25.           «Proprio questa notte», continuò Pilato volgendosi verso sua moglie, «sembra che gli auguri degli dèi si siano manifestati per orientarmi, poiché Claudia ha sognato una voce che le consigliava che io non avrei dovuto rischiare la mia responsabilità nel giudicare quest’uomo giusto. Ho deciso, pertanto, di agire con coscienza, qui riunendo tutti i patrizi e tutti i romani importanti di Gerusalemme, per esaminare il caso, in modo che il mio atto non pregiudichi gli interessi dell’Impero, né sia contrario al mio ideale di giustizia. Che pensate dunque, inter nos, della mia precauzione, in qualità di diretto rappresentante del Senato e dell’imperatore, in questo momento?»

26.           «Il vostro atteggiamento», disse il senatore, consapevole delle sue responsabilità «rivela il massimo giudizio nelle questioni amministrative». E, ricordando nel suo intimo il bene che aveva ricevuto dal profeta con la guarigione della figlioletta, nonostante i dubbi generati dal suo orgoglio e dalla sua vanità, continuò: «Ho conosciuto da vicino il profeta di Nazareth, a Cafarnao, dove nessuno lo considerava un cospiratore o un rivoluzionario. Le sue azioni, lì, erano quelle di un uomo superiore, caritatevole e giusto, e non ho mai saputo che la sua parola si sollevasse contro qualche istituzione sociale o politica dell’Impero. Certamente, qui, qualcuno lo vede come uno che aspiri a una carica politica della Giudea, alimentando con il suo nome le ambizioni e il risentimento dei sacerdoti del tempio. Ma visto che custodite nel cuore giustificati scrupoli, perché non mandate il prigioniero al tribunale di Antipa, al quale, per maggiore competenza, deve interessare la soluzione di un simile caso? Rappresentando lui, in questi giorni, il governo della Galilea qui a Gerusalemme, credo che nessuno meglio di Erode possa risolvere in sana coscienza un caso come questo, se si considera la circostanza che egli giudicherà un suo compatriota; e giacché credete di non essere in possesso di tutti gli elementi per proferire una sentenza definitiva in questo insolito processo».

27.           L’idea fu unanimemente accolta, e l’accusato fu condotto da alcuni centurioni alla presenza di Erode Antipa che obbedì rigorosamente alle decisioni di Pilato in questo senso. Tuttavia, nel palazzo del tetrarca della Galilea, Gesù di Nazareth fu ricevuto con profondo sarcasmo.

28.           Chiamato dalla gente semplice “Re dei Giudei” e simboleggiare la speranza di certe rivendicazioni politiche per moltissimi dei suoi seguaci, fra i quali anche il famoso discepolo di Keriot[8], il Maestro di Nazareth fu trattato dal principe di Tiberiade come un volgare cospiratore, umiliato e vinto.

29.           Antipa, però, per dimostrare al procuratore della Giudea quanto ridicoli egli considerasse i suoi scrupoli, ordinò che il prigioniero fosse trattato col massimo dello scherno. Lo rivestì di una tunica bianca, uguale alla veste dei principi del tempo, mettendogli fra le mani una canna immonda, a guisa di scettro, e cinse la sua fronte umiliata con una corona di spine velenose, mandandolo nuovamente a giudizio da Pilato, nel vortice di schiamazzi della plebaglia inferocita. Molti soldati romani circondavano l’accusato per proteggerlo dagli assalti della folla furiosa e incosciente.

30.           Gesù, rivestito per dileggio di vesti regali, coronato di spine e impugnando una canna come simbolo del suo regno nel mondo, lasciava trasparire dai suoi occhi profondi un’indefinibile malinconia.

31.           Saputo che il prigioniero era stato restituito da Antipa al suo tribunale, il governatore si rivolse nuovamente ai suoi concittadini, esclamando: «Amici miei, nonostante i nostri sforzi, Erode si appella ancora a noialtri perché sia confermata la condanna del profeta di Nazareth, rimandandolo con la sua situazione penosamente aggravata davanti al popolo, poiché, quale suprema autorità di Tiberiade, ha trattato il prigioniero con rivoltante sarcasmo, facendoci intendere il disprezzo con cui suppone che co­stui debba essere considerato dalla nostra giustizia e amministrazione. Tanto amara situazione mi rende abbastanza triste, perché il cuore mi dice che quest’uomo è un giusto; ma che cosa possiamo fare in un simile caso?»

32.           Dalla sala isolata dove era riunito l’avventato e ridotto consiglio di patrizi, si potevano sentire le grida assordanti dei rivoltosi, in un clamore spaventoso.

33.           Un aiutante del servizio d’ordine del governatore, di nome Polibio, uomo saggio e onesto, entrò nella sala, pallido e quasi tremante, rivolgendosi a Pilato così: «Signor governatore, la moltitudine inferocita minaccia di invadere la casa se non confermate la sentenza di condanna di Gesù Nazareno il più presto possibile».

34.           «Ma questo è assurdo», rispose Pilato turbato. «E alla fine, cosa dice il profeta in tali circostanze? Sopporta tutto senza una parola di difesa e senza un appello ufficiale ai tribunali di giustizia?»

35.           «Signore», replicò Polibio altrettanto impressionato «il prigioniero è straordinario nella sua serenità e rassegnazione. Si lascia trascinare dai suoi aguzzini con la docilità di un agnello e non reclama nulla né protesta per l’abbandono in cui lo hanno lasciato quasi tutti i diletti discepoli della sua dottrina!

36.           Commosso dalle sue sofferenze, sono stato da lui per parlargli personalmente e, chiedendogli dei suoi patimenti, egli ha affermato che avrebbe potuto invocare le legioni dei suoi angeli e polverizzare tutta Gerusalemme in un minuto, ma che questo non faceva parte dei disegni divini, bensì la sua infamante umiliazione, affinché si compissero le profezie delle Scritture. Gli ho fatto capire che sarebbe potuto ricorrere alla vostra magnanimità per ottenere un processo all’interno dei nostri sistemi giudiziari, in modo da provare la sua innocenza. E, tuttavia, Egli ha ricusato un simile mezzo, adducendo il fatto che Lui escludeva ogni protezione politica degli uomini, per confidare solamente in una giustizia che Egli dice essere quella del Padre Suo che sta nei Cieli!»

37.           «Che Uomo straordinario», ribatté Pilato, mentre i presenti lo seguivano stupefatti. Poi continuò: «Polibio, cosa potremmo fare per evitargli la morte vergognosa nelle mani assassine della folla inco­sciente?»

38.           «Signore, in vista della necessità di una rapida risoluzione, suggerisco la pena della flagellazione nella pubblica piazza, per vedere se così riusciamo a calmare le ire del popolo, evitando al prigioniero la morte vergognosa per mano di scellerati senza coscienza».

39.           «Ma... la flagellazione?» disse Publio Lentulo, stupito, prevedendo le torture dell’orribile supplizio.

40.           «Sì, amico mio», replicò il governatore, rivolgendogli la parola con rispettosa attenzione. «L’idea di Polibio è buona. Per evitare all’accusato la morte ignominiosa, temo che dovremo aggrapparci a questo rimedio. Vivendo nella Giudea da quasi sette anni, conosco questo popolo e so dei suoi temibili compor­tamenti quando le sue passioni si scatenano».

41.           Il supplizio fu allora ordinato, col presupposto di evitare mali maggiori. Davanti a tutti, Gesù fu flagellato in modo impietoso, sotto le incitazioni assordanti della folla impazzita.

42.           In quel momento doloroso, Publio e alcuni romani si allontanarono per alcuni istanti dalla sala privata dove si erano riuniti, per osservare i moti istintivi della folla fanatica e ignorante. Non sembrava che i pellegrini di Gerusalemme fossero accorsi nella città per le liete commemorazioni della Pasqua, ma fossero venuti solamente per procedere alla condanna dell’umile Messia di Nazareth. Di quando in quando diventava necessario l’intervento risoluto di audaci centurioni, per disperdere alcuni dei gruppi più esaltati, a colpi di spada.

43.           Il senatore espresse la volontà di avvicinarsi al suppliziato, durante le sue dolorose ed estreme prove.

44.           Quel volto energico e dolce nel quale i suoi occhi avevano scoperto un’aureola di luce soave e misericordiosa sulle rive del lago di Tiberiade, era ora bagnato di sangue e sudore, che gli scendevano dalla fronte ferita dalle spine acuminate, mescolandosi a lacrime amare; i suoi delicati lineamenti apparivano pervasi da un pallore terribile e indescrivibile; i capelli gli cadevano nella stessa maniera incantevole sulle spalle seminude, e tuttavia, adesso, erano scomposti dalla ignominiosa corona di spine che gli era stata calcata sul capo; il suo corpo vacillava tremebondo a ogni frustata più forte, ma lo sguardo profondo si riempiva della stessa inesprimibile e misteriosa bellezza, rivelando una malinconia amara e indefinibile. Per un momento i suoi occhi incontrarono quelli del senatore, che abbassò la fronte, commosso dalla immortale espressione di quella sovrumana maestà.

45.           Publio Lentulo tornò intimamente scosso all’interno del palazzo, dove, di lì a poco, fece ritorno anche Polibio, per riferire al governatore che la pena della flagellazione non aveva saziato, purtroppo, le ire della popolazione inferocita, la quale reclamava la crocifissione del condannato.

46.           Penosamente sorpreso, il senatore esclamò, rivolgendosi a Pilato familiarmente: «Non avete, per caso, qualche prigioniero con il processo concluso, che possa sostituire il profeta in così orribili pene? Le masse posseggono un’anima capricciosa e versatile ed è ben possibile che questa di oggi si senta soddisfatta dalla crocifissione di un criminale qualsiasi, al posto di quest’uomo, che può anche essere un mago o un visionario, ma ha un cuore caritatevole e giusto».

47.           Il governatore della Giudea si concentrò per alcuni momenti, facendo leva sulla memoria per trovare la soluzione desiderata. Si ricordò allora di Barabba, uomo pericoloso che era in carcere ad aspettare l’ultima pena, conosciuto e odiato da tutti per il suo comprovato animo perverso, e alla fine rispose: «Molto bene!... Abbiamo qui nel carcere, con sollievo di tutti, uno scellerato che in effetti potrebbe sostituire il profeta nella morte infamante».

48.           E chiedendo di fare possibilmente silenzio, da una delle terrazze dell’edificio ordinò al popolo di scegliere fra il bandito e Gesù. Ma con grande sorpresa di tutti i presenti, la moltitudine sbraitò con sinistro schiamazzo, in un torrente di improperi: «Gesù... Gesù... Liberiamo Barabba... A morte Gesù!... Crocifiggetelo! ... Crocifiggetelo!...»

49.           Tutti i romani si erano avvicinati alle finestre per osservare l’incoscienza della folla scellerata nella furia dei suoi istinti scatenati.

50.           «Cosa fare di fronte a un tale quadro?» domandò Pilato, turbato, al senatore che l’ascoltava attentamente.

51.           «Amico mio», rispose Publio con energia, «se la decisione dipendesse solamente da me, la baserei sui nostri codici giudiziari, la cui evoluzione non comporta più una condanna così sommaria come questa, e farei disperdere la folla incosciente da una carica di cavalli; ma ben comprendo che le mie attribuzioni transitorie presso il vostro governo, non mi danno diritto a tali eccessi, e oltre a ciò, voi avete qui un’esperienza di sette anni consecutivi. Da parte mia, suppongo che sia stato fatto tutto affinché le decisioni non siano precipitose. Prima di tutto, il prigioniero è stato mandato per essere giudicato da Antipa, che ha complicato la situazione davanti alla folla irresponsabile, a causa delle sue infelici nozioni dei compiti di governo, lasciando a voi la responsabilità dell’ultima parola sulla questione; in secondo luogo, voi avete deciso il supplizio della flagellazione, per dare soddisfazione al popolo in rivolta, e ora giungete al punto di indicare un altro delinquente da crocifiggere al posto dell’accusato. E tutto, inutilmente!

52.           Come uomo, sono contro questo popolo incosciente e disgraziato, e farei di tutto per salvare l’innocente, ma come romano, penso che una provincia come questa non è che un’unità economica dell’Impero, e non spetta a noialtri il diritto di interferire nei suoi grandi problemi morali. Ritengo perciò che la responsabilità di questa morte nefanda debba ora ricadere esclusivamente su questa folla di ignoranti e disperati, e sui sacerdoti ambiziosi ed egoisti che la comandano».

53.           Pilato appoggiò la fronte sulle mani, come per riflettere amaramente su quelle considerazioni. Ma prima che potesse esternare la sua opinione ecco che, afflitto, sopraggiunge Polibio, esclamando con fare discreto:

54.           «Signor governatore, è necessario che voi prendiate in fretta la vostra decisione. Spiriti maldicenti cominciano a mettere in dubbio la vostra fedeltà al governo di Cesare, spinti dagli intrighi dei sacerdoti del tempio, ponendo la vostra dignità su un terreno equivoco per tutti... Oltre a ciò, la plebaglia sta tentando di invadere la casa, ed è necessario che voi assumiate un atteggiamento risoluto, senza perdere un solo minuto».

55.           Pilato diventò rosso di collera davanti a simili ingiunzioni ed esclamò irritato, come se fosse sotto il giogo del più singolare dei determinismi: «E va bene! Io mi laverò le mani di questo vergognoso delitto. Il popolo di Gerusalemme ne sarà soddisfatto!»

56.           Ed effettuando questo gesto che lo avrebbe reso celebre per sempre, rivolse alcune parole al condannato, ordinando poi di rinchiuderlo in una cella, dove potesse rimanere alcuni minuti senza dover ascoltare le volgarità lanciate dalla folla impetuosa, prima che la stessa moltitudine lo trascinasse fino al Golgota, che nel linguaggio comune, dovrà tradursi “Luogo del Teschio”.

57.           Un Sole rovente aveva reso soffocante e insopportabile l’atmosfera.

58.           Saziata finalmente la furia della moltitudine nei suoi dissennati deliri, numerosi soldati seguirono il prigioniero, incamminatosi verso il monte della crocifissione con passo vacillante sotto il peso della croce ignominiosa che la giustizia dell’epoca destinava ai banditi e ai ladri.

59.           Fino al momento della sua partenza sotto la croce, nessuno si era interessato di Lui presso l’autorità del governatore della Giudea. Da ciò il senatore aveva dedotto che quanti avevano seguito il Maestro di Nazareth sulle rive del lago, a Cafarnao, l’avevano completamente abbandonato.

60.           Da una delle finestre del palazzo osservò addolorato l’umiliazione inflitta a quell’uomo che un giorno lo aveva dominato con la forza magnetica della sua impenetrabile personalità, guardando l’ondeggiamento della folla inferocita all’uscita dell’indimenticabile corteo.

61.           A lato del Maestro non si vedevano più né l’affettuosa assistenza dei discepoli né i suoi numerosi seguaci. Solo alcune donne – fra le quali si distingueva il volto commosso e tormentato di sua madre – lo sorreggevano amorevolmente nell’ultimo e doloroso momento.

62.           Pian piano la grande piazza tornò calma sotto il calore soffocante del pomeriggio che si avvicinava. A distanza si sentiva ancora il clamore della plebe, unito al nitrire dei cavalli e allo sferragliare delle armature.

63.           Impressionati dallo spettacolo, che d’altra parte non era insolito in Palestina, i romani si riunirono in una delle grandi sale del palazzo governativo, discutendo animatamente e commentando gli istinti e le passioni brutali della plebe inferocita.

64.           Dopo alcuni minuti, Claudia fece servire dolci, vino e frutta, e mentre la conversazione toccava i problemi della provincia e gli intrighi della corte di Tiberio, quel gruppo di creature non immaginava che sulla rozza e umile croce del Golgota si stava accendendo una gloriosa Luce per tutti i secoli a venire sulla Terra.

 

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Cap. IX

LA CALUNNIA VITTORIOSA

1.                Se Gesù di Nazareth era stato abbandonato dai suoi discepoli e dai suoi più diretti seguaci, la stessa cosa non si era verificata riguardo il gran numero di umili creature che lo accompagnavano con devozione pura e sincera.

2.                È vero che queste anime, rare, non avevano manifestato apertamente le loro simpatie davanti alla folla esaltata, temendone l’ira devastatrice, ma molti spiriti pietosi, come Anna e Simeone, avevano visto da vicino, con occhi tristi pieni di lacrime, le sofferenze del Signore sotto lo scudiscio infamante, e sperarono a ogni istante che la giustizia di Dio si manifestasse contro la perversità degli uomini, a favore del Messia.

3.                Ciononostante, le loro ultime speranze svanirono, quando, sotto il peso della croce, il suppliziato camminò a passi incerti verso il monte dell’ultima ingiuria, dopo che era stata confermata l’ignobile sentenza. Fu così che Anna e suo zio, comprendendo che inevitabile sarebbe stato il martirio della crocifissione, decisero di andare a casa di Publio per implorare l’aiuto di Livia presso il governatore.

*

4.                Mentre il sinistro ed impressionante corteo si metteva in marcia coi suoi lenti movimenti, i due si allontanarono dalla folla, incamminandosi per una viuzza sotto il Sole, alla ricerca del desiderato soccorso.

5.                Entrando in casa, mentre Simeone l’aspettava pazientemente in una strada vicina, Anna si rivolse alla moglie del senatore che la ricevette sorpresa e angosciata: «Signora,» disse, cercando di nascondere le lacrime, «il profeta di Nazareth si sta incamminando verso la ignominiosa morte sulla croce, fra i ladroni!...» Un sussulto più forte le portò via la voce, soffocata dal pianto.

6.                «Come?!» rispose Livia afflitta e sorpresa. «Ma se è stato arrestato solo poche ore fa!»

7.                «Ma è la verità...» replicò la serva, addolorata. «E a nome di quegli stessi sofferenti che voi vedeste confortati dalla sua parola buona e amichevole vicino alle acque del lago di Tiberiade, lo zio Simeone e io siamo venuti ad implorare il vostro aiuto personale presso il governatore, …per fare un ultimo tentativo per il Messia!»

8.                «Ma una condanna come questa, senza un’analisi, senza un esame, è possibile? Questo popolo vive qui, allora, senz’altra legge se non quella della barbarie?» esclamò la signora, visibilmente sconvolta dall’inattesa notizia.

9.                Come se desiderasse strapparla da qualsiasi divagazione incompatibile con il momento, la serva insistette con decisione e tristezza: «Pertanto, signora, non possiamo perdere neppure un minuto».

10.           «Prima di tutto avrei bisogno di consultare mio marito sul caso» disse parlando fra sé la moglie del senatore, ricordandosi improvvisamente dei suoi doveri coniugali.

11.           Dove avrebbe potuto trovarsi Publio in quell’istante? Fin dal mattino non era più tornato a casa dopo la chiamata urgente di Pilato. Aveva egli collaborato alla condanna del Messia? In un attimo la povera signora esaminò tutta la situazione nei suoi minimi particolari, ricordando allo stesso tempo i beni infiniti che il suo cuore aveva ricevuto dalle mani caritatevoli e gentili del Maestro di Nazareth, e come se fosse illuminata da una forza superiore che le facesse dimenticare tutti i problemi passeggeri della Terra, esclamò con eroica decisione: «Va bene, Anna, verrò con te a chiedere la protezione di Pilato per il profeta. Aspettami un momento mentre mi metto le vesti galilee che mi servirono quel pomeriggio a Cafarnao, per andare così dal governatore senza richiamare l’attenzione della folla esaltata».

12.           In pochi minuti, senza pensare alle conseguenze del suo disperato comportamento, Livia già era sulla via, nuovamente infilata nelle semplici vesti della gente povera della Galilea, scambiando amare impressioni col vecchio Simeone e con sua nipote sui dolorosi avvenimenti.

13.           Avvicinandosi al palazzo del governo provinciale, il suo cuore batteva forte, obbligandola a riflettere con calma.

14.           Non sarebbe stato un rischio da parte sua cercare il governatore, senza avvertire il marito e chiederne il consenso? Ma ella non aveva forse, invano, tentato di tutto per avvicinarsi allo sposo ritroso e irritato, e rigenerarne così l’antica fiducia? E Pilato? Nella sua mente conservava ancora i particolari degli amari turbamenti di quella notte in cui egli le era stato più che esplicito, riguardo agli inconfessabili sentimenti che la sua figura di donna gli aveva suscitato.

15.           Livia esitò prima di dirigersi verso uno degli angoli della piazza, ora calma sotto un Sole bruciante come brace viva.

16.           Il suo raziocinio contrastava con il comportamento che aveva assunto di fronte agli appelli della serva, che ai suoi occhi rappresentava la supplica angosciata di innumerevoli spiriti abbandonati; il suo cuore, però, approvava pienamente quell’ultimo sforzo a favore del Messaggero Celeste che le aveva guarito le piaghe della figlia, riempiendo di immutabile tranquillità il suo cuore tormentato di sposa e di madre, tante volte incompreso. Oltre a ciò, in questo conflitto interiore della ragione e del sentimento, quest’ultimo le fece ricordare che Gesù, sulle rive del lago, le aveva parlato di amari sacrifici per la sua grande missione; e non avrebbe potuto esser quella, l’ora sacra della gratitudine della sua ardente fede e della sua riconoscente testimonianza? Sollevata dall’intima soddisfazione di compiere il suo devoto dovere, avanzò allora con coraggio, lasciando i due compagni ad aspettare in un ampio angolo della piazza, mentre lei cercava di guadagnare la porta del palazzo con rapida disinvoltura.

17.           Il cuore le batteva all’impazzata.

18.           Come incontrare il governatore della Giudea a quell’ora? Il Sole ardente irradiava dappertutto un calore intollerabile e soffocante. Il corteo verso il Golgota era partito da quasi un’ora, e il palazzo sembrava ora immerso in un’atmosfera di silenzio e di sonno, dopo i crudeli tumulti di quella giornata.

19.           Solo alcuni centurioni montavano la guardia all’edificio e, quando Livia si trovò a poca distanza dal portone principale, ecco che le si parò davanti la figura di Sulpicio, al quale ella si rivolse con la massima fiducia e innocenza, chiedendogli il favore di sollecitare un’udienza privata e immediata al governatore, a suo nome, per parlargli riguardo la dolorosa situazione di Gesù di Nazareth.

20.           Il littore la guardò dall’alto in basso, con uno sguardo di lascivia e di cupidigia che erano sue caratteristiche e, credendo assolutamente nella relazione illecita di quella donna col procuratore della Giudea, grazie a sue osservazioni personali e per coincidenze che gli si erano presentate come perfetta realtà di quella presunta infedeltà, scorse in quell’atto insolito, non il motivo esposto, che gli sembrò un’ottima scusa per allontanare qualsiasi sospetto, ma l’obiettivo per incontrarsi con l’uomo da lei prediletto.

21.           Creatura ignobile, di cui il governatore si serviva come strumento delle sue perverse passioni, suppose che un simile incontro si sarebbe dovuto effettuare nella massima riservatezza e, sapendo che Publio Lentulo si trovava ancora lì nel palazzo in animata conversazione con i suoi collaboratori, condusse Livia in uno studio profumato, dove stavano allineati preziosi vasi di aromi d’Oriente, pieni di fluidi delicati e inebrianti; lì Pilato riceveva, a volte, la visita segreta di donne dalla condotta equivoca, lì convocate per partecipare ai suoi licenziosi piaceri.

22.           Ignorando assolutamente l’ingranaggio di circostanze che la stavano portando a una penosissima situazione, Livia seguì il littore nello studio descritto dove, pur trovando strana la sontuosità stravagante dell’ambiente, si trattenne alcuni minuti, sola, aspettando ansiosamente il momento di chiedere, a viva voce, al procuratore della Giudea, il suo prezioso intervento a favore del generoso Messia di Nazareth.

23.           Né lei né Sulpicio, tuttavia, sospettavano che degli occhi indagatori li avevano accompagnati con profondo interesse, dall’esterno del palazzo fino allo studio privato di cui abbiamo riferito. Era Fulvia che, conoscendo tale appartamento del palazzo, aveva sorpreso la sposa del senatore, sotto il travestimento di quella tunica umile da campagnola, facendole esplodere il cuore di paurosa gelosia, nello scoprire quella visita inattesa.

24.           Mentre Sulpicio Tarquinio faceva un segnale confidenziale al governatore, a cui questi rispose prontamente, andandogli subito incontro attraverso un vasto corridoio, dove entrambi mormorarono sommessamente alcune parole, e meravigliandosi Pilato della tanto desiderata visita privata, quella maliziosa creatura si diresse verso l’appartamento di sua intima conoscenza, in modo da accertarsi con sicurezza, attraverso dei pesanti tendaggi, della presenza di Livia nella camera privata del governatore, destinata ai suoi incontri licenziosi.

25.           Sicura in assoluto di quello che stava succedendo, la calunniatrice pregustò il piacere del momento in cui avrebbe preso Publio per mano e lo avrebbe condotto davanti alla visione diretta del presunto adulterio di sua moglie. Mentre ritornava nel vasto salone, lasciando lievemente trasparire una sinistra soddisfazione della sua anima, udì ancora Pilato esclamare con gentilezza verso i suoi invitati:

26.           «Amici miei, spero mi concediate alcuni minuti per occuparmi di una visita privata e urgente, che io non attendevo in questo momento. È appena stata pronunciata la condanna del Messia di Nazareth e credo che già battano a queste porte coloro che non hanno avuto il coraggio di difenderlo pubblicamente, nel momento giusto!...Andiamo a vedere!»

27.           E ritirandosi col consenso unanime dei presenti, il governatore entrò nello studio riservato, dove, molto sorpreso, incontrò il volto nobile di Livia, più bella e sensuale in quelle vesti popolari e semplici, la quale gli parlò in questi termini: «Signor governatore, pur senza previo consenso di mio marito, ho deciso di venire fin qui a causa dell’urgenza dell’argomento, a supplicare il vostro appoggio politico per l’assoluzione del profeta di Nazareth. Uomo umile e buono, caritatevole e giusto. Che male avrebbe fatto per morire così, di morte umiliante, fra due ladroni? È per questo che, conoscendolo personalmente e considerandolo un ispirato del Cielo, …oso invocare le vostre alte qualità di uomo pubblico a favore dell’accusato!»

28.           La sua voce era tremula, indice delle emozioni che le pervadevano l’anima.

29.           «Signora…», rispose Pilato, facendo il possibile per intenerire e sedurre il suo cuore, con la finta dolcezza delle sue parole, «…ho fatto di tutto per evitare a Gesù la morte sulla croce infame, vincendo tutti i miei scrupoli di uomo di governo, ma tutto si è infelicemente consumato. Le nostre leggi sono state vinte dall’ira di una folla criminale nelle ingiustificate esplosioni del suo incomprensibile odio».

30.           «Quindi non ci è più lecito sperare in nessuna decisione a beneficio di quest’uomo caritatevole e giusto, condannato come un volgare malfattore? Egli, dunque, sarà crocifisso per il delitto di praticare la carità e infondere la fede nel cuore dei suoi simili, che ancora non sanno conquistarla da soli?»

31.           «Purtroppo, è così» disse Pilato, contrariato. «Abbiamo fatto di tutto per evitare i vaneggiamenti della folla in rivolta, ma la mia sollecitudine non è riuscita a vincere, e sono stato obbligato a confermare la condanna di Gesù, contro la mia volontà».

32.           Per un momento Livia si lasciò dominare dai suoi pensieri dolorosi, come se stesse chiedendo a se stessa qualche nuova decisione da prendere senza perdere un minuto. Quanto al governatore, dopo aver impresso una pausa alle sue parole, lasciò che l’istinto prendesse pienamente il sopravvento in quelle circostanze.

33.           Quello era stato un giorno pieno di lotte penose e intense. Una singolare stanchezza fisica aveva dominato i centri più possenti del suo organismo, ma davanti a lui, abituato alla conquista e, molte volte, a far ricorso alla propria crudeltà, stava quella donna, …che gli aveva resistito. Una poderosa catena sembrava calamitarlo verso la sua persona semplice e dolce, ed egli, più di prima, desiderò possederla, rendendola, come le altre, uno strumento delle sue passeggere passioni. L’ambiente, soprattutto, conturbava le fonti più pure della sua ragione. Quello studio era destinato esclusivamente alle sue stravaganze notturne, e fluidi stordenti si erano impadroniti di tutti i suoi sensi, annientando le sue più nobili idee.

34.           Guardò la donna desiderata, perduta per alcuni secondi in graziose fantasticherie, davanti alla sua presenza dominatrice. Quella grazia semplice, piena di generosità quasi infantile, insieme agli occhi limpidi e profondi di una madonna del focolare, gli oscurò lo spirito cavalleresco che, a volte, affiorava in modo brusco dalle sue ingiustizie e crudeltà di uomo pubblico e privato.

35.           Avanzando come dominato da una forza invincibile, esclamò improvvisamente, facendole sentire il pericolo della situazione in cui si era messa: «Nobile Livia», cominciò egli, nell’agitazione dei suoi pensieri disonesti, «non ho mai più dimenticato quella notte, piena di musica e di stelle, in cui vi rivelai per la prima volta l’ardore del mio cuore appassionato... Dimenticai per un momento questi giudei incomprensibili, e ascoltai, ancora una volta, la parola sincera dei profondi sentimenti che mi ispiraste con le vostre doti e la vostra rara bellezza! ...»

36.           «Signore!» ebbe la forza di esclamare la povera signora, cercando di liberarsi dall’assalto.

37.           Ma il governatore, con l’audacia degli uomini impetuosi, non ebbe altro gesto se non quello di obbedire ai suoi capricci istintivi, prendendole le mani sfacciatamente.

38.           Livia, tuttavia, appellandosi a tutte le sue forze, trovò il modo per liberarsi dalle sue lunghe e forti braccia, avvertendolo intrepida: «Indietro, signore! È forse questo il comportamento di un uomo di Stato con una cittadina romana e moglie di un senatore illustre dell’Impero? E quand’anche non avessi tutti questi titoli che mi dovrebbero dare dignità ai vostri occhi avidi e disumani, penso che non dovreste venir meno, in questo momento, al semplice dovere di rispettosa cavalleria che qualsiasi uomo è obbligato a osservare verso una donna!»

39.           Il governatore rimase perplesso di fronte a quel gesto coraggioso e imprevisto, tanto era abituato ai più evoluti comportamenti di seduzione. La resistenza di quella donna eccitava in lui il desiderio a vincerne il nobile orgoglio e la incorruttibile virtù.

40.           Aveva voglia di lanciarsi su quella creatura fragile e delicata, nel vortice di lascivia e voluttà che gli offuscavano la ragione; ma una forza incoercibile sembrava dominare i suoi pericolosi capricci di uomo appassionato, annientandogli le forze necessarie per porre in atto tale azione.

41.           In quel momento, la moglie del senatore, lanciandogli un doloroso sguardo dove si poteva leggere tutta la profondità della sua sofferenza e del suo disprezzo di fronte all’oltraggio ricevuto, si ritirò profondamente sconvolta, col cervello in cui si agitavano i più disparati pensieri.

*

42.           Prima, però, di vederla uscire da quello studio, siamo obbligati a retrocedere di alcuni minuti, al momento cioè in cui Fulvia chiese al nipote di suo marito il favore di una parola in privato, mettendolo al corrente di tutto quello che succedeva.

43.           Il senatore provò un terribile colpo al cuore, presentendo che l’infedeltà della moglie stava per essere confermata davanti ai suoi occhi e, con tutto ciò, esitò ancora a credere a un simile tradimento.

44.           «Livia, qui?» domandò sottovoce alla moglie dello zio, lasciando intendere, dall’inflessione della voce, che tutto non era altro che una vergognosa calunnia.

45.           «Sì…», esclamò Fulvia, ansiosa di fornirgli la prova tangibile delle sue affermazioni, «…lei è a colloquio col governatore nel suo appartamento privato, senza rendersi conto della situazione e delle circostanze in cui tale incontro si verifica, perché Claudia sta ancora in questa casa, e di fronte alla legge mia sorella è la legittima moglie di Pilato, male abituato dai costumi dissoluti della Corte da dove fu mandato qui a causa di seri incidenti di questa stessa natura!»

46.           Publio Lentulo stralunò gli occhi, nella sua ingenuità, dando via libera ai più terribili sentimenti, intossicandosi con il veleno della più aspra gelosia, visto che tutte le circostanze convergevano contro sua moglie, benché egli sull’argomento si muovesse con i più vasti codici della sua tolleranza e liberalità.

47.           Il suo atteggiamento di incertezza rivelava ancora la sua più grande incredulità riguardo alle accuse che aveva ascoltato, ma la perfida calunniatrice, osservando il suo angoscioso silenzio, intervenne ansiosa esclamando: «Senatore, accompagnatemi attraverso queste sale, e vi consegnerò la chiave di questa ambiguità, in quanto verificherete la leggerezza di vostra moglie con i vostri stessi occhi».

48.           «Ma state delirando?» domandò egli, con terribile serenità. «Un capo famiglia della nostra estrazione sociale, a meno che non esista una più forte confidenza ad accordargli questo diritto, non deve conoscere le intimità domestiche di una casa che non sia la sua».

49.           Comprendendo che il colpo era fallito, Fulvia tornò a esclamare con la stessa fermezza: «E va bene, giacché non volete rinunziare ai vostri principi, avviciniamoci a una di queste finestre. Anche da qui potete osservare la veridicità delle mie parole, quando Livia uscirà dagli appartamenti privati di questo palazzo».

50.           E quasi prendendo il suo interlocutore per mano, tale era l’abbattimento morale che si era impossessato di lui, la moglie del pretore si avvicinò al parapetto di una finestra vicina, seguita dal senatore che l’accompagnava inciampando.

51.           Non furono necessari altri argomenti che lo potessero convincere meglio.

52.           Arrivati nel luogo preferito da Fulvia come posto di osservazione, dopo pochi secondi videro aprirsi la porta dello studio indicato e nello stesso tempo Livia che se ne andava via, nel suo travestimento galileo, lasciando trasparire nel volto i segni evidenti della sua emozione, come se volesse fuggire da una situazione che la imbarazzava penosamente.

53.           Publio Lentulo sentì l’anima straziata per sempre. Pensò, in un attimo, che aveva perso tutti i patrimoni di nobiltà sociale e politica, con le aspirazioni più sacre del suo cuore. Di fronte al comportamento di sua moglie, considerato da lui come un’indelebile ignominia che gli disonorava il nome per sempre, si sentì il più sventurato degli uomini. Tutti i suoi sogni erano ora morti e perdute tragicamente tutte le sue speranze. Per quell’uomo, la donna scelta rappresentava la sacra base di tutte le realizzazioni della sua persona nelle vicende della vita, ed egli sentì che questa base gli stava sfuggendo, squilibrandogli cuore e cervello.

54.           Nonostante tutto, in questo vortice di fantasmi della sua immaginazione sovreccitata, i quali scaturivano dalla sua falsa felicità, intravide il volto soave e dolce dei figli che lo guardavano silenziosi e commossi. Uno di loro vagava nell’ignoto, ma la figlia sperava nelle sue carezze paterne, e avrebbe dovuto essere d’ora in avanti la ragione della sua vita e la forza di tutte le sue speranze.

55.           «Cosa dite adesso?» esclamò Fulvia, trionfante, strappandolo al suo doloroso silenzio.

56.           «Avete vinto!» rispose seccamente, con la voce rotta dalla commozione. E, atteggiando il volto a un’espressione della massima energia, tornò nel grande salone, a passi pesanti e lugubri, per salutare coraggiosamente gli amici col pretesto di una lieve emicrania.

57.           «Senatore, aspettate un momento. Il governatore non è ancora tornato dai suoi appartamenti privati», esclamò uno dei patrizi presenti.

58.           «Molto grato!» disse Publio gravemente. «Ma gli stimati amici devono scusare la mia insistenza, presentando i miei ossequi e ringraziamenti al nostro generoso anfitrione». E, senza dilungarsi oltre, fece preparare la lettiga che lo avrebbe ricondotto a casa grazie alle robuste mani degli schiavi, in modo da offrire un po’ di riposo al cuore torturato da quelle dolorose e indimenticabili emozioni.

*

59.           E mentre il senatore si ritira profondamente contrariato, noi seguiamo Livia di ritorno nella piazza, per riferire ai due amici il risultato del suo inutile tentativo. Profonde amarezze le trafiggevano il cuore. Mai aveva pensato, nella sua generosità semplice e sincera, che il procuratore della Giudea avrebbe accolto la sua supplica con una tale dimostrazione di indifferenza e crudeltà per la sua condizione di donna. Cercò di riprendersi da quelle emozioni, avvicinandosi ad Anna e a suo zio, per quanto si sentisse obbligata a nascondere quel disgusto nel profondo del suo cuore.

60.           Raggiunti i due umili compagni della sua stessa fede, lasciò che la sua angoscia si manifestasse ed esclamò pensierosa: «Anna, purtroppo tutto è perduto! La sentenza è stata proclamata e non c’è più nessun rimedio! ... Il buon profeta di Nazareth non tornerà mai più a Cafarnao per portarci le sue parole di conforto, serene e amichevoli! ... La croce di oggi, …sarà il premio di questo mondo alla sua infinita bontà!»

61.           Tutti e tre avevano gli occhi pieni di lacrime.

62.           «Allora sia fatta la volontà del Padre che sta nei Cieli», esclamò la serva prorompendo in singhiozzi.

63.           «Figlie», disse comunque il vecchio di Samaria, con uno sguardo profondo e limpido, rivolto al cielo dove sfolgoravano i raggi del Sole ardente, «il Messia non ci ha mai nascosto la verità delle Sue sofferenze, dei supplizi che Lo aspettavano in questi luoghi, per insegnarci che il Suo regno non è di questo mondo. Nelle tenebre della mia vecchiaia sono in grado di riconoscere la grande realtà delle Sue parole, perché onori e glorie, gioventù e ricchezza, come le gioie passeggere del piano terreno, a nulla servono, poiché qui è tutto un’illusione che scompare negli abissi del dolore e del tempo. ... L’unica realtà tangibile è quella della nostra anima in cammino verso questo regno meraviglioso, la cui bellezza e la cui luce ci sono state portate dalle Sue lezioni indimenticabili e affettuose...»

64.           «Ma…», obiettò Anna fra le lacrime, «…mai più vedremo Gesù di Nazareth che conforta il nostro cuore!...»

65.           «Cosa dici, figlia!», esclamò Simeone, con fermezza. «Tu non sai allora che il Maestro ha assicurato che la Sua presenza consolatrice è sempre viva fra coloro che si riuniscono e si riuniranno in questo mondo, nel Suo nome? Ritornando ora a Samaria, innalzerò una croce sulla porta della nostra capanna, e lì riunirò la comunità dei credenti che desiderano continuare le amorevoli tradizioni del Messia!» E dopo una pausa, in cui sembrava svegliarsi sotto il peso di gravi preoccupazioni, disse: «Ma non abbiamo tempo da perdere... Andiamo sul Golgota... Andiamo a ricevere, ancora una volta, le benedizioni di Gesù!»

66.           «Vorrei tanto potervi accompagnare», rispose Livia, emozionata, «ma urge che torni a casa dove mi attendono le cure verso mia figlia. So che dovrete scusarmi per la mia assenza, poiché la verità è che col pensiero sono vicina alla croce del Maestro, meditando sui suoi martiri e sulle sue sofferenze inenarrabili. ... Il mio cuore accompagnerà questa agonia indescrivibile, e che il Padre dei Cieli ci dia la forza necessaria per sopportare coraggiosamente questo momento doloroso!»

67.           «Andate, signora, perché i vostri doveri di sposa e di madre sono anch’essi più che sacri», esclamò Simeone con affetto.

68.           E mentre il vecchio e la nipote si dirigevano verso il Calvario, salendo per le vie pubbliche che portavano in collina, Livia ritornava a casa a passi veloci, cercando attraverso le viuzze il tragitto più breve, per tornare il più presto possibile, non solo per la circostanza imprevista di trovarsi per strada con vesti diverse, spinta dalle esigenze del momento, ma anche perché una strana angoscia le stringeva il cuore, facendole percepire più forte la necessità di preghiera e meditazione.

69.           Arrivata a casa, la sua prima preoccupazione fu di riprendere la tunica abituale e cercare un angolo silenzioso dei suoi appartamenti per pregare, con fervore, il Padre di infinita misericordia.

70.           Dopo pochi minuti udì dei tramestii che indicavano il ritorno del marito e notò ch’egli si ritirava nel suo studio personale, chiudendo la porta con violenza.

71.           Si ricordò, allora, che dalla sua casa era possibile vedere da lontano i movimenti sul Golgota e cercò un angolo di finestra da dove riuscire a vedere il penoso supplizio del Maestro di Nazareth. Le bastò trovare il giusto punto d’osservazione, per vedere là sulla collina una grande folla di gente, mentre venivano innalzate le tre croci famose, in quel giorno indimenticabile.

72.           La collina era sterile, senza alcuna bellezza, e a distanza i suoi occhi potevano scorgere i cammini polverosi e il paesaggio desolato e arido sotto il Sole rovente.

73.           Livia pregava con tutta la forza del suo animo commosso, dominata da pensieri angosciosi. Alla sua visione spirituale erano apparsi anche i paesaggi dolci e incantevoli del mare della Galilea, ben sapendo che le sarebbe tornato alla memoria quel pomeriggio indimenticabile, quando, fra creature umili e sofferenti, aspettava il dolce momento di ascoltare la parola consolatrice del Messia per la prima volta. Vedeva ancora la rustica barca di Simone che si accostava alle rive fiorite di mimose, mentre la cresta bianca delle onde spumose accarezzava i ciottoli chiari della spiaggia. ... Gesù era lì con la folla dei disperati e disillusi, con i suoi grandi occhi teneri e profondi. ...

74.           Tuttavia, quella croce che si elevava sul monte del Teschio trascinava il suo cuore ad amari interrogativi. Dopo aver pregato e meditato a lungo, osservò le tre croci lontane, e le sembrò di sentire il vocio della moltitudine malvagia che si accalcava vicina ai piedi della croce del Maestro, con orribili insulti.

75.           All’improvviso si sentì come toccata da un’ondata di indefinibile consolazione. Le sembrava che l’aria soffocante di Gerusalemme si fosse riempita di vibrazioni melodiose e incomprensibili. Estasiata, osservò, sulla sua rètina spirituale, che la croce grande là sul Calvario era circondata da numerose luci.

76.           Col calore straordinario di quel giorno, nuvole scure si erano addensate nell’atmosfera, preannunciando una tempesta. In pochi minuti la volta del cielo venne soffocata da dense ombre. Nel frattempo, in quel preciso momento Livia aveva notato che un lungo squarcio si era aperto fra il cielo e la terra, come una strada da cui discendevano sul Golgota legioni di esseri belli e alati. Concentrandosi a migliaia intorno al legno, sembrando trasformare la croce del Maestro in una fonte di luci perenni e radiose.

77.           Attratta da quell’immenso fuoco di luce splendente, sentì che la sua anima, sciolta dal corpo carnale, s’innalzava fin sulla cima del Calvario, per offrire a Gesù l’ultimo omaggio della sua fede. Sì, ora vedeva il Messia di Nazareth circondato dai suoi luminosi messaggeri e dalle legioni poderose dei suoi angeli. Mai avrebbe pensato di vederlo così magnificato e così bello, con gli occhi rivolti al cielo, come in una visione di gloriosa beatitudine.

78.           Ella lo contemplò, a sua volta, toccata dalla sua meravigliosa luce, insensibile a tutti i rumori che la circondavano, implorando forza, rassegnazione, speranza e misericordia.

79.           A un certo momento il suo spirito si sentì impregnato di consolazione indefinibile. Afferrata dalla più grande emozione della sua vita, notò che il Maestro aveva deviato leggermente il suo sguardo, posandolo su di lei in un’ondata di amore indicibile e di luminosa tenerezza. Quegli occhi sereni e misericordiosi, nei tormenti estremi dell’agonia, sembrava che le dicessero: «Figlia, attendi gli splendori eterni del Mio regno, perché sulla Terra è così che tutti dovremo morire!»

80.           Desiderosa di rispondere alle soavi esortazioni del Messia, il suo cuore rimaneva però soffocato in un’onda radiosa di spiritualità. Tuttavia nell’intimo, affermò, come se stesse parlando con se stessa: ‘Sì, è in questo modo che dovremo morire! ... Gesù, concedetemi coraggio, rassegnazione e speranza per mettere in pratica i vostri insegnamenti e per raggiungere un giorno il vostro regno d’amore e di giustizia! ...’ Copiose lacrime le bagnarono il volto, in quella visione beatificante e meravigliosa.

81.           In quel momento la porta si aprì con fragore, e la voce lugubre e disperata del marito vibrò nell’aria soffocante, destandola bruscamente e strappandola alle sue visioni consolatrici: «Livia!», gridò lui come dominato da emozioni determinanti e disperate.

82.           Publio Lentulo, ritornando a casa, si era diretto immediatamente nel suo studio, dove si lasciò andare per molto tempo, immerso in atroci pensieri. Dopo che il suo cervello aveva elaborato le più contrastanti soluzioni, si ricordò che avrebbe dovuto già implorare la pietà degli dèi per le sue penose sventure. Si avviò all’altare domestico dove riposavano i simboli inanimati delle sue divinità familiari, ma, mentre Livia aveva ottenuto il prezioso conforto, accogliendo nel cuore gli insegnamenti di Gesù quali il perdono, l’umiltà e la pratica del bene, inutilmente il senatore cercò illuminazione e conforto, innalzando le sue orazioni ai piedi della statua di Giove, impassibile e orgoglioso. Inutilmente supplicò l’ispirazione delle sue divinità domestiche, perché questi dèi erano la tradizione materializzata dell’imperialismo della sua razza, tradizione che si basava su vanità e orgoglio, egoismo e ambizione.

83.           Fu così che, avvelenato dalla gelosia, andò in cerca della moglie senza più indugiare, per sbatterle sul viso tutto il disprezzo della sua amara disperazione.

84.           Chiamatala bruscamente, notò che i suoi occhi semichiusi, come per contemplare una qualche visione spirituale inaccessibile alla sua osservazione, erano pieni di lacrime. Livia non gli era mai sembrata tanto spirituale e tanto bella come in quell’istante; ma il demonio della calunnia lo avvertì subito che quel pianto non rappresentava altro se non il segno del rimorso e del pentimento per l’errore commesso, consapevole, come avrebbe dovuto esserlo la sposa, della sua presenza nel palazzo del governatore, deducendone di conseguenza che lei si sarebbe dovuta aspettare la possibilità di una sua severa punizione.

85.           Strappata alla sua estasi dalla voce tonante del marito, la povera signora capì che la sua visione era del tutto scomparsa e che il cielo di Gerusalemme era stato invaso da un’intensa oscurità, mentre si sentivano i boati formidabili di tuoni lontani, e lampi terribili saettavano nell’atmosfera in tutte le direzioni.

86.           «Livia», esclamò il senatore con voce forte e ben scandita, per far capire lo sforzo che impiegava a dominare i suoi nervi, «le lacrime di pentimento sono inutili in questo momento doloroso dei nostri destini, poiché tutti i legami d’affetto che fra noi ci univano, sono ora rotti per sempre...»

87.           «Ma che significa questo?», riuscì lei a dire, dimostrando il timore che quelle parole le causavano.

88.           «Non una parola di più», ribatté il senatore, pallido di collera, con una tranquillità feroce e implacabile. «Ho visto con i miei occhi il tuo nefando delitto, e ora finalmente conosco il perché del tuo travestimento da umile donna della Galilea! La signora mi ascolterà fino in fondo, esimendosi da qualsiasi giustificazione, perché un tradimento come il suo potrà incontrare un giusto castigo solo nel silenzio profondo della morte.

89.           Ma io non intendo eliminarti. La mia formazione morale non è compatibile con un delitto. Non perché la mia anima senta pietà in vista di un possibile pentimento del tuo cuore al tempo opportuno, ma perché ho ancora una figlia sulla cui testa ricadrebbe il mio gesto di crudeltà contro il tuo tradimento che è sufficiente per renderci infelici per tutta la vita. ...

90.           Sono un uomo onesto e pronto a difendermi da qualsiasi oltraggio, ho molto amore per il mio nome e per le tradizioni della mia famiglia, cosicché non mi trasformerò in un padre snaturato e assassino. Potrei abbandonarti per sempre considerando il tuo atto di estrema infedeltà. Ma anche i servi di questa casa mangiano dalla mia mensa e, senza riconoscere gli altri titoli che mi legavano a te nell’intimità della casa, vedrò ancora nella tua persona la madre dei miei figli sventurati. È per questo che d’ora in avanti disprezzerò, a causa delle prove tangibili della tua disonestà, in questo giorno nefasto del mio destino, ogni significato morale della tua indegna persona, per conservare in questa casa, solamente, il tuo significato materno, che sono abituato a rispettare anche negli esseri irrazionali più umili».

91.           Gli occhi supplichevoli della calunniata lasciavano trasparire le indicibili sofferenze che le dilaceravano il cuore buono e sensibilissimo. Si era inginocchiata ai piedi del marito, con umiltà, mentre lacrime dolorose le scendevano dalle guance pallide.

92.           Si ricordò Livia, allora, di Gesù nelle sue incredibili sofferenze. Sì... ella ricordava le sue parole e si sentiva pronta per il sacrificio. Nel pieno dei suoi dolori, le sembrava di sentire ancora il piacere di quel pane di vita, benedetto dalle sue mani divine, e le sembrò di essere lavata da ogni mondana preoc­cupazione. L’idea del regno dei Cieli, dove tutti gli afflitti sono consolati, le anestetizzava il cuore addolorato nelle sue prime riflessioni riguardo alla calunnia di cui era vittima il suo animo ferito da acerrime prove.

93.           Nonostante questo atteggiamento di serena umiltà, il senatore, al colmo della sua angoscia morale, così continuò: «Ti diedi tutto quello che possedevo di più puro e più sacro in questo mondo, nella speranza che tu corrispondessi ai miei ideali più sublimi; ma tu, rinnegando tutti i doveri che erano di tua spettanza, non esitasti a gettare su di noi una manciata di fango. ... Al convivio col mio cuore, nell’ambito della famiglia, tu hai preferito i costumi dissoluti di quest’epoca di creature irresponsabili, mettendoti sui sentieri che portano la donna negli abissi del delitto e dell’empietà.

94.           Ma ascolta bene le mie parole che esprimono i più terribili dispiaceri del mio cuore: – Mai più ti allontanerai dalle occupazioni domestiche e dagli obblighi quotidiani della mia casa. Mai più da un atto, con cui tu possa mettere alla prova le ultime risorse della mia tolleranza; dovrai aspettarti altra sorte che non sia la morte!

95.           Non spingere le mie oneste mani a un atto di simile natura. Se le tradizioni familiari sono scomparse dal profondo del tuo spirito, esse continuano ogni volta più vive nella mia anima, che desidera coltivarle incessantemente nel santuario dei miei ricordi più cari. Vivi col pensiero nella tua ignominia, ma astieniti dal dileggiare pubblicamente i miei sentimenti più sacri, anche perché la pazienza e la libertà hanno i loro limiti. Saprò rialzarmi da questa caduta, in cui mi hanno gettato le tue leggerezze!

96.           D’ora in avanti, la signora sarà in questa casa solo una serva, considerando la sua funzione di madre che oggi la salva dalla morte; ma non intervenga nella soluzione di qualsiasi problema educativo di mia figlia. Saprò guidarla senza la tua collaborazione e cercherò il figlio perduto, forse a causa della tua inco­scienza delittuosa, fino alla fine dei miei giorni. Concentrerò sui figli l’immensa parte di amore che avevo riservato a te, grazie alla generosa fiducia; perciò d’ora in avanti non devi più cercarmi con l’intimità della sposa, che non hai saputo essere per la tua ingiustificabile slealtà, ma col rispetto che una schiava deve ai suoi padroni! ...»

97.           Ci fu una breve pausa nelle parole aspre e amare del senatore e Livia lo fissò allora con uno sguardo di infinita angoscia. Desiderava parlargli come prima, consegnandogli il suo cuore sensibile e affettuoso; ma conoscendo il suo temperamento impulsivo, presentì l’inutilità di qualsiasi tentativo per giustificarsi.

98.           Passate le prime riflessioni e, amareggiata dal dolore, ascoltando quella terribile insinuazione circa la scomparsa del figlio, lasciò vagare nel cuore numerosi e ingiustificabili dubbi. Davanti a quelle calunnie che la rendevano tanto infelice, arrivò a pensare se le buone azioni non sarebbero state viste da quel Padre di bontà infinita che ella pensava proteggesse dai Cieli tutti i sofferenti, secondo le sublimi promesse del Messia di Nazareth. Non aveva ella forse mantenuto sempre una condotta nobile ed esemplare, di madre devota e sposa affettuosa? Tutto il suo cuore non era forse rivolto ai tributi di speranza e di fede in quel regno di sovrana giustizia che si poneva al di fuori della vita materiale? Oltre a ciò la sua imprudente visita a Pilato senza il consenso del marito, era stata fatta solamente con l’alto proposito di salvare Gesù di Nazareth da una morte vergognosa. Dov’era quel soccorso soprannaturale che non arrivava, al fine di mettere in chiaro la sua penosa situazione e dimostrare quell’ingiustizia?

99.           Lacrime d’angoscia le velavano gli occhi stanchi ed afflitti, ma prima che il marito riprendesse le accuse, si trovò, col pensiero, nuovamente davanti alla croce.

100.      Una brezza soave sembrava lenire le ferite che le diffamazioni del marito le avevano aperto nel cuore. Una voce, che le parlava nel profondo della coscienza, ricordò alla sua anima sensibile che anche il Maestro di Nazareth era innocente ed era spirato in quel giorno, sulla croce, sotto gli insulti di malvagi senza alcuna pietà. Ed Egli era giusto, buono e pietoso. Da coloro che più aveva amato era stato tradito e abbandonato nell’ora estrema della prova; da quanti aveva servito con la sua carità e il suo amore aveva ricevuto una corona di spine avvelenate con la più crudele ingratitudine. Davanti alla visione dei suoi martiri infiniti, Livia consolidò la sua fede e chiese al Padre Celeste di concederle il coraggio necessario per vincere le durissime prove della vita.

101.      Le sue angosciose meditazioni erano durate un minuto. Un minuto appena, dopo il quale Publio Lentulo continuò con voce disperata: «Trascorrerò qui ancora due giorni nelle ricerche del mio sventurato figlio. Passate queste poche ore, ritornerò a Cafarnao per affrontare il passare del tempo... Rimarrò in questo scenario maledetto finché sarà necessario e, quanto a lei, signora, si rinchiuda d’ora in avanti nella sua vergogna, perché, con lo stesso impeto generoso con cui le risparmio la vita in questo momento, non esiterò ad infliggerle l’ultima punizione al momento opportuno!...» e, aprendo la porta, che tremò col rimbombo del tuono, esclamò con terribile accento: «Livia, questo momento doloroso segna la perpetua separazione dei nostri destini. Non osare oltrepassare la frontiera che ci separa l’uno dall’altra, per sempre, nella stessa casa e dentro la stessa vita, perché uno di questi gesti può significare la tua inappellabile sentenza di morte».

102.      Dietro di lui la porta si richiuse, con un fragore coperto dal frastuono della tempesta. Gerusalemme era sotto un vero uragano di distruzione che andava lasciando sul suo passaggio segni di rovina, desolazione e morte.

103.      Rimasta sola, Livia pianse amaramente. E mentre l’atmosfera si lavava con la pioggia torrenziale che cadeva a dirotto, nel fragore dei tuoni, anche la sua anima si liberava delle illusioni amare e purificatrici.

104.      Sì, ...era sola e profondamente sventurata. D’ora in avanti non avrebbe più potuto contare sulla protezione del marito né sull’affetto soave della figlia, ma l’angelo della serenità avrebbe vegliato al suo capezzale, con la dolcezza di quelle sentinelle che non si allontanano mai dal loro posto di amore, di redenzione e di pietà. E fu questo Spirito luminoso che, versando il balsamo della speranza nel calice del suo cuore angosciato, le fece capire che ancora possedeva molto: – il tesoro della fede che la univa a Gesù, al Messia della rinuncia e della salvezza, e che l’aspettava nel Suo regno di luce e di misericordia.

 

 

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Cap. X

IL DISCEPOLO DELLA SAMARIA

1.                Il giorno seguente Publio Lentulo intensificò le ricerche del figlioletto, estendendole fra quanti si erano recati in pellegrinaggio per le feste della Pasqua, a Gerusalemme, offrendo in premio un grande Sesterzio[9], ossia (equivalente a) duemilacinquecento assi a chi avrebbe presentato ai suoi servi il bambino scomparso.

2.                Non dobbiamo dimenticare che la serva Semele e le sue compagne di servizio erano state sottoposte a un rigorosissimo interrogatorio, quando furono puniti i servi imprevidenti incaricati della vigilanza notturna in casa del senatore. Publio non ammetteva punizioni corporali sulle donne, ma nel caso misterioso della scomparsa del figlioletto sottomise le serve a un interrogatorio decisamente crudele.

3.                Inutile dire che Semele aveva sostenuto la sua più assoluta innocenza, senza lasciare trasparire nulla che potesse compromettere la sua condotta.

4.                Nel frattempo le tre serve che più direttamente si prendevano cura del bambino, tra le quali era inclusa lei, furono obbligate a collaborare con gli schiavi alla ricerca di Marco, per le piazze e le vie di Gerusalemme, quantunque avessero le loro ore giornaliere dedicate al riposo. Di queste ore approfittava Semele per visitare o rivedere persone amiche, passando la maggior parte del tempo nel podere dove Andrea coltivava i suoi frondosi uliveti e vigneti, a poca distanza dalla strada che portava verso i centri principali. Quel giorno la incontriamo lì in animata conversazione con il rapitore e sua moglie, mentre il bambino dormiva in un angolo della camera.

5.                «Com’è allora? Il senatore ha istituito il premio di un grande Sesterzio per colui che gli restituisce il bambino?» domandò Andrea di Giora, stupito.

6.                «E vero», esclamò Semele, pensierosa. «E in realtà si tratta di una grande somma in denaro romano che difficilmente qualcuno guadagnerà in questo mondo.

7.                «Se non fosse per il mio giusto e ardente desiderio di vendetta» replicò il rapitore col suo malizioso sorriso, «sarebbe il caso di andare ad arraffare questa rispettabile somma. Ma lasciamo stare, perché non abbiamo bisogno di un simile denaro. Non abbiamo bisogno di nulla da questi maledetti patrizi».

8.                Semele lo ascoltava indifferente e quasi completamente estranea alla conversazione; ma l’interlocutore non perdeva di vista le varie espressioni della sua complice come se tentasse di scoprire nei suoi modi semplici e umili qualche recondito pensiero. Fu così che, con lo scopo di sondare il suo stato psicologico, disse in tono apparentemente calmo e tranquillo, come se indagasse sui suoi propositi più personali: «Semele, quali sono le ultime notizie di Beniamino?»

9.                «Beniamino…», rispose lei, alludendo al fidanzato, «Ancora non si è deciso a stabilire la data definitiva del matrimonio, perché è preoccupato delle nostre innumerevoli difficoltà. Come tu sai, ogni mio obiettivo sul lavoro è diretto al conseguimento del nostro ideale: cioè, poter comprare quella casetta in Betania che tu già conosci, e non appena riusciremo nel nostro intento, …staremo uniti per sempre».

10.           «Con un po’ di fortuna e col tempo…», disse Andrea, con l’atteggiamento psicologico di chi ha trovato la chiave di un enigma, «…riuscirete ad ottenere tutto il necessario per la buona sorte di entrambi. Da parte mia, puoi starne sicura, farò di tutto per aiutarti come un padre».

11.           «Molto grata!», esclamò la ragazza riconoscente. «Ma ora dovete permettere che ritorni al lavoro, perché mi pare che sia tardi».

12.           «Ancora no» disse Andrea risoluto. «Aspetta un momento. Voglio farti assaggiare del nostro vino vecchio, aperto soltanto oggi per celebrare la circostanza felice di trovarci in vita, dopo il terribile uragano di ieri!»

13.           E correndo dentro casa, entrò nella cantina, dove prese da un orciolo del vino spumante chiaro, che versò abbondantemente in una coppa antica. Subito dopo entrò in una stanza accanto, dove prese una boccetta da cui fece cadere alcune gocce del contenuto nella coppa, monologando a bassa voce:

14.           ‘Ah, Semele! Avresti potuto ben vivere, se non fosse sorto questo premio maledetto, che ti condanna a morte! Beniamino... il matrimonio è una situazione di triste povertà. Una somma di mille sesterzi costituisce una tentazione a cui non potrebbe resistere né lo spirito meglio intenzionato, …né quello più puro. Finché si trattava di brutalità e altre punizioni, io me ne stavo tranquillo, ma ora si tratta di denaro, e il denaro è solito condannare le creature umane a morte!’. E mescolando il potente veleno nel vino spumeggiante, continuò borbottando:

15.           ‘Tra sei ore, mia povera amica, entrerai nel regno delle ombre... Che fare? Niente mi resta da fare, se non augurarle buon viaggio! E mai più nessuno saprà, in questo mondo, che nella mia casa esiste uno schiavo col sangue nobile degli aristocratici dell’Impero romano!’

16.           In due minuti la disgraziata serva del senatore ingerì soddisfatta il contenuto della coppa, ringraziando con parole commoventi della sinistra gentilezza.

17.           Dalla porta della sua casa di pietre, Andrea osservò gli ultimi passi della sua complice, nelle ultime svolte del cammino. Più nessuno avrebbe reclamato il grande Sesterzio offerto dalla disperazione di Lentulo, perché all’imbrunire, verso le sette, Semele sentì una sensazione d’improvviso malessere e andò subito a letto. Sudori freddi e abbondanti le bagnarono il viso già sbiancato, su cui si notava il pallore caratteristico della morte.

18.           Anna che, triste, già era tornata alle sue faccende domestiche, fu chiamata in tutta fretta perché le prestasse i soccorsi necessari, ma la trovò nel pieno della crisi che colpisce i moribondi sul punto di liberarsi dal carcere della materia.

19.           «Anna...» esclamò l’agonizzante con voce appena percettibile, «io muoio... ma ho la... coscienza... oppressa... turbata...»

20.           «Semele, cosa dici?», replicò l’altra, profondamente commossa. «Confidiamo in Dio, nostro Padre Celeste, e confidiamo in Gesù che soltanto ieri ci guardava dalla croce dei suoi patimenti, con uno sguardo di infinita pietà!»

21.           «Sento... che è... tardi...» mormorò l’agonizzante tra i rantoli della morte, «io... solo... vorrei... un perdono...». Ma la voce incrinata e flebile non poté continuare. Un singhiozzo più forte soffocò le ultime parole, mentre il volto si copriva di macchie violacee, come se il cuore si fosse fermato improvvisamente, stretto in una morsa invincibile.

22.           Anna capì che era la fine e supplicò Gesù di ricevere nel suo regno misericordioso l’anima della compagna, perdonandole le gravi colpe che certamente avevano dato origine alle parole angosciose degli ultimi istanti.

23.           Chiamato un medico per l’esame del cadavere, questi costatò, nell’empirismo della sua scienza, che Semele era morta per deficienza cardiaca e, lungi dallo scoprirsi la vera causa di quell'evento inaspettato, il segreto di Andrea di Giora si avviluppò nelle ombre fitte della tomba.

24.           Anna e Livia ebbero occasione di scambiarsi delle impressioni sul doloroso fatto, ma tutt’e due, nonostante la profonda emozione che aveva causato loro le ultime parole della morta, collocarono il suo passaggio all’altra vita nel novero di quelle fatalità irrimediabili.

*

25.           Publio Lentulo, dopo questo fatto, affrettò il suo ritorno alla casa di Cafarnao che aveva comprato dal precedente proprietario, con l’intento definitivo, prevedendo la possibilità di una lunga permanenza in quella città. Il ritorno fu triste, la giornata pesante e senza speranza.

26.           I numerosi servi non arrivarono a percepire la profonda divergenza esistente ora tra lui e la moglie, e fu così che, veramente separati nel cuore, continuarono in casa la stessa tradizione di rispetto davanti ai subordinati.

27.           A pochi giorni dalla sua seconda permanenza nella ricca e allegra città dove Gesù tante volte aveva fatto risuonare le sue dolci e divine parole, il senatore preparò un’esauriente relazione d’ufficio per l’amico Flaminio e per gli altri componenti del Senato, inviando Comenio a Roma, come messaggero di sua completa fiducia.

28.           Odiando la Palestina che tante e tanto amare prove gli aveva riservato, ma intrappolato lì per la scomparsa misteriosa del piccolo Marco, il senatore chiese a Flaminio il suo intervento particolare affinché suo zio Salvio tornasse alla sede dei suoi servizi nella capitale dell’Impero, tentando così di liberarsi della presenza di Fulvia in quei luoghi, poiché il cuore, nel segreto dei suoi pensieri, gli diceva che quella donna esercitava un’influenza nefasta sul suo destino e su quello della sua famiglia. Allo stesso tempo, traboccante di terribile avversione verso la persona di Ponzio Pilato, rese partecipe l’amico lontano dei molti scandali amministrativi che egli, dopo l’incidente della Pasqua, aveva deciso di emendare col massimo della severità. Promise quindi a Flaminio Severo che avrebbe conosciuto più da vicino i bisogni della provincia, perché le autorità romane fossero informate dei gravi fatti dell’amministrazione, in modo che, al momento opportuno, il governatore fosse trasferito in un’altra parte dell’Impero. S’impegnava inoltre, a riferire tempestivamente tutte le ingiustizie del governo di Pilato, a seguito dei continui e reiterati reclami che arrivavano alle sue orecchie da tutti gli angoli della provincia.

29.           In questi riferimenti particolari chiese all’amico anche i provvedimenti necessari affinché gli fosse inviato un professore per la figlia, astenendosi tuttavia dal riferirgli i dolorosi drammi della sua vita privata, ad eccezione del caso del figlioletto, da lui citato in queste missive come unica causa del suo soggiorno indeterminato in tali luoghi.

30.           Comenio partì da Giaffa con la massima precauzione, obbedendo rigorosamente ai suoi ordini e arrivando in breve tempo a Roma dove avrebbe consegnato i plichi con le notizie nelle mani dei loro legittimi destinatari.

*

31.           A Cafarnao la vita trascorreva triste e silenziosa. Publio si era rinchiuso nella stanza del suo immenso archivio, dedicandosi alle sue pratiche, ai suoi studi e alle sue meditazioni, preparando i piani per l’educazione della figlia oppure organizzando programmi concernenti le sue attività future, facendo il possibile per riemergere dall’abbattimento morale in cui era affondato con i dolorosi avvenimenti di Gerusalemme.

32.           Quanto a Livia, conoscendo l’inflessibilità del carattere orgoglioso del marito e sapendo che tutte le circostanze sembravano dimostrare la sua colpevolezza, aveva trovato nell’anima devota della serva una confidente estremamente affettuosa e viveva immersa quasi permanentemente nelle sue continue e fervide orazioni. Le sofferenze provate le si erano impresse sul viso, rivelando profonde rughe sulla faccia pallida. Gli occhi, tuttavia, dimostrando la natura e il vigore della sua fede, illuminavano i lineamenti del suo volto di uno splendore singolare, nonostante il suo visibile abbattimento.

33.           A Cafarnao i seguaci del Maestro di Nazareth organizzarono immediatamente una grande comunità di persone che credevano nel Messia, diventando molti di essi seguaci osservanti della sua dottrina di rinuncia, sacrificio e redenzione. Alcuni predicavano, come Lui, nella pubblica piazza, mentre altri curavano gli infermi nel Suo nome. Creature semplici, erano state stranamente ispirate dal più alto soffio d’intelligenza e d’ispirazione celeste, poiché insegnavano con molta chiarezza i pensieri di Gesù, costituendosi, con la parola di questi seguaci, le basi del Vangelo scritto che più tardi sarebbe rimasto nel mondo come il messaggio del Salvatore della Terra per tutte le razze, per tutti i popoli e le nazioni del pianeta, quale luminoso itinerario delle anime verso il cielo.

34.           Tutti quanti si convertivano alla nuova idea, confessavano nella pubblica piazza gli errori della propria vita, in segno di quell’umiltà che era loro richiesta dentro la comunità cristiana. E affinché il buon profeta di Nazareth non venisse mai dimenticato nel Suo martirio redentore sul Calvario, il popolo semplice e umile di allora organizzò il culto della croce, reputando fosse questo il miglior omaggio alla memoria di Gesù Nazareno.

35.           Livia e Anna, nel loro profondo amore per il Messia, non sfuggirono a questa adesione naturale delle tradizioni popolari. La croce era oggetto di tutta la loro venerazione e del loro assoluto rispetto, nonostante rappresentasse in quel tempo lo strumento di punizione per i criminali e gli scellerati tutti.

36.           Anna continuò a frequentare le rive del lago – dove alcuni seguaci del Signore continuavano a coltivare le sue divine lezioni – insieme ai sofferenti e ai diseredati della sorte. Ed era cosa solita vedere questi antichi compagni e ascoltatori del Messia andare per le strade di campagna, come umili pellegrini, nella più assoluta indigenza, per portare a tutti gli uomini le parole consolatrici della buona Novella. Tipi straordinari di uomini semplici e devoti percorrevano i più lunghi e ardui cammini, coperti di povere vesti e calzando sandali grossolani, predicando però con perfezione e sentimento le verità di Gesù, come se le loro umili teste fossero state toccate dalla grazia divina. Per molti di loro il mondo non andava oltre la Giudea o la Siria; ma la realtà è che le loro parole coraggiose e serene sarebbero rimaste nel mondo per tutti i secoli.

37.           Era passato più di un mese dalla Pasqua dell’anno 33, quando il senatore, in un pomeriggio caldo e bello della Galilea, si avvicinò alla moglie per parlarle dei suoi nuovi progetti: «Livia…», cominciò con riservatezza, «…devo comunicarti che voglio viaggiare per un certo tempo, allontanandomi da questa casa forse per due mesi, in osservanza ai miei doveri di emissario dell’imperatore, per missioni speciali in questa provincia. Siccome questo viaggio sarà fatto toccando numerose località e poiché ho intenzione di soffermarmi alcuni giorni in tutte le città dell’itinerario, fino a Gerusalemme, non mi è possibile portarti con me, lasciandoti, in questo caso, come custode di mia figlia.

38.           Come tu sai, non esiste più nulla tra di noi che ti dia il diritto di conoscere le mie preoccupazioni più intime; tuttavia rinnovo le mie parole del giorno fatale della nostra rottura affettiva. Rimanendo in questa casa solo per il tuo compito materno, affido a te durante la mia assenza la custodia di Flavia fino a quando verrà da Roma il vecchio professore che ho richiesto a Flaminio. Desidero fermamente credere nella fiducia che ripongo nel tuo proposito di rigenerarti come madre di famiglia. Possa tu ristabilire la tua idoneità che nel passato non ti avrei negato in simili circostanze. Spero così che tu ti astenga da qualsiasi atto indegno che possa farmi perdere la mia povera figlia per sempre».

39.           «Publio!...» riuscì ancora ad esclamare la sposa del senatore, afflitta, cercando di approfittare di quel breve minuto di serenità del marito per difendersi dalle calunnie che le erano state scagliate addosso per via delle più complicate circostanze; ma, allontanandosi rapidamente, chiuso nella sua orgogliosa severità, il senatore non le diede il tempo di continuare, rafforzando in lei una volta di più, la consapevolezza della sua amara situazione familiare.

*

40.           Dopo una settimana egli partì per il suo avventuroso viaggio. Lo animavano soprattutto il desiderio di alleviare il cuore da tante preoccupazioni, i tentativi di ricerca del figlio scomparso e l’obiettivo di stendere una relazione sugli errori e sulle ingiustizie dell’amministrazione di Pilato, in modo da eliminarlo dai poteri pubblici della Palestina al momento opportuno.

41.           Sulla sua decisione, tuttavia, incombeva un grave errore, le cui dolorose conseguenze egli non era riuscito o non aveva potuto prevedere nel suo animo tribolato. La circostanza di lasciare moglie e figlia esposte ai pericoli di una regione dove esse erano considerate delle intruse, avrebbe dovuto essere esami­nata più attentamente dal suo punto di vista di uomo pratico. Oltre a ciò, egli non poteva contare, durante la sua assenza, sulla devota vigilanza di Comenio, in viaggio verso Roma, dove lo avevano condotto le decisioni del padrone e leale amico.

42.           Tutte queste preoccupazioni attraversavano la mente di Livia, dotata, come donna, di un sentimento più completo e più giusto, sul piano delle congetture e previsioni. Fu così che, con l’anima afflitta, vide partire il marito, quantunque avesse egli raccomandato a numerosi servi il massimo della vigilanza negli affari domestici e intorno ai suoi familiari.

43.           Solenni festeggiamenti furono organizzati a Tiberiade da Erode, precedentemente avvisato dal senatore della sua visita personale in quella città che costituiva la prima tappa del suo lungo viaggio. Tutte le località di maggiore importanza rappresentavano punti di stazionamento per la sua carovana, poiché Publio, in tutte le località, riceveva insieme ai più espressivi omaggi delle amministrazioni, anche truppe di scorta e numerosi servi, che lo aiutavano nei servizi in quella prolungata visita attraverso le unità politiche di minore importanza in Palestina.

44.           Dobbiamo segnalare, però, che Sulpicio Tarquinio si trovava in missione presso Erode Antipa, proprio nel momento del festoso arrivo di Publio Lentulo nella grande città della Galilea. Fece in modo, tuttavia, di non farsi notare dal senatore, ritornando quel giorno stesso a Gerusalemme, dove lo incontriamo in intima conversazione col governatore, cui si rivolse in questi termini: «Sapete che il senatore Lentulo» disse Sulpicio con il piacere di chi dà una notizia desiderata e interessante, «si è messo a fare un lungo viaggio per tutta la provincia?»

45.           «Cosa?» disse Pilato enormemente sorpreso.

46.           «Proprio così. L’ho lasciato a Tiberiade, da dove partirà per Sebaste fra pochi giorni, e credo proprio, secondo il programma di viaggio che ho potuto conoscere grazie alla complicità di un amico, che non tornerà a Cafarnao prima di quaranta giorni».

47.           «Che motivo avrà il senatore di fare un viaggio così scomodo e senza alcuna attrattiva? Qualche decisione segreta dalla sede dell’Impero?» chiese Pilato, nel timore di qualche punizione per le sue azioni ingiuste nel governo della provincia.

48.           Ma dopo alcuni secondi di riflessione, come se l’uomo privato dominasse i pensieri dell’uomo pubblico, chiese al littore con interesse: «E la moglie? Non lo ha accompagnato? Il senatore avrebbe avuto il coraggio di lasciarla sola, abbandonata alle sorprese di questo paese dove si nascondono tanti malfattori?»

49.           «Immaginando che avreste avuto interesse a tali informazioni», continuò Sulpicio con falsa devozione e soddisfatta malizia, «a tal proposito ho cercato di avere notizie da un amico che è al seguito del senatore in viaggio come elemento della sua guardia personale. Sono così venuto a sapere che la signora Livia è rimasta a Cafarnao insieme alla figlia, e là aspetterà il ritorno del marito».

50.           «Sulpicio,» esclamò Pilato pensoso, «credo che tu non ignori la mia simpatia per quell’adorabile creatura di cui stiamo parlando...»

51.           «Ebbene, lo so, anche perché fui proprio io, come dovreste ricordare, che la introdussi nel vostro studio particolare non molto tempo fa».

52.           «È vero!»

53.           «Perché non approfittate di questa occasione per una visita personale a Cafarnao?» domandò il littore, con secondi fini, ma senza toccare direttamente il delicato argomento.

54.           «Per Giove!» replicò Pilato contento. «Ho un invito di Cusa e altri funzionari importanti di Antipa, in quella città, che mi consente di pensare a questo. Ma qual è il tuo punto di vista a questo riguardo?»

55.           «Signore», esclamò Sulpicio Tarquinio con ipocrita modestia, «prima di tutto, si tratta della vostra gioia personale attraverso la realizzazione di questo progetto, e poi ho anch’io una grande simpatia per una giovane serva della casa di nome Anna, la cui bellezza meravigliosa e semplice è delle più seduttrici che io abbia mai visto nelle donne nate in Samaria».

56.           «Ma che significa questo? Non ti ho mai visto così innamorato. Penso che per te sia ormai passata l’epoca degli entusiasmi giovanili. In ogni caso, ciò vuol dire che non mi trovo solo nella soddisfazione che mi dà l’idea di questo viaggio imprevisto», disse ancora Pilato con visibile buon umore. E come se in quello stesso istante avesse previsto tutti i particolari del suo piano, esclamò rivolto al littore, che l’ascoltava tra il soddisfatto e l’orgoglioso: «Sulpicio, tu rimarrai qui a Gerusalemme appena il tempo necessario per un tuo rapido e leggero riposo, ritornando dopodomani in Galilea, dove andrai direttamente a Cafarnao per avvisare Cusa del mio proposito di visitare la città. Fatto questo, andrai fino alla casa del senatore Lentulo, dove avviserai sua moglie della mia decisione, in tono discreto, per farle sapere il giorno previsto per la mia partenza e quello del mio arrivo là. Spero che, a causa del comportamento sconsiderato del marito, che l’ha lasciata così, sola, in una simile regione, venga lei personalmente a Cafarnao per incontrarsi con me, in modo da distaccarsi un po’ dalla compagnia dei galilei che sono volgari e ignoranti, e ricordare per alcune ore i giorni felici vissuti a corte, conversando con me e rallegrandosi della mia amicizia».

57.           «Molto bene», rispose il littore che non stava in sé dalla contentezza. «I vostri ordini saranno rigorosamente eseguiti».

58.           Sulpicio Tarquinio uscì allegro e confortato nei suoi sentimenti più bassi, pregustando il momento in cui si sarebbe avvicinato nuovamente alla giovane samaritana che aveva risvegliato la cupidigia dei suoi sensi materiali, cupidigia che non aveva avuto il tempo di manifestare quando era al servizio personale di Publio Lentulo.

*

59.           Lo incontriamo dopo quattro giorni a Cafarnao, mentre esegue gli ordini ricevuti; là gli avvisi del governatore erano stati accolti con grande allegria da parte delle autorità politiche.

60.           La stessa cosa non accadde nella residenza di Publio, dove la sua presenza fu accolta con riserve dai servi e dagli schiavi della casa. Al suo invito si presentò Massimo, sostituto di Comenio nella direzione dei servizi usuali, ma ben lontano dal possedere la sua energia e la sua esperienza. Ricevuto sollecitamente dal vecchio servo, che era una sua conoscenza personale, il littore gli sollecitò la presenza di Anna, del cui incontro personale egli disse di aver necessità per la soluzione di una determinata questione.

61.           Il vecchio servitore di Lentulo non esitò ad invitare lei al cospetto di Sulpicio, che l’avvolse con occhiate concupiscenti e ardenti.

62.           La serva gli chiese, imbarazzata e rispettosa, la ragione della visita imprevista, al che Tarquinio spiegò che si trattava della necessità di incontrarsi, per un momento, con Livia in privato, cercando allo stesso tempo di mettere la povera ragazza al corrente delle sue inconfessabili pretese, facendole le proposte più indegne e insolenti.

63.           Dopo pochi minuti, in cui quello si era esibito con voce roca nelle sue espressioni insultanti, che Anna, estremamente pallida, aveva ascoltato con la massima attenzione e pazienza per evitare qualsiasi nota scandalistica nei suoi riguardi, la dignitosa serva rispose con voce severa e coraggiosa: «Signor littore, chiamerò la mia signora perché vi ascolti, fra pochi istanti. Quanto a me devo assicurarvi che vi siete ingannato, poiché non sono la persona che supponete!», e, incamminandosi risoluta verso l’interno della casa, comunicò alla signora l’insistente proposito di Sulpicio di parlarle personalmente. Livia si sorprese non solo per il fatto inaspettato, ma anche per l’espressione del volto della serva, dominato dal più intenso pallore dopo lo shock subito.

64.           Anna si sforzò di non informarla subito dell’accaduto, mentre mormorava: «Signora, il littore Sulpicio sembra aver fretta. Penso che non abbiate tempo da perdere».

65.           Livia, tuttavia, senza lasciarsi turbare dalle circostanze, cercò di ricevere il messaggero col massimo della sua abituale cortesia. Davanti alla sua presenza, il littore s’inchinò con una profonda riverenza, rivolgendosi rispettoso, nell’adempimento dei doveri che lì lo portavano: «Signora, vengo da parte del signor procuratore della Giudea, che ha l’onore di comunicarvi il suo arrivo a Cafarnao nei primi giorni della settimana...»

66.           Gli occhi di Livia brillarono di giustificata indignazione, mentre infinite congetture le assalivano l’animo; facendo però appello alle sue energie trovò il coraggio necessario per rispondere come le circostanze richiedevano: «Signor littore, vi sono grata per la gentilezza delle vostre parole; tuttavia mi necessita chiarire che mio marito si trova in viaggio in questo momento, e in casa nostra non si riceve nessuno in sua assenza!», e, con un lieve cenno, gli fece intendere ch’era il momento di ritirarsi, cosa che Sulpicio comprese, seppure intimamente in collera. E si congedò con rispettosi inchini.

67.           Sorpreso da quell’atteggiamento, poiché agli occhi del littore il tradimento di Livia rappresentava un fatto incontestabile, si ritirò estremamente contrariato, ma non senza architettare dei piani, nella sua depravata malizia.

68.           Fu così che incontrandosi con uno dei soldati di guardia alla residenza, suo conoscente e amico personale, lo avvertì con falso interesse: «Ottavio, prima di una settimana forse sarò qui di ritorno, e desidererei incontrare di nuovo, in questa casa, il gioiello raro della mia felicità e delle mie speranze...»

69.           «Quale gioiello?» domandò, curioso l’interpellato.

70.           «Anna...»

71.           «Va bene. Facile è il lavoro che mi chiedi».

72.           «Ma ascoltami bene», esclamò il littore, già presentendo che la preda avrebbe fatto di tutto per sfuggirgli dalle mani. «Anna è solita allontanarsi frequentemente e, nel caso questo succeda, spero non venga a mancarmi la tua amicizia, con le informazioni necessarie al momento opportuno...»

73.           «Puoi contare sulla mia buona volontà».

*

74.           Finito di ascoltare il particolare più importante di questo dialogo, torniamo dentro casa, dove Livia, con l’anima afflitta, confida alla serva, sua fedele amica, le dolorose ipotesi che le pesavano sul cuore. Dopo averle confidato i suoi giustificati timori, pienamente condivisi da Anna che, a sua volta, la mise al corrente delle insolenze di Sulpicio, la povera signora sgranò alla sua confidente, semplice e generosa, il rosario infinito delle sue amarezze, raccontandole tutte le sofferenze che le turbavano l’anima, buona e sensibile, dal primo giorno in cui la calunnia aveva trovato rifugio nello spirito orgoglioso del compagno. Le lacrime della serva, di fronte a simile confidenza, erano il riflesso della sua profonda comprensione per le sofferenze della signora, sperduta in quei luoghi quasi selvaggi, specie se si considerava la sua educazione e la nobiltà delle sue origini.

75.           Terminato il penoso racconto delle sue disgrazie, la nobile Livia disse con mal dissimulata tristezza: «Veramente ho fatto di tutto per evitare scandali ingiustificabili e incomprensibili. Ora però, sento che la situazione si aggrava ogni volta di più, vista l’insistenza dei miei persecutori e l’incuranza per me di mio marito davanti a tali avvenimenti, mentre io mi trovo in una situazione amara e dolorosa! Se lo mando a chiamare per mezzo di un messaggero, mettendolo al corrente di quello che succede, affinché ci protegga con il suo immediato intervento, forse non comprenderebbe nel suo intimo la concatenazione dei fatti, interpretando i miei timori come sintomi di colpe precedenti o considerando i miei scrupoli come un desiderio di riscatto da colpe che non ho commesso, a causa dei suoi duri rimproveri e penose minacce; invece, se non lo avviso di questi gravi fatti, ugualmente accadrebbe lo scandalo, con l’arrivo del governatore a Cafarnao, approfittando dell’occasione della sua assenza.

76.           Prendo esclusivamente Gesù come mio giudice in questa causa dolorosa, in cui gli unici testimoni devono essere il mio cuore e la mia coscienza! Ciò che ora più mi preoccupa, cara Anna, non è solo l’obbligo di difendermi, poiché ho già provato il fiele amarissimo della disillusione e della calunnia senza pietà. Ma è, giustamente, per la mia povera figlia, poiché ho l’impressione che qui in Palestina i malfattori stanno nei posti dove dovrebbero stare gli uomini dai sentimenti puri e incorruttibili...

77.           Come tu già sai, il mio sventurato figlioletto è sparito, rapito in questo vortice di pericoli, forse assassinato da mani indifferenti e delittuose. Il mio cuore materno mi dice che il mio sfortunato Marco ancora vive. Ma dove? E come? Invano abbiamo tentato di saperlo; in tutti gli angoli lo abbiamo cercato, senza il minimo segno della sua presenza o del suo passaggio... Ora la mia coscienza comanda che difenda mia figlia contro gli oscuri tradimenti!...»

78.           «Signora», esclamò la serva con una luce strana negli occhi come se avesse trovato una soluzione improvvisa e importante per il caso, «ciò che avete detto dimostra il massimo del buon senso e della prudenza. ... Anch’io sono partecipe dei vostri timori, e penso che dovremo fare di tutto per salvare la bambina e voi stessa dalle grinfie di questi lupi assassini. ... Perché non ci nascondiamo in qualche luogo di nostra completa fiducia, finché questi maledetti non avranno abbandonato questi paraggi?»

79.           «Mah, credo che sarebbe inutile cercare rifugio a Cafarnao in tali circostanze».

80.           «Andremo in un altro luogo».

81.           «Dove?» domandò Livia con ansia.

82.           «Ho un’idea», disse Anna piena di speranza. «Se la signora acconsentisse pienamente al progetto, usciremmo tutt’e due di qui con la bambina, rifugiandoci nella Samaria della Giudea, in casa di Simeone, la cui rispettabile età ci salvaguarderebbe da qualsiasi pericolo».

83.           «Ma, la Samaria», replicò Livia un po’ scoraggiata, «è molto lontana...»

84.           «La realtà, tuttavia, mia signora, è che abbiamo bisogno di un luogo di questo genere. Concordo che il viaggio non sarà tanto breve; ma partiremmo con urgenza, noleggiando animali ben riposati, dopo aver sostato un poco passando per Naim. Con un giorno o due di marcia, arriveremmo nella valle di Sichem dove c’è la vecchia casa di mio zio. Massimo sarebbe informato della vostra risoluzione, senza altro motivo che non sia quello della necessità di vostre decisioni del momento; nell’ipotesi poi di un ritorno improvviso del senatore, sarebbe vostro marito ad essere informato integralmente e direttamente sulla situazione, cercando di informarsi personalmente sulla vostra onestà».

85.           «Questa è veramente la soluzione più praticabile che ci resta» esclamò Livia alquanto confortata. «Inoltre ho fiducia nel Maestro, che non ci abbandonerà in momenti così difficili. Oggi stesso faremo i nostri preparativi per il viaggio e tu andrai in città per provvedere non solo riguardo ai cavalli che ci dovranno portare fino a Naim, ma anche per cercare uno dei tuoi parenti che venga con noi, in modo da viaggiare con la massima naturalezza, senza richiamare l’attenzione dei curiosi, ma nello stesso tempo ben protette contro imprevisti di qualsiasi genere. Non preoccuparti per le spese, perché sono provvista di sufficienti mezzi finanziari».

86.           E così fu fatto.

87.           La vigilia della partenza, Livia chiamò il servo che esplicava le funzioni di capo dei servizi della casa, spiegandogli con queste parole: «Massimo, motivi urgenti mi obbligano ad andare domani a Samaria della Giudea, dove mi fermerò alcuni giorni con mia figlia. Porterò Anna con me e confido nella tua buona volontà e nella stessa tua devozione di sempre verso i tuoi padroni».

88.           L’interpellato fece una riverenza, come se fosse stupito di un simile comportamento della padrona, poco abituata ad ambienti al di fuori della sua casa, ma sapendo che non spettava a lui il diritto di esaminare le sue decisioni, enunciò con rispetto: «Signora, attendo che designiate i servi che dovranno accompagnarvi».

89.           «No, Massimo. Non voglio gli apparati d’uso in viaggi di questo genere. Andrò con persone amiche, di Cafarnao, e desidero viaggiare con molta semplicità. M’interessa avvisarti dei miei progetti, solamente per la necessità di dover aumentare i servizi di vigilanza durante la mia assenza, e considerando la possibilità di un ritorno inaspettato del tuo padrone, al quale farai sapere della mia decisione nei termini in cui ora mi sto esprimendo».

90.           E mentre il servo si inchinava rispettoso, Livia tornò nei suoi appartamenti per mettere a punto tutti i problemi relativi alla sua tranquillità.

*

91.           Il giorno seguente, prima dell’aurora, usciva da Cafarnao una semplice carovana. La componevano Livia, la figlia, Anna e uno dei suoi vecchi e rispettabili parenti, i quali si diressero verso la strada che costeggiava il grande lago quasi in un capriccioso semicerchio, accompagnando il corso delle acque del Giordano che discendevano sussurranti e tranquille verso il mar Morto.

92.           Durante una breve tappa a Naim, furono cambiati i cavalli, seguendo i viaggiatori il medesimo itinerario in direzione della valle di Sichem, dove, nel tardo pomeriggio, arrivarono davanti alla casa di pietra di Simeone, che ricevette gli ospiti piangendo di gioia.

93.           Il vecchio di Samaria sembrava toccato dalla grazia divina, tali i notevoli spostamenti che aveva effettuato in tutta la regione, nonostante la sua età avanzata, per diffondere gli insegnamenti consolatori del profeta di Nazareth.

94.           Tra gli ulivi verdeggianti e ombrosi aveva innalzato una grande croce, grezza e pesante, collocando nei suoi pressi un grande tavolo rustico, intorno al quale si sedevano i credenti su poveri sgabelli improvvisati per ascoltare la parola amica e confortante.

95.           Cinque giorni sereni trascorsero lì le due donne, che si trovavano completamente a loro agio in quell’ambiente semplice.

96.           Nel pomeriggio, sotto le carezze di una natura libera e salutare, in seno a un paesaggio verde e incantevole, si riunì l’umile assemblea dei samaritani, disposti ad accettare le nuove idee di amore e di misericordia sublime del Messia di Nazareth.

97.           Simeone, che viveva lì senza la sua compagna, che Dio aveva già richiamato a Sé, e senza i figli, che avevano già formato famiglia in villaggi distanti, assumeva la guida di tutti come venerabile patriarca nella sua serena vecchiaia, raccontando i fatti della vita di Gesù, come se l’ispirazione divina lo favorisse in quei momenti; tale era la profonda bellezza filosofica dei suoi commenti e delle preghiere improvvisate con l’amorosa sincerità del suo cuore.

98.           Quasi tutti i presenti, in quella stessa poesia semplice della natura, era come se stessero ancora bevendo le parole del Maestro presso Gherizim, e piangevano di commozione e turbamento spirituale, toccati dalla Sua parola profonda e amorevole, magnetizzati dalla bellezza delle sue evocazioni, piene di insegnamenti rari di carità e dolcezza.

99.           In quell’epoca i cristiani non avevano i vangeli scritti, che sarebbero apparsi solo un po’ dopo nel mondo grazie agli apostoli, ragion per cui tutti i predicatori della buona Novella collezionavano le massime e le lezioni del Maestro, scritte di proprio pugno o con la collaborazione degli scribi del tempo, catalogandosi, in questo modo, gli insegnamenti di Gesù per lo studio necessario nelle assemblee pubbliche delle sinagoghe.

100.      Simeone, che non possedeva una sinagoga, seguiva però il medesimo metodo.

101.      Con la pazienza che lo distingueva, scrisse tutto quello che sapeva del Maestro di Nazareth, per ricordarlo nelle sue riunioni umili e senza pretese, apprestandosi a registrare nel miglior modo tutte le nuove lezioni del patrimonio di ricordi dei suoi compagni o di quei discepoli anonimi del cristianesimo nascente che, passando per il suo vecchio villaggio, attraversavano la Palestina in tutte le direzioni.

102.      Erano sei giorni che le ospiti si ritempravano in quell’ambiente amorevole, quando il rispettabile vecchio, un pomeriggio, durante le sue consuete evocazioni del Messia, sembrava fosse stato toccato da influenze spirituali tra le più eccelse.

103.      Gli ultimi chiaroscuri del crepuscolo diffondevano sul paesaggio i toni dello smeraldo e del topazio, esaltandolo sotto un cielo azzurro indescrivibile. In mezzo all’eterogenea assemblea si notava la presenza di creature sofferenti di tutte le origini, che allo spirito di Livia riportavano il ricordo di quel memorabile pomeriggio di Cafarnao, quando aveva ascoltato per la prima volta il Signore. Uomini coperti di cenci e donne poveramente vestite si affollavano con bambini macilenti, fissando ansiosamente il vecchio che, con le sue parole semplici e sincere, spiegava commosso:

104.      “Fratelli, bisognava vedere la soave rassegnazione del Signore, negli ultimi istanti! Lo sguardo rivolto al cielo, come se già stesse provando il piacere della contemplazione delle beatitudini celesti nel regno del Padre nostro, vidi che il Maestro perdonava caritatevolmente tutte le ingiurie. Solo uno dei suoi discepoli più cari è rimasto ai piedi della croce, soccorrendo sua madre, in quel doloroso momento! ... Dei suoi abituali seguaci, pochi erano presenti in quell’ora dolorosa, certamente perché noi, che tanto Lo amavamo, non potevamo manifestare i nostri sentimenti davanti a quella folla inferocita, senza grave pericolo per la nostra sicurezza personale, nonostante desiderassimo tutti sperimentare gli stessi patimenti!

105.      Di quando in quando l’uno o l’altro tra i più cinici dei suoi carnefici si avvicinò al Suo corpo, piagato dal martirio, e gli dilacerava il petto con la punta delle lance crudeli».

106.      Ogni tanto il nobile vecchio si asciugava il sudore della fronte, per continuare con gli occhi umidi di pianto: «A un certo momento notai che Gesù aveva distolto gli occhi calmi e lucidi dal cielo e guardava la folla in rivolta e in preda a una furia criminosa... Alcuni soldati ubriachi lo presero a frustate, più di una volta, senza che dal suo petto ansante, nel tormento dell’agonia, uscisse un solo lamento! I suoi occhi soavi e misericordiosi spaziarono allora dal monte del sacrificio sulle case della città maledetta. Quando lo vidi guardare ansiosamente con la tenerezza affettuosa di un padre verso quanti lo insultavano nei supplizi estremi della morte, piansi di vergogna per le nostre empietà e debolezze...

107.      La folla, intanto, si agitava in innumerevoli risse... Grida assordanti e insulti rivoltanti lo tormentarono sulla croce, mentre si poteva vedere il sudore dell’agonia scorrergli copioso... Ma il Signore, come visualizzando profondamente i segreti dei destini umani, leggendo nel libro del futuro, osservò nuovamente i cieli, esclamando con infinita bontà: “Perdona loro, Padre mio, perché non sanno quello che fanno!”»

108.      Il vecchio Simeone aveva la voce incrinata dal pianto nell’evocare quei ricordi, mentre l’assemblea si commuoveva profondamente per la narrazione. Altri fratelli della comunità presero la parola, affinché il vecchio si riposasse dai suoi sforzi.

109.      Uno di loro, però, contrariamente ai temi preparati per quel giorno, esclamò tra la sorpresa di tutti i presenti: «Fratelli miei, prima di ritirarci, ricordiamo che il Messia ripeteva sempre ai suoi discepoli la necessità di vigilare e di pregare, perché i lupi, in questo mondo, …girano attorno al gregge delle pecore!»

110.      Simeone ascoltò l’avvertenza e si pose in atto di profonda meditazione, gli occhi fissi sulla grande croce che s’innalzava a pochi metri dalla sua umile panca.

111.      Dopo alcuni minuti di concentrazione spontanea, ebbe gli occhi pieni di lacrime, fissi in quel legno grezzo, come se sulla sua cima vagasse un qualcosa sconosciuto a tutti.

112.      Più tardi, chiudendo le prediche del pomeriggio, disse commosso: «Figlioli, non è senza giusto motivo che il nostro fratello si riferisce oggi all’insegnamento della vigilanza e della preghiera. Un qualcosa che non so definire, dice al mio cuore che il momento della nostra testimonianza è molto vicino... Vedo con la mia vista spirituale che la nostra croce è oggi illuminata, annunziando, forse, il glorioso istante dei nostri sacrifici... I miei poveri occhi si riempiono di lacrime perché, fra le luci della croce, ascolto una voce dolce che entra nelle mie orecchie, con un’intonazione soave e amica, che mi esclama: “Simeone, insegna al tuo gregge la lezione della rinuncia e dell’umiltà con l’esempio della tua dedizione e del tuo stesso sacrificio! Prega e vigila, perché non è lontano il meraviglioso momento della tua entrata nel regno, ma difendi le pecore del tuo ovile dai tenebrosi assalti dei lupi affamati d’empietà, liberati sulla Terra, lungo tutti i cammini. Tu sappi, però, che se a ciascuno sarà dato secondo le sue azioni, i cattivi avranno, ugualmente, il loro giorno di lezione e castigo, secondo i loro stessi errori!”»

113.      Il vecchio samaritano aveva il volto bagnato di lacrime, ma il suo sguardo pieno di carità e compassione irradiava una dolce serenità, dimostrando le sue valide e instancabili energie.

114.      Fu allora che, alzando le mani macilenti e affusolate verso il cielo, dove brillavano le prime stelle, rivolse a Gesù una preghiera ardente: «Signore, perdonate le nostre debolezze e incertezze nella lotta della vita umana, dove i nostri sentimenti sono molto fragili e miserabili! Benedite il nostro sforzo di ogni giorno e perdonate le nostre mancanze, se alcuni di noi, qui riuniti, vengono alla vostra presenza col cuore pieno di pensieri che non siano quelli del bene e dell’amore che tu ci hai insegnato!... E se è arrivata l’ora dei sacrifici, aiutateci con la vostra misericordia infinita, affinché non vacilliamo nella nostra fede nei momenti dolorosi della testimonianza! ...»

115.      La commovente orazione segnò la fine della riunione, mentre gli astanti si disperdevano ritornando, impressionati, alle loro umili e povere capanne.

116.      Il vecchio, tuttavia, riuscì a riposare ben poco quella notte, preso dalla preoccupazione per Livia e per la nipote, le quali lo avevano informato dei gravi fatti che le avevano spinte a chiedere la sua protezione. Gli sembrava che richiami amorevoli del mondo invisibile gli riempissero lo spirito di inquietudine indefinibile e di singolari impressioni, che non gli fu possibile allontanare dalla mente per il tempo necessario al riposo.

*

117.      Con tutto ciò, mentre accadevano questi fatti nella valle di Sichem, torniamo a Cafarnao dove in quello stesso pomeriggio era arrivato il governatore con un grande apparato.

118.      Nella confusione dei numerosi festeggiamenti organizzati per ordine di Erode Antipa, il primo pensiero del viaggiatore illustre non può essere da noi dimenticato. Tuttavia Sulpicio, dopo aver conversato a lungo col suo amico Ottavio nelle vicinanze della casa del senatore, fu messo al corrente di tutti i fatti e tornò ad informare il governatore che entrambe le prede ardentemente desiderate erano fuggite come piccioni viaggiatori verso i boschi della Samaria.

119.      Il governatore si meravigliò della tenacia di quella donna, tanto era abituato alle facili conquiste, ammirandone nel suo intimo il nobile eroismo e pensando che alla fine costituiva un atteggiamento ingiustificabile da parte sua una tale ostinazione nell’assedio, anche perché non gli sarebbero mancate donne belle e tentatrici, desiderose di guadagnarsi la sua stima, nel corso della sua alta posizione politica in Palestina.

120.      Mentre così pensava, lo spirito perverso del littore, pregustando la difficile conquista della sua vittima, gli sussurrò all’orecchio: «Signor governatore, se permettete, io andrò a Samaria della Giudea a informarmi sulla questione. Da qui alla valle di Sichem ci devono essere poco più di trenta miglia, cosa che significa un salto per i nostri cavalli. Io porterei con me sei soldati, sufficienti per mantenere l’ordine in qualsiasi parte di questi luoghi».

121.      «Sulpicio, per me non vedo più alcuna necessità di simili provvedimenti», esclamò Pilato rassegnato.

122.      «Ma ora», spiegò il littore interessato, «se non è per voi, deve essere per me, poiché mi sento dominato da una donna che voglio possedere a qualsiasi costo. Sono io ora che vi chiedo umilmente il permesso di questi provvedimenti», disse lui esasperato, al colmo dei suoi lascivi pensieri.

123.      «Va bene», mormorò Pilato, annoiato, come chi faccia un favore a un servo di fiducia, «ti concedo ciò che mi chiedi. Credo che l’amore di un romano debba superare qualsiasi affetto da parte degli schiavi di questo paese. Puoi partire portando con te gli elementi di tua fiducia, senza dimenticare però, che dobbiamo ritornare a Nazareth fra tre giorni. Forse che non ti bastano due giorni per questa impresa?»

124.      «Mah», continuò il littore, maliziosamente, «e se ci fosse qualche resistenza?»

125.      «Per questo ti porti i tuoi uomini e sei autorizzato da me a prendere tutte le necessarie iniziative ai tuoi disegni. In qualsiasi missione, non dimenticare mai di offrire ai patrizi i benefici della nostra considerazione, ma a quelli che non lo sono, rendi giustizia del nostro dominio e della nostra forza implacabile!»

*

126.      Quella stessa notte, Sulpicio Tarquinio scelse gli uomini di maggior fiducia, e di buon mattino sette audaci cavalieri si misero in cammino verso la Samaria, cambiando i focosi cavalli nelle tappe più importanti.

127.      Il littore andava incontro alla sua avventura come chi va verso l’ignoto, con il fermo proposito di raggiungere i suoi fini senza preoccuparsi dei mezzi. Nella sua mente turbinavano pensieri condannabili, che affogavano il suo cuore inquieto e impazzito in un’ondata di desideri criminali indescrivibili.

128.      Volgendo tuttavia la nostra attenzione all’umile casa della valle, incontriamo Simeone in grandi attività quella mattina indimenticabile della sua vita. Dopo un pasto frugale, sistemati tutti i suoi appunti e le sue pergamene, dopo più di un’ora di meditazione e di fervide preghiere, e quando il Sole stava già declinando, riunì le sue ospiti parlando loro con gravità: «Figlie, la visione ai miei poveri occhi, durante le nostre orazioni di ieri, rappresenta un serio avvertimento per il mio cuore. Ancora questa notte e oggi durante il giorno, ho ascoltato angeli soavi che mi chiamavano e, senza spiegarmene la ragione, ho nel profondo del mio animo, pieno di grande serenità, l’impressione che non deve tardare molto la mia andata verso il regno... Qualcosa, però, dice al mio spirito che ancora non è suonata l’ora della vostra partenza e, considerando l’insegnamento sui lupi e sulle pecore, del nostro Maestro di bontà e misericordia, devo proteggervi da qualche pericolo. È per questo che vi chiedo di seguirmi».

129.      Così dicendo, il venerando vecchio si alzò e, camminando per la sua misera casa, smosse alcuni blocchi di pietra di un’apertura nella parete, esclamando in tono imperativo nella sua serena semplicità: «Entriamo!»

130.      «Ma, zio caro», disse Anna con un certo timore, «sono proprio necessarie tali precauzioni?»

131.      «Figlia, non discutere mai il consiglio di coloro che sono invecchiati nel lavoro e nella sofferenza. Il giorno di oggi è decisivo, e Gesù non potrebbe mai ingannare il mio cuore».

132.      «Oh! Ma sarà allora possibile che il Maestro ci privi della vostra presenza affettuosa e consolatrice?» esclamò la povera ragazza bagnata di lacrime, mentre Livia li seguiva commossa, conducendo per mano la figlia intimorita.

133.      «Sì, per noi deve esistere una sola volontà, …quella di Dio» rispose Simeone con sereno coraggio, guardando l’azzurro del cielo. «Sia fatta quindi da parte di noi schiavi la volontà del Signore!».

134.      In quel momento i quattro erano entrati in una galleria che, dopo pochi metri, sbucava in un modesto rifugio ricavato nella pietra viva, e così il vecchio disse in tono solenne: «Da più di venti anni non apro questo sotterraneo per nessuno... Ricordi sacri della mia sposa mi hanno spinto a chiuderlo per sempre, come una tomba delle mie illusioni più care; ma questa mattina l’ho riaperto con risolutezza, ho ritirato quanto intralciava ed ho messo qui il necessario per il riposo di un giorno, pensando alla vostra sicurezza fino alla notte. Questo rifugio è nascosto nelle rocce che, insieme agli ulivi, ornano il nostro angolo delle preghiere, e nonostante l’ambiente sembri senz’aria, riceve invece l’aria pura e fresca della valle, come la nostra stessa casa.

135.      Rimanete qui tranquille. Qualcosa dice al mio cuore che stiamo attraversando ore decisive. Ho portato il cibo necessario a tutt’e tre per il pomeriggio e, se per caso io non tornassi entro l’imbrunire, già sapete come smuovere la porta di pietra che si affaccia sulla mia camera. Da qui si odono i rumori provenienti dai dintorni, il che vi darà la possibilità di avvertire un eventuale pericolo».

136.      «E nessun altro conosce questo rifugio?» domandò Anna, ansiosa.

137.      «Nessun’altro, all’infuori di Dio e dei miei figli lontani».

138.      Livia, profondamente commossa, alzò allora la voce del suo sincero ringraziamento, dicendo: «Simeone, io che conosco la forza del nemico, giustifico i vostri timori. Mai dimenticherò il vostro gesto paterno, salvandomi dal carnefice crudele e implacabile».

139.      «Signora, non ringraziatemi, perché io non valgo nulla. Ringraziamo Gesù per i suoi preziosi disegni, nel momento amaro delle nostre prove...»

140.      Tirando fuori una piccola croce di legno dalle pieghe dell’umile tunica, la consegnò alla moglie del senatore, esclamando con voce serena: «Solo Dio conosce il momento che si avvicina, e quest’ora può significare gli ultimi momenti della nostra vita sulla Terra. Se succederà questo, custodite questa croce come ricordo di un umile servo... Essa sta a significare la gratitudine del mio animo sincero...»

141.      Ma come Livia e Anna cominciarono a piangere alle sue parole commoventi, il vecchio continuò con voce tranquilla: «Non piangete se questo momento è l’istante supremo! Se Gesù chiama al lavoro alcuni, prima degli altri, ricordiamoci che un giorno ci riuniremo tutti nelle soavi luci del suo regno di amore e di misericordia, dove tutti gli afflitti saranno consolati...»

142.      E come se il suo spirito fosse in piena contemplazione di altre sfere, la cui luminosità lo riempisse di intuizioni divinatorie, rivolgendosi a Livia, proseguì commosso: «Abbiamo fiducia nella Provvidenza divina! Nel caso la mia testimonianza fosse prevista fra poche ore, vi affido la mia povera Anna, …come se vi consegnassi il mio ricordo più caro. Dopo aver abbracciato l’insegnamento del Messia, tutti i figli del mio sangue mi hanno abbandonato senza comprendere i più santi disegni del mio cuore... Anna, invece, nonostante la sua gioventù, ha compreso il dolce Crocifisso di Gerusalemme».

143.      «Quanto a te, Anna» disse poggiando la destra sulla testa della nipote «ama la tua padrona come se tu fossi la più umile delle sue schiave».

144.      In quel momento, però, un rumore più forte giunse fino al nascondiglio, come se una confusione inspiegabile provenisse dalle rocce, sembrando piuttosto lo scalpitio di numerosi cavalli che si avvicinavano.

145.      Il vecchio fece un gesto di saluto, mentre Livia e Anna si inginocchiarono davanti alla sua figura austera e affettuosa; tutt’e due, fra le lacrime, presero le sue mani raggrinzite e le coprirono di baci affettuosi.

146.      In un istante Simeone attraversò la piccola galleria, ricollocando le pietre nella parete con la massima attenzione.

147.      In pochi minuti aprì la porta della sua umile e ospitale casa a Sulpicio Tarquinio e ai compagni, comprendendo che gli avvertimenti di Gesù, nel silenzio delle sue fervide orazioni, non erano stati fraintesi.

148.      Senza tanti complimenti il littore gli rivolse la parola, facendo il possibile per eliminare l’impressione che gli incuteva il maestoso aspetto del vecchio, con i suoi occhi alteri e sereni e la sua lunga barba bianca: «Vecchio mio», esclamò rudemente, «per mezzo di alcuni tuoi conoscenti ho proprio adesso saputo che ti chiami Simeone e che ospiti una nobile signora di Cafarnao, con la sua serva di fiducia. Vengo da parte delle più alte autorità per parlarle privatamente, nella maggiore riservatezza possibile».

149.      «V’ingannate, littore», mormorò Simeone con umiltà. «Infatti, la sposa del senatore Lentulo è passata da queste parti. Tuttavia, solo per il fatto di essere accompagnata da una mia nipote, mi riservò l’onore di riposare in questa casa alcune ore».

150.      «Ma tu devi sapere dove sono in questo momento».

151.      «Non posso dirlo».

152.      «Tu forse non lo sai?»

153.      «Ho sempre saputo», disse il vecchio coraggiosamente, «che devo ignorare tutte le cose che vogliono essere conosciute per il male dei miei simili».

154.      «Ma questa è un’altra cosa,» replicò Sulpicio, arrabbiato, come un bugiardo del quale si scoprissero i pensieri più segreti. «Vuoi dire quindi che mi nascondi il rifugio di queste donne per semplici capricci della decrepita vecchiaia?»

155.      «Non è questo. Sapendo che nel mondo siamo tutti fratelli, mi sento in dovere di proteggere i più deboli contro la malvagità dei più forti».

156.      «Ma io non le cerco per far loro qualcosa di male, e ti esorto a stare in guardia con queste insultanti insinuazioni, che meritano la punizione della giustizia».

157.      «Littore», rispose Simeone con grande serenità, «se potete ingannare gli uomini, non ingannate Dio con i vostri sentimenti inconfessabili e impuri. Io conosco i propositi che vi portano in questi luoghi e deploro la vostra passionalità criminale... La vostra coscienza è offuscata da pensieri delittuosi e impuri, ma ogni momento è un’occasione di redenzione che Dio ci concede nella sua infinita bontà... Tornatevene indietro voi e l’insidia che qui vi ha portato, e prendete altre direzioni, perché, come l’uomo deve salvarsi attraverso il bene che pratica, così può anche morire per il fuoco distruttore delle passioni, che lo trascinano ai delitti più barbari».

158.      «Vecchio infame...», gridò Sulpicio Tarquinio, rosso di collera, mentre i soldati osservavano, ammirati, il sereno coraggio del valoroso vecchio della Samaria, «…mi hanno detto bene i tuoi vicini, quando mi hanno informato sul tuo conto, che sei il più grande stregone di questa regione! Maledetto indovino, come osi affrontare in questo modo i rappresentanti dell’Impero, quando possono polverizzarti con una semplice parola? Con che diritto ti prendi gioco del potere?»

159.      «Col diritto delle verità di Dio che ci comanda di amare il prossimo come noi stessi... Se siete rappresentanti di un Impero che non possiede altra legge che quella della violenza senza pietà, per eseguire tutti i suoi delitti, sento che dipendo da un potere pieno di misericordia e bontà, di gran lunga più forte del vostro. Quel potere e quell’impero sono di Dio, la cui giustizia misericordiosa è al di sopra degli uomini e delle nazioni!»

160.      Resosi conto del suo coraggio e della sua energia morale inflessibili, il littore, sebbene fremente di odio, rispose con tono falso: «E va bene! Ma io non sono venuto qui per conoscere le tue arti magiche e il tuo fanatismo religioso. Una volta per tutte: vuoi o non vuoi darmi le esatte informazioni sulle tue ospiti?»

161.      «Non posso», rispose Simeone coraggiosamente, «la mia parola è una sola».

162.      «Allora, arrestatelo!», disse rivolgendosi ai suoi soldati, pallido di collera nel vedersi sconfitto in quel duello di parole.

163.      Il vecchio cristiano della Samaria fu sottoposto alle prime angherie da parte dei soldati, consegnandosi, però, senza la minima resistenza.

164.      Ai primi colpi di spada, Sulpicio esclamò con sarcasmo: «E allora, dove si trovano le forze del tuo Dio che non ti difende? Il suo Impero è così debole? Perché non ti soccorrono i poteri celesti, eliminando con la morte noi, a beneficio tuo?»

165.      Una risata generale seguì a queste parole da parte dei soldati che accompagnavano con grande spasso le violenze criminali del loro capo.

166.      Simeone, tuttavia, aveva le energie pronte a dar testimonianza della sua fede ardente e sincera. Con le mani legate, poté ancora replicare con la sua abituale serenità: «Littore, anche se io fossi un uomo potente come il tuo Cesare, non alzerei mai la voce per ordinare la morte di chicchessia, sulla faccia della Terra. Io sono di quelli che negano il loro diritto alla cosiddetta legittima difesa, perché nella Legge sta scritto: “Non uccidere!”, senza alcuna clausola che autorizzi l’uomo ad eliminare il suo fratello, in questa o in quella circostanza... Tutta la nostra difesa, in questo mondo, è in Dio, perché solo Lui è il Creatore di ogni vita e solamente Lui può porre e disporre dei nostri destini».

167.      Sulpicio arrivò al culmine del suo odio di fronte a quel coraggio nobile e indomabile, e avanzando verso uno dei soldati, esclamò furioso: «Mercio, assumiti la responsabilità di questo vecchio, imbecille e stregone. Sorveglialo con attenzione e non distrarti. Se tentasse di fuggire, infilzalo con lo spadone».

168.      Il venerabile vecchio, cosciente di vivere le sue ultime ore, guardò l’aggressore con eroica umiltà.

169.      Sulpicio e i compagni gli invasero la casa e l’orto, cacciando via una sua vecchia serva a parolacce e a sassate. Nella sua camera trovarono le sue annotazioni sul Vangelo e le pergamene ingiallite, oltre a piccoli doni che custodiva in ricordo dei suoi affetti più cari.

170.      Tutti gli oggetti delle sue memorie più sacre furono collocati davanti a lui e distrutti senza pietà. Davanti ai suoi occhi buoni e sereni, fecero a pezzi tuniche e antichi papiri, fra sarcasmi e ironie rivoltanti.

171.      Terminata la perquisizione, il littore, mani dietro la schiena, esaminava dentro di sé la maniera migliore per strappargli la tanto desiderata informazione sul rifugio delle sue vittime. Perlustrò quindi i paraggi lì intorno per oltre due ore ritornando poi nella stessa stanza, dove lo interrogò nuovamente.

172.      «Simeone», disse calcolatamente, «esaudisci i miei desideri e ti darò la libertà!»

173.      «A questo prezzo, ogni libertà mi sarebbe penosa. E da preferirsi la morte, piuttosto che venire a patti col male», rispose il vecchio con lo stesso coraggio.

174.      Sulpicio Tarquinio digrignò i denti per la rabbia e gridò fuori di sé: «Miserabile! Saprò io strapparti la dovuta confessione».

175.      Dicendo questo, guardò fisso la grande croce che si levava a pochi metri dalla porta e, come se avesse scoperto il miglior strumento di martirio per strappargli la rivelazione desiderata, si rivolse ai soldati con voce tonante: «Lo legheremo a quella croce, come il maestro delle sue stregonerie».

176.      Ricordando gli alti momenti del Calvario, il vecchio si lasciò condurre senza alcuna resistenza, ringraziando intimamente Gesù per il suo avvertimento provvidenziale, in tempo per salvare dalle mani del nemico quelle che considerava come sue figlie molto amate.

177.      In un attimo i soldati lo legarono alla base della grande croce, senza che la vittima mostrasse un solo gesto di resistenza.

178.      Si avvicinava il crepuscolo, e Simeone ricordò che poche ore prima il Signore aveva sofferto molto di più. Pregando con fervore, chiese al Padre Celeste coraggio e rassegnazione per l’angoscioso momento critico. Ricordò i figli lontani, chiedendo a Gesù che li accogliesse sotto il manto della sua infinita misericordia. Fu in quel momento che, legato alla croce con le braccia, il tronco e le gambe, vide che si avvicinavano, per le riunioni del crepuscolo, alcuni dei compagni delle sue preghiere abituali, i quali furono subito arrestati dai soldati e dall’implacabile capo.

179.      Interrogati sul vecchio che si trovava lì, con il dorso seminudo per ricevere i tormenti della frusta, tutti, senza una sola eccezione, affermarono di non conoscerlo.

180.      Più che le crudeltà degli spietati romani, gli arrecò dolore nel profondo del suo animo generoso e sincero una simile ingratitudine, come se una spina avvelenata gli penetrasse nel cuore. Tuttavia, subito raccolse nuovamente le sue energie spirituali e, guardando verso l’Alto, mormorò a bassa voce, in un’an­siosa e ardente preghiera: «Anche Voi, Signore, foste abbandonato! Voi eravate l’Agnello di Dio, innocente e puro, e soffriste i dolori più amari, provando il fiele dei tradimenti più dolorosi! Non sia dunque il vostro servo, misero e peccatore, a rinnegare il martirio purificatore della testimonianza!»

181.      A quell’ora, quel luogo era già pieno di persone, che secondo gli ordini di Sulpicio sarebbero dovute rimanere sedute sulle rozze panche, disposte a semicerchio in modo da assistere al meglio alla scena selvaggia, a titolo di ravvedimento per quanti pensassero di disobbedire alla giustizia dell’Impero.

182.      Il primo soldato, agli ordini del comandante, iniziò la flagellazione. Tuttavia, fin dalla terza volta che le sue mani impartivano le strazianti scudisciate di cuoio, secondo l’esecranda tortura, senza che il vecchio si lasciasse sfuggire il più leggero lamento, si fermò all’improvviso, esclamando verso Tarquinio, con voce bassa e in tono discreto: «Signor littore, sull’alto della croce c’è una luce che mi paralizza le forze».

183.      Sulpicio, in collera, comandò che un altro soldato lo sostituisse, ma lo stesso fenomeno si ripeté con tutti i boia chiamati a quel sinistro servizio.

184.      Fu allora che, dominato da un odio inconcepibile, Sulpicio prese lo scudiscio, calandolo egli stesso sul corpo della vittima, che si contorse in preda a sofferenze atroci.

185.      Simeone, bagnato di sangue e sudore, sentì lo scricchiolare delle sue vecchie ossa che andavano in pezzi ogni volta che la frusta batteva le sue carni infiacchite. Le sue labbra mormoravano fervide preghiere e appelli a Gesù affinché i tormenti non si prolungassero oltre. Tutti i presenti, nonostante il terrore li avesse portati ad abbandonare il vecchio discepolo di Gesù, osservavano con gli occhi pieni di lacrime le indicibili sofferenze.

186.      A un certo momento, reclinò il capo come se fosse morto, preannunciando così la fine di ogni resistenza organica di fronte al martirio.

187.      Sulpicio Tarquinio arrestò allora per un minuto la sua opera nefanda e, avvicinatosi al vecchio, gli disse all’orecchio, con ansietà: «Confessi, ora?»

188.      Ma il vecchio samaritano, abituato alle lotte terrene da più di settanta anni di sofferenze, esclamò esausto, con voce sommessa: «Il cristiano... deve morire... con Gesù... per il bene... e per la verità...»

189.      «Muori allora, miserabile!» gridò Sulpicio con voce tonante; e afferrando la spada, gli infilò la lama nel petto sfinito.

190.      Si vide il sangue sgorgare a fiotti vermigli e copiosi. A quell’ora, stremato ormai da quel martirio, il vecchio vide senza timore l’atto supremo che avrebbe messo fine alle sue sofferenze. Provò la sensazione di un arnese sconosciuto che gli squarciava il petto massacrato e soffocato da mortale angoscia. Improvvisamente, però, intravide due mani candide e trasparenti che parevano accarezzargli affettuosamente i capelli incanutiti. Notò che lo scenario si era trasformato, da quando, nel momento doloroso, aveva lievemente chiuso gli occhi.

*

191.      Il cielo non era più lo stesso né più vedeva davanti a sé traditori e persecutori. L’ambiente era pieno di luce soave e rasserenante, mentre alle sue orecchie arrivavano gli echi melodiosi di una musica celeste, suonata forse da artisti invisibili. Udiva inni diffusi che glorificavano i dolori di tutti gli sventurati, di tutti gli afflitti del mondo, scorgendo, meravigliato, il sorriso accogliente di entità belle e lucenti.

192.      Gli sembrò di riconoscere il paesaggio che lo accoglieva. S’immaginava trasportato nei deliziosi luoghi di Cafarnao, nei dolci momenti in cui si preparava a ricevere la benedizione del Messia, giurando di essere arrivato, per un processo misterioso, in una Galilea con fiori più abbondanti e con un firmamento più bello. Uccelli di luce, come gigli alati del paradiso, cantavano sugli alberi rigogliosi e frondosi, che dovevano essere quelli dell’Eden celeste!

193.      Cercò di dominare le sue emozioni nelle luminosità di questa Terra Promessa che, ai suoi occhi, avrebbe dovuto essere il paese incantato del “regno del Signore”.

194.      Per un attimo si ricordò dell’orbe terrestre, delle sue ultime preoccupazioni e dei suoi dolori. Una sensazione di stanchezza dominò allora il suo animo abbattuto; ma una Voce, che i suoi orecchi avrebbero riconosciuto fra mille altre voci, gli parlò dolcemente al cuore: «Simeone, arrivato è il tempo del riposo! .. Riposa ora dalle afflizioni e dai dolori, perché sei giunto nel Mio regno, dove godrai per l’eternità della misericordia infinita del Padre nostro!...»

195.      Gli sembrò, infine, che qualcuno lo avesse tenuto stretto al petto col massimo della delicatezza e dell’affetto. Un balsamo soave addormentò il suo spirito esausto e amareggiato. Il vecchio servo di Gesù chiuse allora gli occhi placidamente, accarezzato da un’entità angelica che, lieve, posò le mani diafane sul suo cuore sfinito.

*

196.      Tornando indietro al doloroso spettacolo, incontriamo vicino alla casa del vecchio di Samaria una massa di popolo che, composta, assisteva agghiacciata dal terrore alla scena tenebrosa.

197.      Legato alla croce, il cadavere del vecchio Simeone grondava sangue dalla grande ferita aperta sul cuore. Con la testa reclinata per sempre, come se reclamasse il riposo della terra generosa, la sua venerabile barba andava macchiandosi di vermiglio per gli schizzi di sangue provocati dalle frustate che Sulpicio, nonostante sapesse che il colpo di spada che era stato la sequenza finale del mostruoso dramma, continuava ad infliggere al cadavere, legato alla croce infame del martirio.

198.      Si sarebbe detto che le forze scatenate dalle tenebre si erano impadronite completamente dello spirito del littore che, in preda a un inspiegabile furore epilettico, percuoteva il cadavere senza pietà, in un torrente di improperi per impressionare la massa popolare che lo osservava atterrita.

199.      «Guarda» gridava furiosamente, «guarda come devono morire i samaritani vigliacchi e gli stregoni assassini!... Vecchio miserabile!... Porta all’infermo anche questo ricordo!...»

200.      E lo scudiscio cadeva, senza pietà, sui resti sfregiati della vittima, ridotta ora a una massa informe sanguinante.

201.      In quel momento, però, forse per la scarsa profondità della base della croce, che era stata scossa dai movimenti ripetuti e violenti del supplizio, o forse per la punizione delle potenti forze del mondo invisibile, si vide che l’enorme croce di legno cadeva al suolo con la violenza di un fulmine.

202.      Inutilmente il littore tentò di sottrarsi a una morte orribile, calcolando la situazione per una frazione di secondo, perché la sommità della croce gli spaccò la testa con un sol colpo, rendendo inutile il suo iniziale moto di fuga. Buttato a terra con rapidità impressionante, Sulpicio Tarquinio non ebbe il tempo di dare un grido. Dalla base del suo cranio sfracellato defluì la massa encefalica mescolata al sangue.

203.      In un attimo tutti accorsero verso il corpo abbattuto del lupo, trucidato dopo il sacrificio della pecora. Uno dei soldati lo esaminò con attenzione al petto, dove ancora il cuore pulsava automaticamente nei suoi ultimi spasmi.

204.      La bocca del carnefice stava aperta, non più per urlare bestemmie, ma dalla sua gola usciva una copiosa schiuma di saliva e sangue, da sembrare la bava ripugnante e schifosa di un mostro. I suoi occhi erano fuori dalle orbite, come se fissassero per sempre, negli spasimi del terrore, un’interminabile falange di fantasmi tenebrosi...

205.      Impressionati dall’accaduto, dovuto all’influenza della misteriosa profetica luce che avevano visto sulla cima della croce, i soldati non sapevano cosa fare in quel frangente, ugualmente confusi tra la paura e la sorpresa generale dei primi momenti.

206.      Fu in quel momento che apparve sulla porta la nobile figura di Livia, pallida e tristemente perplessa. Lei e Anna, all’interno della grotta dove si erano rifugiate, avevano intuito il pericolo, rimanendo entrambe in fervida preghiera, implorando la pietà di Gesù in quelle ore difficili.

207.      Alle loro orecchie giungevano le grida indistinte delle discussioni e il clamore degli alterchi strepitosi del popolo al momento dell’incidente, considerato da quanti a esso avevano assistito, come un castigo del Cielo.

208.      Le due donne, afflitte e preoccupate, considerata l’ora avanzata, decisero di uscire, qualunque sarebbe stata la conseguenza della loro decisione.

209.      Arrivando sulla porta e osservando lo spettacolo orrendo del cadavere di Simeone, ridotto a una massa informe alla base della croce, e vedendo il corpo di Sulpicio steso a pochi passi di distanza con la parte inferiore del cranio sfracellata, provarono naturalmente una paura incredibile.

210.      Il parossismo emotivo durò comunque pochi minuti. Mentre la serva si scioglieva in pianto, Livia, con l’energia che caratterizzava il suo spirito e con la fede che illuminava il suo cuore, comprese subito che cosa era successo e, intuendo che la situazione esigeva una forza di volontà eccezionale per ristabilire l’equilibrio generale, esclamò verso la serva, consegnandole la figlia risolutamente: «Anna, ti chiedo il massimo del coraggio in questo terribile momento, anche perché dobbiamo ricordare che la bontà di Gesù ci ha preparate per sopportare con dignità anche questa prova durissima e dolorosa! Tieni con te Flavia, mentre io vado a provvedere perché si ristabilisca la tranquillità».

211.      Con passi rapidi avanzò verso la folla che andava calmandosi al suo avvicinarsi. Quella donna, gentile e di nobile bellezza, lasciava però trasparire dal suo sguardo una fiamma di profonda indignazione e amarezza. Il suo aspetto severo si rivelava come la presenza di un angelo vendicatore, apparso fra quelle creature umili e ignoranti, al momento giusto.

212.      Avvicinandosi alla croce dove giacevano in mezzo alla confusione i due cadaveri, chiese a Gesù la forza e il coraggio necessari per dominare il nervosismo e l’inquietudine di tutti coloro che la circondavano. Sentì che forze sovrumane s’impadronivano della sua anima in quel preciso momento. Per un istante pensò al marito, alle esigenze sociali, allo scandalo clamoroso di quei fatti, ma il sacrificio e la morte gloriosa di Simeone erano per lei l’esempio più confortante e più santo. Dimenticò tutto per ricordare che Gesù stava al di sopra di tutte le cose transitorie della Terra, come il più alto Simbolo di verità e di amore, per la felicità imperitura di tutta la vita.

213.      Uno dei soldati, dominato dal rispetto e riconoscendo da vicino la persona che vedeva coi suoi occhi, le si avvicinò esclamando col massimo rispetto: «Signora, devo darvi i nostri nomi, affinché possiate servirvi di noi per ciò che riterrete necessario».

214.      «Soldati», esclamò decisa, «non è necessario declinare nomi. Vi ringrazio per la vostra collaborazione spontanea che avrebbe potuto essere, minuti fa, un’incoscienza criminosa; lamento solo che sei uomini, alleati di questa folla, abbiano permesso che si consumasse questo atto di infamia e di suprema viltà che la giustizia divina ha finito col punire davanti ai vostri occhi».

215.      Tutti rimasero in silenzio, come per incanto, nell’udire queste parole decise. La massa popolare possiede queste versatilità misteriose. Basta, a volte, un gesto, perché si lanci negli abissi del delitto e del disordine; una parola sferzante per farla tornare al silenzio e all’equilibrio necessari.

216.      Livia comprese che la situazione era nelle sue mani e, rivolgendosi ai soldati di Sulpicio, disse con coraggio: «Andiamo, ristabiliamo l’ordine, incominciando a ritirare questi cadaveri!»

217.      «Signora», suggerì rispettosamente uno di loro, «ci sentiamo in dovere di inviare un messaggero a Cafarnao, in modo che il signor governatore sia avvisato di questi avvenimenti».

218.      Ma, con la stessa espressione di serenità, ella rispose decisa: «Soldato, io non permetto la ritirata di nessuno di voialtri, finché non avrete dato sepoltura a questi corpi. Se il vostro governatore possiede un cuore di belva, io mi sento ora nel diritto di proteggere la pace di anime ormai più che costituite. Non desidero che si ripeta in questa casa una nuova scena di viltà e di infamia. Se l’autorità, in questo paese, ha toccato la terra delle crudeltà più assurde, preferisco assumere io questa autorità, riscattando un debito del cuore verso i resti di questo venerabile apostolo, assassinato con la collaborazione della vostra criminosa incoscienza».

219.      «Non desiderate consultare le autorità di Sebaste riguardo al caso?» insistette uno di loro timidamente.

220.      «In nessun modo», rispose lei con serena audacia. «Quando il cervello di un governo è avvelenato, il cuore dei governati soffre del medesimo male. Aspetteremmo invano un qualsiasi provvedimento a favore dei più umili e dei più infelici, poiché la Giudea è sotto la tirannia di un uomo crudele e terribile. Almeno oggi voglio affrontare il potere del male, invocando in mio aiuto la misericordia infinita di Gesù».

221.      Rimasero senza parola i soldati romani di fronte al suo atteggiamento sereno e imperturbabile. E obbedendo ai suoi ordini, collocarono le spoglie inerti di Simeone sulla grande tavola rustica delle preghiere di ogni giorno.

222.      Fu allora che gli stessi compagni che avevano rinnegato il vecchio maestro del Vangelo, si avvicinarono al suo cadavere, baciandogli con commozione le mani scarne, pentiti della loro viltà e debolezza, coprendo di fiori le spoglie insanguinate.

223.      Imbruniva, ma i tenui chiarori del crepuscolo nel bel paesaggio della Samaria, non avevano ancora abbandonato del tutto l’orizzonte.

224.      Una forza indescrivibile sembrava proteggere lo spirito di Livia, suggerendole tutti i provvedimenti necessari.

225.      In poco tempo, con lo sforzo erculeo di numerosi samaritani, furono rimosse grosse pietre dal blocco di rocce che proteggeva il rifugio dove si erano nascoste le tre fuggitive, mentre agli ordini di Livia i sei soldati scavarono una sepoltura poco profonda, lontano da quel luogo, per il corpo di Sulpicio.

226.      Brillavano già le prime stelle del firmamento, quando terminarono gli improvvisati dolorosi servizi.

227.      Nel momento di trasportare la salma del vecchio, che Livia aveva personalmente avvolto in un bianco sudario di lino, ella chiese che si pregasse implorando il Signore di ricevere, nel suo regno di luce e di verità, l’anima generosa del suo eroico apostolo.

228.      Si inginocchiò come una figura angelica presso quel banco umile e rustico, dove tante volte si era seduto il servitore di Gesù in mezzo ai suoi olivi frondosi e ben curati. Tutti i presenti, inclusi i soldati, che si sentivano afferrati da un misterioso timore, si prostrarono in ginocchio, seguendo la sua genuflessione, mentre sulla fiamma di alcune torce soffiavano profumate le brezze leggere delle belle notti piene di stelle della Samaria di duemila anni fa.

229.      «Fratelli…», cominciò lei, commossa, assumendo per la prima volta la direzione di una riunione di credenti, «…eleviamo a Gesù il cuore e il pensiero».

230.      Una sensazione più forte sembrò impedirle la voce, inondandole gli occhi di lacrime dolorose. Ma come se forze invisibili e possenti la invadessero, continuò serenamente: «Gesù, dolce e divin Maestro, oggi è stato il giorno glorioso in cui è salito al cielo un valoroso apostolo del tuo regno! ... È stato lui, qui sulla Terra, la nostra protezione, Signore, il nostro rifugio e la nostra speranza! ... Nella sua fede incontrammo la necessaria forza, ed è stato nel suo cuore buono che siamo riusciti a trovare il conforto indispensabile. Ma tu hai giudicato giusto che Simeone dovesse riposare sul tuo petto pieno di amore e di compassione! Come Te, egli ha sofferto i tormenti della croce, dimostrando la stessa fiducia nella Provvidenza divina, nei dolorosi sacrifici della sua amara testimonianza... Ricevilo, Signore, nel tuo regno di pace e di misericordia! Simeone è diventato beato per i suoi dolori, per la sua dignità morale, per le sue angosciose afflizioni sopportate con il coraggio e la fede che tu ci hai insegnato... Proteggilo negli splendori del paradiso con il tuo amore infinito, e fa’ che noi, esiliati nella nostalgia e nell’amarezza, impariamo la lezione luminosa del tuo valoroso apostolo della Samaria! Se un giorno tu dovessi giudicare anche noi, degni del medesimo sacrificio, donaci la forza e l’energia affinché possiamo provare al mondo la meraviglia dei tuoi insegnamenti, aiutandoci a morire con eroismo, per la tua pace e per la tua verità, come il tuo affettuoso missionario a cui abbiamo offerto, in quest’ora, l’omaggio del nostro amore e della nostra gratitudine».

231.      Nel frattempo, nella sua preghiera ci fu una pausa. Poi continuò: «Gesù, a Te che sei venuto a questo mondo soprattutto per i bisognosi di salvezza, risollevando i più malati e i più infelici, ugualmente rivolgiamo la nostra supplica per lo scellerato che non ha esitato a schernire le tue leggi di fraternità e di amore, martirizzando un innocente, e che fu portato via dalla morte per sentenza della tua giustizia. Vogliamo dimenticare la sua infamia, come tu hai perdonato ai tuoi aguzzini dall’alto della croce infame del tuo martirio... Aiutaci, Signore, affinché possiamo comprendere e praticare i tuoi insegnamenti!...»

232.      Commossa, Livia si alzò, scoprì il cadavere dell’apostolo e gli baciò le mani per l’ultima volta, esclamando, emozionata e in lacrime: «Addio, mio maestro, mio protettore e mio amico... Che Gesù riceva il tuo spirito illuminato e giusto nel suo regno di luci immortali, e che la mia povera anima sappia approfittare, in questo mondo, della tua lezione di fede e valoroso eroismo! ...»

233.      Deposto in un sepolcro improvvisato, il corpo inerte di Simeone fu trasportato al suo ultimo riposo. Numerose torce erano state accese per il rito triste e doloroso.

234.      E mentre il cadavere del littore Sulpicio scendeva nell’umida terra, senza altro aiuto all’infuori della collaborazione dei suoi soldati, il nobile vecchio andava a riposare di fronte al suo tempio e alla sua casa tra le brezze affettuose della valle, all’ombra fresca degli olivi che tanto gli erano cari!

235.      Livia accomiatò quindi i soldati del governatore e, protetta da uomini valorosi e devoti, passò il resto della notte in compagnia di Anna e della figlia, in profonde meditazioni e dolorosi dubbi.

236.      All’apparire dell’aurora, lasciarono definitivamente la valle di Sichem, accompagnate da un vicino di Simeone, e s’incamminarono per ritornare a Cafarnao, serbando nel loro animo numerose lezioni valide per tutta una vita.

237.      Ben sapendo che le rappresaglie da parte delle autorità amministrative non si sarebbero fatte attendere, tornarono prendendo strade differenti, costituite da preziose scorciatoie, senza entrare a Naim per cambiare i cavalli. Con alcune ore continue di marcia forzata, arrivarono nella casa tranquilla, dove avrebbero riposato dopo le gravi sofferenze patite.

238.      Livia ricompensò generosamente il suo devoto compagno di viaggio, ritirandosi nei suoi appartamenti, dove collocò su un prezioso piedistallo la piccola croce di legno che le aveva dato l’apostolo poche ore prima del suo cruento martirio.

*

239.      Passarono alcuni giorni da quegli infausti avvenimenti. Ponzio Pilato, informato in tutti i particolari dell’accaduto, si abbandonò, urlando, a un odio selvaggio. Conscio di affrontare nemici poderosi, quali Publio Lentulo e sua moglie, cercò di mettere in moto il meccanismo di sinistre rappresaglie. Si ritirò immediatamente nel suo palazzo di Samaria e fece sì che tutti gli abitanti della regione pagassero a caro prezzo la morte del littore, umiliandoli con misure avvilenti e oppressive. Uccisioni nefande furono effettuate tra gli elementi della pacifica popolazione della valle, propagandosi poi la rete di crimini e crudeltà della sua mente vendicativa e tenebrosa a Sebaste e ad altri centri più importanti.

240.      Fermiamoci intanto a Cafarnao e attendiamo lì l’arrivo di un uomo.

*

241.      Dopo alcuni giorni, infatti, il senatore ritornò dal suo viaggio attraverso la Palestina. Dopo il suo ingresso, Livia lo informò di quanto era successo durante la sua assenza. Publio Lentulo ascoltò il suo resoconto silenziosamente. Man mano che veniva a conoscenza dei fatti, si sentì profondamente preso da indignazione e ribellione contro l’amministratore della Giudea, non solo per la sua scorrettezza politica, ma anche per l’estrema antipatia personale che la sua figura gli ispirava. E decise, di fronte a quei fatti, che non avrebbe esitato un momento per processarlo severamente, come chi giudichi doveroso perseguire il più crudele dei nemici.

242.      Il lettore potrà forse pensare che il cuore dell’orgoglioso romano si sarebbe intenerito e che avrebbe modificato i suoi sentimenti nei riguardi della moglie, della quale presumeva di possedere le prove più flagranti di slealtà e spergiuro nel sacrario della casa e della famiglia. Ma Publio Lentulo era umano, e in questa condizione precaria e miserabile non poteva essere che il frutto del suo tempo, della sua educazione e del suo ambiente.

243.      Nell’ascoltare le ultime parole di sua moglie, pronunciate con tono commosso, come di qualcuno che chieda aiuto e reclami il diritto di esser compreso, replicò austero: «Livia, io mi compiaccio del tuo comportamento e chiedo agli dèi la tua redenzione. I tuoi atti simboleggiano per me la realtà della tua rigenerazione, dopo la clamorosa caduta, vista con i miei occhi. Tu sai che per me la sposa non deve più esistere; tuttavia ho fiducia nella madre dei miei figli, sentendomi confortato perché, se non ti sei svegliata in tempo per essere felice, ti sei svegliata ancora con la possibilità di vivere... Il tuo rifiuto tardivo per quest’uomo crudele mi autorizza a credere nella tua materna dedizione, e questo basta!»

244.      Tali parole, pronunciate in tono di superiorità e con sicurezza, dimostrarono a Livia che la separazione affettiva di entrambi sarebbe continuata nell’ambiente domestico, irrimediabilmente.

245.      Scossa emotivamente dal suo martirio morale, si ritirò in camera sua, dove si prostrò davanti alla croce di Simeone, con l’anima afflitta e triste. Lì meditò sulla sua penosa situazione, ma a un certo momento osservò che al ricordo dell’umile apostolo della Samaria, una luce s’irradiava carezzevole e splendente, e nello stesso tempo una voce dolce e soave mormorava alle sue orecchie:

246.      «Figlia, non aspettarti dalla Terra la felicità che il mondo non ti può dare! Là tutte le cose sono come fuggevoli nebbie che si disfano al calore delle passioni o vanno in pezzi al soffio devastatore delle più sinistre disillusioni! Attendi, invece, il regno della misericordia divina, in quanto nella casa del Signore c’è abbastanza luce perché fioriscano le più sacre speranze del tuo cuore materno! Non aspettarti, quindi, dalla Terra niente più che la corona di spine del sacrificio».

247.      La moglie del senatore non si turbò per il fenomeno. Sapendo, per sentito dire, della resurrezione del Signore, essendo pienamente convinta che si trattasse dell’anima redenta di Simeone, il quale, secondo lei, veniva dalle luci del regno di Dio per confortare il suo cuore.

248.      Per varie settimane, Publio Lentulo ricevette la visita di numerosi samaritani che andavano a chiedergli provvedimenti contro gli abusi di Ponzio Pilato, ancora installato nel suo palazzo di Samaria, dove raramente si fermava, ordinando l’assassinio o la schiavitù di molti cittadini, in segno di vendetta per la morte di colui che considerava il miglior elemento della sua casa.

249.      Dopo un certo tempo ritornò Comenio dal suo viaggio a Roma, con il professore adatto alla piccola Flavia. Oltre a questo illustre precettore, che Flaminio Severo gli mandava con affettuosa sollecitudine, gli giunsero anche nuove notizie, che il senatore considerava confortanti. In virtù di una sua richiesta, le alte autorità dell’Impero avevano deciso il ritorno del pretore Salvio Lentulo, con la famiglia, presso la sede del governo imperiale. L’amico gli chiedeva, in particolare, l’invio di informazioni sull’amministrazione di Pilato nella Giudea, affinché il senato prendesse iniziative per la sua rimozione.

250.      In seguito a queste circostanze, dopo poco tempo Comenio tornò a Roma, portando a Flaminio un voluminoso fascicolo processuale che riferiva di tutte le crudeltà praticate da Pilato tra i samaritani. A causa delle grandi distanze, il fascicolo processuale circolò per molto tempo negli uffici amministrativi, finché nell’anno 35 il Procuratore della Giudea fu richiamato a Roma, dove fu destituito da tutte le funzioni che aveva esercitato nel governo imperiale. Esiliato a Vienna, nelle Gallie, si suicidò dopo circa tre anni, roso dai rimorsi, dalle privazioni e dai dispiaceri.

251.      Publio Lentulo rimase con le sue speranze di padre nella stessa casa della Galilea, dedicandosi quasi esclusivamente ai suoi studi, ai suoi processi amministrativi e all’educazione della figlia che molto presto, aveva manifestato inclinazioni letterarie affiancate da apprezzabili doti di intelligenza.

252.      Livia mantenne Anna sotto la sua tutela, e tutt’e due continuarono a pregare davanti alla croce che le aveva donato Simeone nel momento estremo, chiedendo a Gesù la forza necessaria per le penose lotte della vita.

253.      Inutilmente la famiglia Lentulo sperò che il destino le portasse di nuovo l’incantevole sorriso del piccolo Marco. E mentre il senatore e la figlia si preparavano per il mondo, a fianco di Livia e Anna che coltivavano le loro speranze riposte nel Cielo, lasciamo che passino più di dieci anni sulla dolorosa serenità della villa di Cafarnao, più di dieci anni che passarono lenti, silenziosi e tristi.

 

 

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Seconda parte

 

 

 

Cap. XI

LA MORTE DI FLAMINIO

 

1.                Tranquillo scorreva l’anno 46. A Cafarnao incontriamo di nuovo gli stessi personaggi, i quali vivono una vita relativamente serena.

2.                Le autorità amministrative, a Roma, non erano però le stesse. Tuttavia, favorito dal prestigio del suo nome e dalle considerevoli influenze politiche di Flaminio Severo davanti al Senato, Publio Lentulo continuava a rimanere incaricato in Palestina, dove godeva di tutti i diritti e i privilegi politici nell’amministrazione provinciale.

3.                Inutilmente aveva continuato a rimanere lì il senatore, nonostante il suo immenso desiderio di tornare nella sede del governo imperiale, aspettando l’occasione di riavere il figlio, che il tempo continuava a trattenere nel regno delle ombre misteriose. Negli ultimi anni aveva perso completamente la speranza che il suo desiderio si realizzasse, anche perché, pensava, a quel tempo Marco Lentulo avrebbe dovuto essere già adolescente, diventando perciò irriconoscibile agli occhi paterni.

4.                Altre volte, l’orgoglioso patrizio pensava che il figlio non fosse più vivo; che certamente le forze perverse e criminali che lo avevano rapito dalla casa, avessero ugualmente fatto sparire il dolce bambino sotto la falce della morte, temendo un’inesorabile punizione. Là dentro, però, nel profondo dell’anima, si annidava il presentimento che Marco fosse ancora vivo, ragion per cui, tra le indecisioni e le alternative di ogni giorno, aveva risolto di ascoltare prima di tutto la voce del dovere paterno, facendo di tutto per trovarlo, rimanendo lì indefinitamente contro tutti i suoi progetti più ambiziosi e più sinceri.

5.                In quel tempo lo incontriamo con i tratti solo leggermente alterati, nonostante tredici anni si fossero dipanati sui dolorosi avvenimenti dell’anno 33. I suoi capelli mantenevano ancora integralmente il loro colore naturale, e solo qualche ruga, quasi impercettibile, era arrivata ad accentuare la profonda austerità del suo volto. Una tristezza serena, che gli aleggiava invariabilmente sul viso, lo costringeva a isolarsi quasi completamente dalla vita comune, per sprofondare solamente nell’oceano dei suoi scritti e dei suoi studi. L’unica preoccupazione, quella di maggior importanza, era l’educazione della figlia, che si sforza­va di dotare delle migliori qualità d’intelletto e di sentimento. La sua vita in casa continuava a essere sempre la stessa, nonostante il cuore, molte volte, gli suggerisse di riannodare il legame coniugale, pensando a quei tredici anni di separazione intima, con la più assoluta rinuncia da parte di Livia a ogni e qualsiasi impegno che non fosse quello della vita domestica e della sua fede fervida e sincera. Solo, con le sue meditazioni, Publio Lentulo lasciava vagare la mente nei suoi ricordi più dolci e più lontani, e in quei momenti di introspezione, sentiva la voce della coscienza che saliva dal cuore al cervello, come un appello alla sua inflessibile ragione, cercando di eliminarne i preconcetti; ma l’orgoglio vinceva sempre nella sua irriducibile rigidità. Qualcosa gli diceva nel suo intimo che la moglie era esente da ogni colpa, ma il suo spirito orgoglioso gli faceva vedere, immediatamente, la scena indimenticabile della sua sposa che usciva dallo studio privato di Pilato, travestita, e sentiva ancora le parole maligne di Fulvia Procula, con le sue calunnie misteriose e infauste...

6.                Livia si era isolata, avvolta in un velo di triste rassegnazione, come chi aspetta le provvidenze soprannaturali che nell’inquieto periodo di un’esistenza umana non sopraggiungono mai. Lo sposo la manteneva vicino alla figlia, considerandola solo nella sua condizione di madre, non permettendole però, in nessun modo, di interferire nei suoi piani e nei compiti educativi.

7.                Per Livia quello era stato un duro colpo, la sofferenza peggiore della sua vita. La calunnia stessa non le faceva altrettanto male, ma il riconoscersi non indispensabile per la figlia che tanto amava, costituiva ai suoi occhi la più dolorosa umiliazione della sua vita. Era per questo motivo che sempre più si attaccava alla fede, cercando di arricchire l’anima sofferente con la luce della sua credenza fervida e sincera.

8.                Lungi dall’aver conservato le energie fisiche, come invece era successo al marito, il suo viso dimostrava le ingiurie del tempo con il suo pesante fardello di patimenti e amarezze. Sul suo capo, che i dolori avevano santificato, apparivano già alcuni fili argentei, mentre gli occhi profondi si erano arricchiti di un brillio misterioso, come se il proprio fulgore fosse stato intensificato dal loro continuo fissarsi nell’infinito dei cieli. I suoi lineamenti, nonostante mostrassero una precoce vecchiaia, rivelavano tuttavia ancora l’antica bellezza, trasformata ora in un’indefinibile e nobile espressione di martirio e di virtù. Un’unica richiesta aveva rivolto al marito, quando, nella sua casa, si vide allontanata dai suoi affetti più cari, lontana da ogni contatto spirituale con la figlia, circostanza questa che ancora di più le affliggeva il cuore già amareggiato. Gli chiedeva solo che le permettesse di continuare nelle sue pratiche cristiane in compagnia di Anna, che tanto le si era affezionata, con quello spirito di dedizione che le conosciamo, al punto da rifiutare le opportunità che le si erano presentate per costituire una famiglia. Il senatore le aveva dato ampia libertà in tal senso, arrivando a darle mezzi finanziari per aiutare i numerosi missionari della nuova dottrina che la cercavano, con discrezione, per appoggiarsi alle sue possibilità materiali per nuove iniziative.

*

9.                Non ci rimane ora che presentare Flavia Lentulo a quelli che l’hanno vista nell’infanzia, malata e timida.

10.           Nello splendore dei suoi ventidue anni, lei era il frutto dell’educazione che il padre le aveva dato, unita alla forte espressione personale del suo carattere e della sua formazione spirituale.

11.           La figlia del senatore, era, da Livia per l’incantevole grazia delle sue doti fisiche, e da Publio Lentulo per il suo cuore. Educata da eminenti professori che si succedettero nel corso degli anni, su scelta dei Severo, che mai si erano dimenticati dei loro amici lontani, ella conosceva la lingua patria perfettamente, usava il greco con la stessa facilità, mantenendosi in contatto con gli autori più famosi, in virtù del suo costante legame intellettuale con il padre.

12.           L’educazione intellettuale di una giovane romana, a quell’epoca, era senza dubbio considerata elemento secondario e perciò carente. Gli eccitanti spettacoli degli anfiteatri e, più ancora, la mancanza di un’occupazione seria per le donne del tempo, a causa del costante aumento del mercato degli schiavi avevano pregiudicato sensibilmente la cultura della donna romana nell’epoca più ricca dell’Impero, quando lo spirito femminile si muoveva terra terra tra gli scandali, la depravazione morale e la vita dissoluta.

13.           Il senatore, però, reputava di essere un uomo all’antica. Non aveva perso di vista le sublimi ed eroiche virtù delle indimenticabili matrone e delle sue tradizioni familiari. Fu per questo che, fuggendo dai costumi dell’epoca, cercò di preparare la figlia alla vita sociale con una cultura il più possibile raffinata, mentre le colmava ugualmente il cuore di orgoglio e vanità, con tutti i preconcetti del suo tempo.

14.           La giovane amava la madre con grande tenerezza, ma di fronte agli ordini del padre, che la teneva sempre vicino a sé, nelle sue sale di studio e nei piccoli viaggi di routine, non faceva mistero della sua predilezione per lo spirito paterno, dal quale pensava di avere ereditato le qualità più brillanti e più nobili, senza riuscire a comprendere la dolce umiltà e la rassegnazione eroica della madre, tanto degna e tanto sfortunata.

15.           Il senatore aveva cercato di sviluppare in lei le tendenze letterarie, favorendone le migliori acquisizioni di ordine intellettuale, ammirando la sua facilità d’espressione, principalmente nell’arte poetica, tanto esaltata in quell’epoca.

16.           Il tempo passava con relativa calma per tutti i cuori. Di quando in quando si parlava della possibilità di tornare a Roma, piano questo la cui realizzazione era sempre rimandata, a causa della speranza di ritrovare lo scomparso.

17.           Un soave giorno del mese di marzo, quando gli alberi frondosi si coprivano di fiori, incontriamo nella casa del senatore un messaggero che giungeva da Roma in tutta fretta. Si trattava di un messaggero di Flaminio Severo che, in una lunga lettera, comunicava all’amico il suo precario stato di salute, aggiungendo che desiderava riabbracciarlo prima di morire. Commoventi appelli erano espressi in questo documento privato, provocando nell’animo di Publio le più serie riflessioni. Tuttavia la lettura di una lettera firmata da Calpurnia, arrivata separatamente, fu decisiva. In questo sfogo, la venerabile signora lo informava dello stato di salute del marito che, a suo vedere, era infinitamente precario, accrescendo così i penosi dissapori e le angosciose preoccupazioni che lei e il marito provavano a causa dei figli, i quali, nel fiore della giovinezza, si davano alle più grandi dissipazioni, seguendo la corrente delle trasgressioni sociali dell’epoca. La commovente lettera terminava chiedendo all’amico di tornare, per assisterli in quel momento difficile, affinché la sua amicizia e un paterno interessamento potessero rappresentare un freno moderatore accanto a Plinio e ad Agrippa che, uomini fatti, si lasciavano trascinare nel vortice dei piaceri più nefasti.

18.           Publio Lentulo non esitò un istante.

19.           Mostrò alla figlia le lettere ricevute e, dopo aver esaminato insieme a lei i particolari del loro contenuto, comunicò a Livia la sua decisione di tornare a Roma alla prima occasione.

20.           La nobile signora considerò, allora, quanto diversa sarebbe stata per lei la vita nella grande città dei Cesari, con le idee che ora possedeva, e chiese a Gesù che non le venisse meno il coraggio necessario per superare tutti i conflitti che avrebbe dovuto sostenere nella società romana, per conservare intatta la sua fede.

21.           Il ritorno a Roma non subì particolari rallentamenti. Il messaggero stesso portò gli ordini del senatore ai suoi amici nella capitale dell’Impero e, di lì a poco, una galea li aspettava in Cesarea, per ricondurre la famiglia Lentulo, dopo una permanenza di quindici anni in Palestina.

22.           Non è necessario parlare dei piccoli incidenti del ritorno, poiché nota è la rozzezza dei viaggi antichi, con la loro monotonia, le esitanti previsioni e il doloroso spettacolo del martirio degli schiavi.

23.           Dobbiamo tuttavia aggiungere che alcuni giorni prima dell’arrivo, il senatore chiamò la figlia e la moglie, dicendo loro in tono assai circospetto: «Prima di arrivare al porto, è necessario che vi spieghi la mia decisione riguardo al nostro povero Marco. Da molti anni osservo il più assoluto riserbo con i miei amici di Roma e non voglio essere considerato un cattivo padre nel nostro ambiente sociale. Solamente una circostanza come quella che ci ha imposto questo viaggio mi ha indotto a ritornare, poiché non si giustifica che un padre abbandoni il figlio in simili regioni, anche se torturato dal dubbio che il figlio sia ancora vivo. Così, ho deciso di comunicare a quanti me lo chiedessero, che il figlio è morto da più di dieci anni, come infatti deve essere per noi, vista anche l’impossibilità di riconoscerlo nel caso di una sua ricomparsa. Se si sapesse delle nostre amarezze, non mancherebbero imbroglioni che cercherebbero di ingannare la nostra buona fede, sfruttando il sentimentalismo familiare».

24.           Le due donne accettarono la decisione che anche a loro parve la migliore, e poco dopo si profilò alla loro vista il porto di Ostia, ora molto ben organizzato, grazie alle iniziative dell’imperatore Claudio, il quale aveva ordinato che fossero eseguiti lì dei lavori importanti e grandiosi.

25.           Tuttavia, in quel momento non si vide la gioia, propria di tali circostanze. La partenza, quindici anni prima, era stata un cantico di speranza nelle dolci aspettative del futuro, ma il ritorno era pieno dell’amaro silenzio delle più penose realtà.

26.           Oltre a dover subire la delusione della loro vita coniugale, Publio e Livia non vedevano lì, fra i molti amici che li aspettavano, le figure di Flaminio e Calpurnia, che essi consideravano come fratelli molto cari. Ciononostante, due simpatici e aitanti giovanotti, dai modi disinvolti, nelle loro toghe perfette, si diressero verso di loro immediatamente su confortevoli imbarcazioni, non appena la nave fu ancorata. Subito il senatore e la sposa, commossi, riconobbero questi giovanotti, e affettuosamente li abbracciarono.

27.           Si trattava di Plinio e di suo fratello, ai quali i genitori avevano assegnato l’incarico di andare a ricevere i cari amici lontani da tempo. Presentati a Flavia, tutti e due ebbero un gesto istintivo di ammirazione, ricordando il giorno della partenza, quando l’avevano sistemata nella cabina, fra i suoi lamenti e smorfie di bambina malata.

28.           Anche la giovane rimase impressionata dai due giovani, dei quali possedeva una vaga memoria fra i remoti ricordi della sua infanzia. Principalmente Plinio Severo, il più giovane, l’aveva colpita profondamente, con i suoi ventisei anni compiuti e con lo stesso portamento elegante e distinto con cui lei aveva idealizzato l’eroe nel suo immaginario femminile.

29.           Ugualmente, si notava attraverso lo sguardo, che il giovane non era rimasto indifferente a quelle stesse emozioni, perché, scambiate le prime notizie sul viaggio e discusso sullo stato di salute di Flaminio Severo, giudicato dai figli molto grave, Plinio offrì il braccio alla giovane, mentre Agrippa lo osservava con un lieve accenno di gelosia: «Ma che fai, Plinio? Flavia può sentirsi infastidita dalla tua eccessiva confidenza!»

30.           «Via, Agrippa, tu sei troppo legato ai formalismi della vita pubblica», rispose Plinio con un franco sorriso. «Flavia non può stupirsi dei nostri costumi nella sua condizione di patrizia per nascita, e per di più, io non sono nato per le discipline dello Stato, che tanto piacciono a te».

31.           A queste parole, dette con visibile allegria, Publio Lentulo, confortato dal fatto di trovarsi nell’ambiente a lui caro, aggiunse: «Andiamo, figli miei!», e dando egli il braccio alla sposa, per rappresentare la commedia della sua felicità coniugale nella vita comune della grande città, seguito da Plinio che proteggeva la giovane al suo braccio forte e conquistatore di cuori, sbarcarono insieme ad Agrippa. Poi, per riposare un poco prima di proseguire direttamente per Roma, a questo proposito avevano provveduto completamente i due fratelli Severo con il massimo affetto e spontanea devozione.

32.           Livia non si era dimenticata di Anna, provvedendo al suo benessere e a quello di tutti gli altri servi della casa, durante tutto il percorso che li separava dalla loro residenza.

33.           Andando verso la città, il senatore pensava frattanto che, finalmente, avrebbe rivisto l’amico tanto caro. Da tanti anni accarezzava l’idea di confessargli, a viva voce, tutti i dispiaceri della sua vita coniugale, esponendogli con franchezza e sincerità le sue preoccupazioni circa i fatti che lo separavano dalla moglie, nell’intimità della casa. Aveva bisogno delle sue parole affettuose e delle sue spiegazioni consolatrici, perché sentiva che amava quella donna al di sopra di tutto, nonostante i tanti dispiaceri provati. Non credendo sinceramente nel suo errore, solo il suo orgoglio di uomo lo tratteneva da una riconciliazione che ogni giorno diventava più imperiosa e necessaria.

34.           Dopo poco erano davanti alla loro residenza, elegantemente addobbata per riceverli. Numerosi i servi che si mobilitarono, mentre essi, appena arrivati, passavano in ricognizione i luoghi più intimi e più familiari.

35.           Da quindici anni il palazzo sull’Aventino aspettava i padroni, sotto le attenzioni e le cure di schiavi degni e devoti.

36.           Subito fu servito un pasto frugale nel triclinio, mentre i fratelli Severo partecipavano a questo leggero banchetto, per aspettare i loro amici e proseguire tutti insieme verso la casa di Flaminio, dove l’infermo li aspettava ansiosamente.

37.           Plinio, a un certo punto, come chi abbia da dare a proposito una notizia interessante e gradevole, esclamò rivolgendosi al senatore: «Già da tempo abbiamo conosciuto vostro zio Salvio Lentulo e la sua famiglia, che abitano vicino al Foro».

38.           «Mio zio?» domandò Publio, impressionato, come se il ricordo di Fulvia gli portasse nell’intimo una moltitudine di fantasmi. Ma nello stesso tempo, come se stesse facendo il possibile per far tacere i propri dispiaceri, aggiunse con apparente serenità: «Ah! È vero, sono più di dodici anni che è ritornato dalla Palestina...»

39.           Fu in quel momento che Agrippa intervenne, come per vendicarsi dell’atteggiamento tenuto dal fratello quando non erano ancora sbarcati, esclamando di proposito: «E guarda caso, pare proprio che Plinio sia propenso a sposarne la figlia, di nome Aurelia, con la quale intrattiene splendidi rapporti sentimentali da molto tempo».

40.           Nell’udire queste parole, Flavia Lentulo fissò Plinio, come se fra il suo cuore e quello del figlio più giovane di Flaminio già esistessero i più forti legami di obblighi sentimentali, all’interno delle misteriose leggi delle affinità psichiche.

41.           Mentre si verificava questo duello di emozioni, Plinio fissò il fratello quasi con odio, la qual cosa faceva capire l’impulsività del suo carattere, rispondendo con enfasi, come a difendersi da un’accusa ingiustificabile, davanti alla donna da lui preferita: «Anche questa volta t’inganni, Agrippa. I miei rapporti con Aurelia non hanno altro fondamento se non quello della pura e reciproca amicizia, anche perché considero molto remota qualsiasi possibilità di matrimonio, nella fase attuale della mia vita».

42.           Agrippa fece un sorriso ironico, mentre il senatore, comprendendo la situazione, cercava di calmare gli animi, esclamando con bontà: «Va bene, ragazzi, dopo parleremo di mio zio. Mi sento ansioso di abbracciare il caro infermo e non abbiamo tempo da perdere».

43.           In pochi minuti, un gruppo di lettighe si dirigeva verso la nobile residenza dei Severo, dove Flaminio aspettava l’amico con ansia.

44.           La sua fisionomia non mostrava più la mobilità di un tempo e l’affascinante espressione di energia che la caratterizzava, ma in compenso, una grande calma si irradiava dai suoi occhi, il che colpiva tutti coloro che andavano a visitarlo nei suoi ultimi giorni di lotte terrene. L’espressione del volto era quella di un lottatore vinto e abbattuto, esausto di lottare contro le forze misteriose della morte. I medici non avevano la benché minima speranza di guarigione, considerando il profondo abbattimento fisico, unito a un gravissimo squilibrio del sistema cardiaco. Le più piccole emozioni causavano alterazioni nel suo stato, provocando profondissime apprensioni nella famiglia.

45.           Di quando in quando, gli occhi sereni e tranquilli si fissavano a lungo sulla porta d’entrata come se aspettasse qualcuno col massimo interesse, fino a quando rumori più forti, che venivano dal vestibolo, annunziarono al suo cuore che stava per terminare un’assenza di quindici anni consecutivi tra lui e gli amici rimasti sempre nel suo cuore.

46.           Calpurnia, anch’essa molto abbattuta, abbracciò Livia e Publio, sciogliendosi in lacrime e stringendo Flavia nelle sue braccia, come se accogliesse una figlia.

47.           Lì, proprio nel vestibolo, si scambiarono le loro impressioni e parlarono delle loro profonde nostalgie, fino a che Publio decise di lasciare le due amiche alle loro sincere effusioni affettive e si diresse con Agrippa in una delle camere adiacenti il salone, dove abbracciò il grande amico, versando lacrime di gioia.

48.           Flaminio Severo era magrissimo, e le sue parole, a volte, erano interrotte da un affanno impressionante che faceva presagire che molto poco tempo gli restava da vivere. Sapendo della soddisfazione del padre in intima compagnia del leale amico, Agrippa uscì dalla grande camera, dove le ombre del crepuscolo cominciavano a penetrare in modo fantasioso, come se si insinuassero nel silenzio sacro delle navate di un tempio.

49.           Publio Lentulo s’impressionò incontrando il vecchio amico ridotto in tale stato. Mai avrebbe creduto di rivederlo così sfinito. Ora si rendeva conto che a lui spettava aiutarlo con i suoi consigli, risollevandogli le forze fisiche e spirituali, con esortazioni amichevoli e affettuose. Una volta soli, contemplò l’amico e maestro, come se stesse esaminando un bambino infermo.

50.           Flaminio, a sua volta, lo fissò dritto negli occhi e, piangendo, gli prese le mani nelle sue, facendogli capire che in quel momento riceveva un figlio molto caro. Con un gesto lento e delicato, cercò di sedersi più comodamente e, appoggiandosi alle spalle di Lentulo, commosso, mormorò al suo orecchio: «Publio, qui ormai non ti riceve il compagno energico e deciso d’altri tempi. Sento che ti aspettavo solo per poter consegnare l’anima agli dèi tranquillamente, giudicando ormai compiuta la missione che dovevo svolgere sulla Terra, con la mia retta coscienza e i miei onesti pensieri. Da più di un anno prevedo l’istante irrimediabile e fatale e, ora, soddisfatto il mio ardente desiderio, sento che sta per avvicinarsi con la velocità del lampo. Perciò, non volevo partire senza stringerti tra le mie braccia, facendoti le ultime confidenze su questo letto di morte...»

51.           «Ma, Flaminio», gli rispose l’amico con dolorosa serenità, «tutto mi autorizza a credere in un tuo immediato miglioramento, e tutti noi aspettiamo la benedizione degli dèi, in modo da poter contare sulla tua indispensabile compagnia, per molto tempo ancora, in questo mondo».

52.           «No, mio buon amico, non t’illudere con queste supposizioni e questi pensieri. La nostra anima non s’inganna mai quando si avvicina alle ombre del sepolcro... Non aspetterò ancora molto per penetrare il mistero della grande notte, ma credo ferma­mente che gli dèi mi riceveranno con le luci delle loro aurore!...»

53.           E, lasciando vagare lo sguardo profondo e sereno per la stanza, come se le pareti di marmo si dilatassero all’infinito, Flaminio Severo si concentrò per un istante in meditazioni intime, continuando a parlare come se volesse imprimere alla conversazione una nuova direzione: «Ti ricordi di quella notte in cui mi confidasti i particolari di un sogno misterioso, nel pieno della tua più dolorosa commozione?»

54.           «Oh! Se me ne ricordo!» rispose Publio Lentulo, rammentando in modo inspiegabile non solo la conversazione passata che lo fece decidere per il viaggio in Palestina, ma anche l’altro sogno in cui era stato testimone degli stessi incomprensibili fenomeni, nella notte del suo incontro con Gesù di Nazareth. Nel ricordare quella personalità meravigliosa, il suo cuore tremò, ma fece di tutto per evitare all’amico un’impressione troppo forte e dolorosa, aggiungendo con apparente serenità: «Ma perché la tua domanda, se oggi sono più che convinto, d’accordo con te, che tutto ciò non era altro che una fantasia senza importanza?»

55.           «Fantasia?» replicò Flaminio come se avesse scoperto una nuova formula della verità. «Ormai ho modificato completamente le mie idee. La malattia ha anch’essa i suoi benefici belli e grandiosi. Confinato a letto per molti mesi, mi abituai ad invocare la protezione di Temis, in modo da non arrivare a vedere, nelle mie sofferenze, niente più che il risultato penoso dei miei stessi meriti, davanti all’incorruttibile giustizia degli dèi, fino a che una notte ebbi impressioni uguali alle tue.

56.           Non ricordo di aver serbato alcuna preoccupazione per il tuo racconto, ma è certo che, circa due mesi fa, mi sentii trasportato in sogno alla stessa epoca della rivolta di Catilina e notai la veridicità di tutti i fatti che mi raccontasti sedici anni fa, arrivando a vedere il tuo antenato Publio Lentulo Sura, che era come fosse il tuo ritratto, tale la sua profonda somiglianza con te, particolarmente ora che ti trovi, con i tuoi quarantaquattro anni, in pieno fissaggio dei tratti fisionomici.

57.           Interessante è il fatto che mi trovassi al tuo fianco e camminassi con te sulla stessa strada di clamorose iniquità. Ricordo di aver visto te e me nell’atto di firmare sentenze inique e impietose, determinando il supplizio di molti dei nostri simili... Tuttavia, quello che più mi tormentava era osservare la tua terribile propensione a decretare l’accecamento di molti dei nostri avversari politici, assistendo personalmente allo svolgersi dei supplizi col ferro infuocato, bruciando molte pupille per sempre, tra le grida dolorose delle vittime indifese!...»

58.           Publio Lentulo sgranò gli occhi per la sorpresa, partecipando ugualmente a quei ricordi che dormivano nel fondo della sua anima rattristata, e alla fine rispose: «Mio buon amico, tranquillizza il tuo cuore... Simili impressioni sembrano essere i riflessi di qualche emozione più forte che sarebbe rimasta nel più profondo della tua memoria, in seguito ai miei racconti di quella notte, tanti anni fa...»

59.           Flaminio Severo abbozzò un lieve sorriso come chi comprende l’intenzione generosa e consolatrice, e replicò con serena bontà: «Debbo dirti, Publio, che queste immagini non mi tormentano, e ti parlo di queste emozioni solo perché ho la certezza che devo partire da questa vita e che tu rimarrai ancora, forse per molto tempo, su questa Terra. È possibile che i ricordi del tuo spirito affiorino nuovamente e, allora, voglio che tu accetti la verità religiosa dei greci e degli egizi. Credo, ora, che abbiamo numerose vite attraverso corpi differenti. Sento che il mio povero organismo è sul punto di decomporsi; ma il mio pensiero è vivo come non mai, e solo in tali circostanze credo di capire il grande mistero delle nostre esistenze. Mi dispiace profondamente di aver praticato il male nel tenebroso passato, nonostante sia trascorso più di un secolo sui tristi avvenimenti delle nostre visioni spirituali; tuttavia, qui mi trovo davanti agli dèi con la coscienza tranquilla».

60.           Publio l’ascoltava attentamente, fra rattristato e commosso. Cercò di rivolgergli parole di conforto, ma la voce sembrava morirgli nella gola, impedita dalle emozioni di quel doloroso momento.

61.           Invece Flaminio lo strinse contro il suo petto con gli occhi pieni di lacrime, mormorandogli all’orecchio: «Amico mio, non aver dubbi sulle mie parole... Voglio credere che queste siano le mie ultime ore... Nel mio studio ci sono tutti i tuoi documenti e la relazione di tutti gli affari di ordine materiale che ho fatto a tuo nome durante la tua assenza, e anche quelli che riguardano i nostri problemi politici e finanziari. Non incontrerai difficoltà a catalogare convenientemente tutti i fogli a cui mi riferisco...»

62.           «Ma, Flaminio», lo interruppe Publio con energica serenità, «credo che avremo molto tempo per occuparci di queste cose».

63.           In quel momento, Livia e la figlia, Calpurnia e i ragazzi si riunirono intorno all’illustre infermo, offrendogli un sorriso amico e parole di conforto.

64.           Il malato ebbe espressioni di coraggio e di gioia per ciascuno di loro, osservando l’abbattimento di Livia ed esaltando la bellezza straordinaria di Flavia, con parole tenere e calorose.

65.           Rimasti nuovamente soli, il generoso senatore che, tra i lini candidi del letto, appariva trasfigurato dalla sofferenza, esclamò con bontà: «Ecco, amico mio, le allegre farfalle dell’amore e della gioventù, che il tempo fa scomparire rapidamente nel suo vortice di empietà...», e abbassando la voce come se volesse trasmettere all’amico una delicata confidenza dell’anima, continuò parlando lentamente: «Porto con me, nella tomba, molte preoccupazioni riguardo ai miei poveri figli. Ho dato loro tutto quello che mi era possibile in materia di educazione e, nonostante riconosca che tutti e due hanno sentimenti generosi e sinceri, noto che i loro cuori sono vittime delle penose mutazioni dei tempi che attraversano, tempi nei quali osserviamo con dolore il più avvilente degrado della dignità del focolare e della famiglia.

66.           Agrippa fa il possibile per adeguarsi ai miei consigli, dedicandosi agli affari di Stato; ma Plinio ha avuto la sfortuna di lasciarsi irretire da amici perfidi e sleali che non desiderano altro che la sua rovina, e lo trascinano verso i vizi peggiori negli ambienti sospetti delle nostre più alte classi sociali, facendo so­prattutto leva sul suo spirito di avventura. Tutti e due mi danno i più grandi dispiaceri con il loro modo di agire, che dimostra come posseggano un ridotto spirito di responsabilità individuale. Hanno dissipato gran parte della nostra fortuna e non so quale sarà il futuro della mia povera Calpurnia, se gli dèi non mi faranno la grazia di venire a prenderla, tra breve, nell’esilio della sua nostalgia e della sua amarezza, …dopo la mia morte!»

67.           «Ma, a me sembrano ragazzi degni del padre, che gli dèi hanno dato loro, con quella loro gentilezza generosa e con la cortesia dei loro modi». rispose con calore l’amico.

68.           «In ogni caso, amico mio, non puoi dimenticare che la tua assenza da Roma è stata molto lunga e che molte novità si sono verificate in questo periodo. Sembra che ci stiamo incamminando impetuosamente verso un abisso di assoluta decadenza dei costumi familiari, essendo i nostri sistemi educativi completamente precipitati, a mio giudizio, in un doloroso fallimento! ...»

69.           E, come se desiderasse portare nuovamente la conversazione su argomenti di ordine attuale della vita pratica, aggiunse: «Ora che vedo tua figlia, splendente di giovinezza ed energia, rinnovo intimamente i miei antichi progetti di entrare a far parte della nostra famiglia. Sempre fu mio desiderio che Plinio si sposasse con lei, ma il mio figlio minore sembra propendere per un legame con la figlia di Salvio, nonostante l’opposizione di Calpurnia a questo progetto; non per tuo zio, sempre degno e rispettabile ai nostri occhi, ma per sua moglie che non sembra disposta ad abbandonare le antiche idee e le iniziative del passato. Devo però considerare che mi resta ancora Agrippa, per concretizzare le mie future speranze. Un giorno, se potrai, non dimenticare questa mia raccomandazione in extremis».

70.           «Va bene, Flaminio, ma non affaticarti. Diamo tempo al tempo, poiché non mancherà occasione per discutere sull’argomento», replicò Publio Lentulo, commosso.

71.           In quel momento Agrippa entrò in camera e si rivolse al padre affettuosamente: «Padre mio, il messaggero inviato a Marsiglia è arrivato ora, portando le informazioni richieste su Saul».

72.           «E lui non ci manda a dire nulla circa la sua venuta?» domandò l’infermo con vivo interesse.

73.           «No! Il messaggero ci comunica soltanto che Saul è partito alla volta della Palestina, dopo aver raggiunto il consolidamento della sua fortuna con gli ultimi guadagni commerciali, aggiungendo di aver deciso di andare in Giudea per rivedere il padre che vive nei dintorni di Gerusalemme».

74.           «E va bene», disse l’infermo, rassegnato, «e visto come stanno le cose, ricompensa il messaggero e non preoccuparti più dei desideri che ho espresso in precedenza».

75.           Nell’ascoltarli, Publio mise in azione il suo cervello per cercare di ricordare qualcosa che, al momento, non poteva definire con precisione. Il nome Saul non gli era estraneo. Con il particolare che la residenza del padre di questi si trovasse nei dintorni di Gerusalemme, si ricordò finalmente delle persone di sua antica memoria, con precisione assoluta. Si ricordò dell’incidente in cui fu obbligato a punire un giovane giudeo con questo nome, nei dintorni della città, mandandolo alle galee per scontare la pena del suo atto irresponsabile, e ricordò anche il momento in cui un agricoltore israelita era andato a chiedere la libertà del prigioniero, dicendo che era suo figlio. Sentendo un’ansia indefinita nel cuore, esclamò intenzionalmente: «Saul? Ma non è un nome tipico della Giudea?»

76.           «Sì», rispose Flaminio, tranquillo. «Si tratta di uno schiavo reso libero nella mia casa. Era un prigioniero giudeo, ancora giovane, comprato da Valerio, al mercato, per le bighe dei bambini al prezzo irrisorio di quattromila sesterzi. Egli riuscì tanto bene nei lavori che gli erano affidati che, dopo aver riportato vari premi, con le sue prodezze nel campo di Marte destinati ai miei figli, decisi di concedergli la libertà, dotandolo dei mezzi necessari per vivere e per iniziare qualche attività per conto proprio. E sembra che la mano degli dèi lo abbia protetto nel momento giusto, perché Saul è oggi padrone di una solida fortuna, quale risultato del suo impegno e del suo lavoro».

77.           Publio Lentulo tacque, intimamente sollevato, poiché il suo prigioniero, secondo notizie ricevute dagli agenti del governo provinciale, era evaso nascondendosi nella casa paterna, sfuggendo così all’umiliante schiavitù.

*

78.           Le ore della notte erano ormai già inoltrate. Solo allora sovvenne al visitatore ch’egli sperava di potersi incontrare con Flaminio per una conversazione seria e lunga riguardo a molti argomenti, come per esempio, quello della sua penosa situazione coniugale, della scomparsa misteriosa del figlio, del suo incontro con Gesù di Nazareth. Ma capiva che Flaminio era esausto, e che era perciò giusto e necessario rimandare ad altra occasione le sue confidenze tristi e amare.

79.           Fu così che uscì dalla camera per aspettare il giorno seguente, pieno di speranze tranquillizzanti.

80.           I due amici si scambiarono un lungo e significativo sguardo al momento di quei commiati, che ora apparivano abituali, come l’affettuoso saluto quotidiano d’altri tempi. Esortazioni di conforto e promesse amichevoli furono scambiate tra espressioni di fraternità e affetto, prima che Calpurnia accompagnasse gli ospiti nel vestibolo, con la sua generosa e ospitale bontà.

81.           Tuttavia, nelle prime ore del mattino seguente, un messaggero si fermò trafelato alla porta del palazzo dei Lentulo, con una notizia allarmante e dolorosa. Flaminio Severo era peggiorato improvvisamente, senza che i medici dessero ai familiari la benché minima speranza. Tutti i supposti miglioramenti erano scomparsi. Una forza inspiegabile gli aveva squilibrato l’armonia organica, senza che medicina alcuna arrestasse la crisi che lo aveva colto.

82.           Dopo poche ore, Publio Lentulo e i suoi si trovavano di nuovo nell’accogliente casa degli amici.

83.           Mentre lui entrava, apprensivo, nella camera del vecchio compagno di tante lotte terrene, Livia, in una stanza intima e riservata si rivolgeva a Calpurnia con queste parole: «Amica mia, hai già sentito parlare di Gesù di Nazareth?»

84.           L’orgogliosa matrona, che neppure in famiglia perdeva il suo tratto fatuo neanche nelle situazioni più angosciose e preoccupanti, sgranò gli occhi, esclamando: «Perché me lo domandi?»

85.           «Perché Gesù», rispose Livia con umiltà, «è la misericordia di tutti coloro che soffrono, ed io non posso dimenticare la sua bontà, ora che ci troviamo in momenti tanto difficili e tanto dolorosi».

86.           «Devo supporre, cara Livia», la redarguì Calpurnia gravemente, «che tu hai dimenticato tutte le raccomandazioni che ti feci prima che tu partissi per la Palestina, perché, dalle tue osservazioni, sto deducendo che hai accettato in buona fede le assurde teorie dell’uguaglianza e dell’umiltà, incompatibili con le nostre più comuni tradizioni, lasciandoti trascinare dalle acque ingannevoli delle erronee credenze degli schiavi».

87.           «Ma non è così! Io mi riferisco alla fede cristiana che ci aiuta nelle battaglie della vita e conforta il nostro cuore, …tormentato dalle prove più dure e più amare».

88.           «Questa fede sta arrivando ora alla sede dell’Impero, e per darti un’idea, ha incontrato l’avversione generale dei nostri uomini più sensati e illustri».

89.           «Ma io ho conosciuto Gesù da vicino, e la Sua dottrina è una dottrina di amore, di fraternità e di perdono. ... Conoscendo i tuoi giusti timori per Flaminio, mi sono ricordata di ricorrere al profeta di Nazareth che, in Galilea, era la provvidenza di tutti gli afflitti e di tutti quelli che soffrivano».

90.           «Ma, figlia mia, tu sai che la fraternità e il perdono degli errori non sono, in nessun modo, compatibili con le nostre idee di onore, di patria e di famiglia, e quello che più mi sorprende è la facilità con cui Publio ti ha permesso tanto intimo contatto con i concetti erronei della Giudea, al punto che essi hanno modificato la tua personalità morale, secondo quanto mi lasci intendere».

91.           «Tuttavia...»

92.           Livia stava per chiarire meglio i suoi punti di vista riguardo all’argomento, quando Agrippa entrò improvvisamente nella stanza, esclamando con la più forte commozione: «Madre, venite subito, …in fretta! …Mio padre sembra in agonia!»

93.           In un attimo le due donne entrarono nella camera del moribondo, che aveva gli occhi fissi come se fosse stato colpito, all’improvviso, da un deliquio invincibile.

94.           Publio Lentulo serrava fra le sue, le mani del moribondo, osservandogli ansiosamente il fondo delle pupille.

95.           A poco a poco, però, il torace di Flaminio sembrò mettersi di nuovo in moto sotto gli impulsi di una respirazione profonda e dolorosa. In seguito, gli occhi rivelarono una vivida luce di vita e coscienza, come se la lampada del cervello si fosse riaccesa in un ultimo guizzo. Posò lo sguardo su ogni familiare e sugli amici a lui così cari che stavano curvi intorno al suo letto, inquieti e ansiosi. Un medico, molto amico, che lo assisteva continuamente, comprendendo la gravità del momento, si era ritirato verso l’atrio, mentre intorno all’agonizzante si udiva solo la respirazione affannosa dei presenti, conosciuti in queste pagine.

96.           Flaminio fece scorrere lentamente lo sguardo brillante e indefinibile da un volto all’altro, come se cercasse più specificamente la sposa e i figli, esclamando con frasi interrotte: «Calpurnia, sono... nell’ora estrema... e rendo grazie agli dèi... poiché sento la coscienza... libera e tranquilla. Ti aspetterò nell’eternità... un giorno... quando Giove... vorrà... chiamarti accanto a me...»

97.           La veneranda signora nascose il volto tra le mani, dando libero sfogo alle lacrime, senza riuscire ad articolare parola.

98.           «Non piangere...» continuò lui, come ad approfittare degli ultimi momenti. «La morte, ...è una soluzione, ...quando la vita ... ormai non ha più rimedio, ...per i nostri dolori.»

99.           E, guardando i due figli che lo fissavano con preoccupazione, con gli occhi pieni di lacrime prese la mano del più giovane, mormorando: «Desidero... mio Plinio... vederti felice... molto felice... È tua intenzione... sposare la figlia di Salvio?»

100.      Plinio comprese le allusioni paterne in quel momento grave e decisivo, e fece un lieve cenno negativo con la testa, fissando nel contempo i grandi e ardenti occhi su Flavia Lentulo, come per indicare al padre la sua preferenza.

101.      Il moribondo, a sua volta, con la profonda lucidità spirituale di chi si avvicina alla morte, con piena coscienza della situazione e dei suoi doveri, capì l’atteggiamento silenzioso del diletto figlio e, prendendo la mano della giovane che si chinava verso di lui, strinse le mani di entrambi sul suo cuore, mormorando con intima gioia: «Questa è una ragione in più, ...perché me ne vada, ...tranquillo. Tu, Agrippa, sarai anche tu... molto felice... E tu... mio caro... Publio... vicino a Livia... vivrai...»

102.      Tuttavia, un singhiozzo più forte gli era involontariamente sfuggito, e successivi, violenti e dolorosi singhiozzi l’obbligarono a tacere, mentre Calpurnia si inginocchiava e gli copriva le mani di baci.

103.      Livia, anch’essa inginocchiata, guardava verso l’alto come se volesse scoprire i misteri del cielo. Ai suoi occhi quella camera mortuaria si presentava affollata di volti luminosi e di altre ombre indefinite che volteggiavano tranquillamente intorno al moribondo. Pregò nel profondo della sua anima, chiedendo a Gesù, forza e pace, luce e misericordia per il grande amico che partiva. In quel momento ricordò la radiosa figura di Simeone, circondata di un chiarore azzurro risplendente.

104.      Flaminio agonizzava...

105.      Man mano che i minuti passavano, i suoi occhi diventavano vitrei e incolori. Tutto il corpo trasudava un abbondante sudore che bagnava i lini candidi del letto. Livia notò che tutte le ombre presenti si erano anch’esse inginocchiate, e solo la figura imponente di Simeone era rimasta in piedi, come se fosse una sentinella divina, appoggiando le mani radiose sulla fronte pallida del moribondo. Notò allora che le sue labbra si schiudevano in un’orazione, mentre dolci parole le giungevano, chiare, alle orecchie spirituali:

106.      «Padre nostro, che sei nei Cieli, santificato sia il Tuo nome, venga a noi il Tuo regno di misericordia e sia fatta la Tua volontà, così in Terra come in Cielo».

107.      In quell’istante, Flaminio Severo esalò l’ultimo respiro. Un pallore marmoreo coprì i suoi lineamenti, mentre un’infinita serenità si stampava sulla sua maschera cadaverica, come se l’anima generosa fosse partita per la dimora dei beati e dei giusti.

108.      Solamente Livia, con i suoi principi religiosi e la sua fede, si mantenne serena d’animo fra quanti le erano intorno nel doloroso momento. Publio Lentulo, fra le lacrime, era sempre più convinto di aver perduto il migliore e il più grande degli amici. Mai più avrebbe udito la voce di Flaminio che gli parlava delle più belle equazioni filosofiche sui grandiosi problemi del destino e del dolore nelle correnti interminabili della vita.

109.      E mentre si aprivano le porte del palazzo per gli omaggi della società romana e si celebravano solenni esequie implorando la protezione dei Mani[10], il suo cuore di amico considerò la dolorosa realtà di vedersi strappata, per sempre, una delle pagine più belle del libro della sua vita affettiva, dentro l’oscurità fitta e impenetrabile dei segreti di una tomba.

 

 

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Cap. XII

OMBRE E NOZZE

1.                Alle esequie di Flaminio parteciparono numerosi amici del defunto, oltre a molte rappresentanze sociali e politiche di tutte le organizzazioni a cui era legato il suo degno ed illustre nome. Fra tante persone non poteva mancare la figura del pretore Salvio Lentulo, il quale negli omaggi postumi si fece accompagnare dalla moglie e dalla figlia, le quali fecero il possibile per ben rappresentare la commedia di falsa tristezza per la morte del grande senatore, accanto a Calpurnia che si scioglieva nelle lacrime della sua più dolorosa commozione.

2.                Proprio lì, nel palazzo dei Severo, si incontrarono i membri della famiglia Lentulo, con evidente avversione di Publio per la presenza della moglie dello zio, mentre le signore si scambiavano impressioni dolorose, nell’affettata etichetta delle convenzioni sociali.

3.                Fulvia e Aurelia osservarono con grande disappunto l’espressione affettuosa di Plinio Severo per Flavia Lentulo, alla quale rivolgeva sguardi con speciale attenzione durante le solennità funebri, come a voler dimostrare le preferenze del suo cuore.

4.                Ecco perché di lì a poco incontreremo madre e figlia in animata conversazione sull’argomento, nell’intimità della loro casa, lasciando trasparire la meschinità dei loro sentimenti, sebbene i capelli bianchi infondessero venerabilità sulla fronte della madre, la quale, nonostante ciò, non si lasciava vincere da motivazioni quali quelle dell’esperienza e dell’età.

5.                Fulvia, maliziosamente, rispondendo a una domanda della figlia, esclamò: «Anch’io sono rimasta molto sorpresa del modo di agire di Plinio, giudicandolo un giovanotto ansioso di compiere i suoi doveri; ma non mi sono meravigliata dei modi di Flavia, perché sempre ho pensato che i figli ereditano fatalmente le qualità dei genitori. Particolarmente nel nostro caso, quando l’eredità è da parte di madre, più numerosi sono gli argomenti di indiscutibile certezza per un nostro giudizio».

6.                «Oh, madre, vuoi dire allora che tu conosci la vita di Livia fino a questo punto?» chiese Aurelia, con grande interesse.

7.                «Non puoi dubitare che possa essere diversamente...»

8.                E l’immaginazione calunniosa di Fulvia passò a soddisfare la curiosità della figlia con i fatti più inverosimili e terribili riguardo alla sposa del senatore quando abitava in Palestina, infiorettati da espressioni di ironia e disprezzo da parte della giovane dominata dalla più aspra gelosia, terminando la narrazione con queste parole: «Solo tua zia Claudia potrebbe raccontarti con precisione quello che abbiamo sofferto di fronte alla condotta di questa donna che oggi vediamo così semplice e così riservata, come se non conoscesse le esperienze più forti di questo mondo. Non possiamo dimenticare che ci troviamo di fronte a persone tanto forti nella politica quanto nell’astuzia. Il nipote di tuo padre, oltre ad essere un marito profondamente infelice, …è un uomo pubblico orgoglioso e malvagio! Non mi risulta che egli sia riuscito a correggere la moglie scriteriata e infedele, dopo aver constatato con i suoi stessi oc­chi il suo tradimento coniugale; ma bastò che ella lo facesse soffrire con i suoi comportamenti infedeli perché tutti noi, i romani che vivevamo nella Giudea, pagassimo il fatto con i più orribili tributi di sofferenze...

9.                Avevamo un grande amico nella persona del littore Sulpicio Tarquinio che fu assassinato barbaramente in Samaria in tragiche circostanze, senza che alcuno fino ad oggi sia riuscito a identificare i suoi uccisori, …per il meritato castigo. La nostra famiglia, che aveva massicci interessi a Gerusalemme, fu obbligata a ritornare rapidamente a Roma, con gravi danni finanziari per tuo padre e, da ultimo…», continuò la voce velenosa della calunniatrice, «…il grande cuore di mio cognato Ponzio si ammalò sotto le prove più ingiuriose e più atroci... Destituito dal governo provinciale e tormentato dalle più dure umiliazioni, fu allontanato ed esiliato nelle Gallie, suicidandosi a Vienna, in circostanze penose, …provocandoci un indimenticabile dolore. Di fronte alle sofferenze sopportate da Claudia a causa della nefasta influenza di questa donna, non mi sorprendo, pertanto, degli atteggiamenti della figlia che cerca di rubarti il futuro fidanzato!...»

10.           «Urge che ci diamo da fare affinché questo non succeda, madre mia», disse la giovane sotto la forte pressione dei suoi nervi in vibrazione. «Ormai io non posso vivere senza di lui, senza la sua compagnia... I suoi baci mi aiutano a vivere nel vortice delle nostre preoccupazioni di ogni giorno...»

11.           Fulvia alzò gli occhi, come per esaminare meglio l’ansietà che si era stampata sui lineamenti della figlia, replicando con aria astuta e maliziosa: «Ma tu ti stai consegnando a Plinio in questa maniera?»

12.           La giovane, tuttavia, tremando di collera, recepì la maliziosa allusione contenuta negli infelici principi educativi a cui obbediva fin dalla culla, esclamando con rabbia: «Allora, cosa pensi che facciamo quando si va alle feste e al circo? Sarò io per caso diversa dalle altre ragazze del mio tempo?» E alzando la voce come chi, avendo necessità di difendersi, pronunci una pubblica accusa contro l’accusatore, si abbando­nò a considerazioni sconvenienti, con parole volgari e piene di livore, così concludendo: «E tu, madre, non hai ugualmente...»

13.           Fulvia, però, con un balzo, si attaccò al corpo della figlia in atto ostile e duro, esclamando con fredda serenità: «Taci! Non dire più una parola, giacché non era mia intenzione allevarmi una vipera in seno...»

14.           Comprendendo, però, che la situazione poteva diventare più difficile a causa delle sue grandi colpe, come madre, come sposa e, comunque, in qualità di donna, esclamò con voce melliflua, come a dare una squallida lezione alla figlia: «Questa, poi, Aurelia! Ma non irritarti!... Se ho parlato in questo modo è stato per insegnarti che non possiamo catturare un uomo per le nostre sicurezze femminili nel matrimonio, dandogli tutto in una volta sola. Un uomo esuberante e galante, quale il figlio di Flaminio, si conquista a tappe, facendogli poche concessioni e molte carezze. Tu sai che il primo problema della vita di una donna della nostra epoca si compendia, prima di tutto, nell’ottenere un marito, perché i tempi sono duri, e non possiamo elargire l’ombra di un albero che ci ripara da penose sorprese, …tra le difficoltà del cammino».

15.           «È vero, madre» rispose la giovane totalmente cambiata, grazie a quelle astuzie. «Ciò che mi dici è la realtà, e giacché tanto grandi sono le tue esperienze, cosa mi suggerisci per la realizzazione dei miei desideri?»

16.           «Prima di tutto» tornò a dire Fulvia, con perversità «dobbiamo ricorrere agli argomenti della gelosia, che sono sempre i migliori, quando esiste un interesse più o meno sincero, per ottenere qualcosa nel campo dell’amore. E giacché ti sei tanto dedicata al figlio di Flaminio, vedi di approfittare delle prime feste del circo, provocandogli impulsi d’invidia e dispetto. Tu, non sei stata forse corteggiata dal protetto del questore britannico?»

17.           «Emiliano?» domandò la ragazza interessata.

18.           «Sì, Emiliano. Si tratta ugualmente di un buon partito, perché il suo futuro nelle classi militari sembra che abbia ottime prospettive. Cerca di richiamare la sua attenzione davanti a Plinio, così da fare tutto il possibile per assicurarti il discendente dei Severo che, alla fine, è il partito più vantaggioso di quanti pos­sano essercene».

19.           «Ma se il piano, per nostra disgrazia, non riesce?»

20.           «Dobbiamo ricorrere alle scienze di Araxe, …con i suoi unguenti e arti magiche».

21.           Un pesante silenzio si era insinuato fra entrambe nell’esaminare l’eventualità di ricorrere, più tardi, alle forze tenebrose di uno dei più celebri maghi della società di quel tempo.

22.           I giorni trascorsero uno dietro l’altro, ma il figlio minore di Flaminio non tornò a corteggiare la figlia del pretore Salvio Lentulo, e quando, di lì a poco, riprese a frequentare i ritrovi festanti e rumorosi, non si sorprese troppo nell’incontrare, in stretta compagnia di Emiliano, la donna a cui si sentiva legato solo dai fragili e artificiali legami della lascivia e delle abitudini viziose dell’epoca.

23.           Aurelia, tuttavia, non voleva intimamente rassegnarsi alla perdita di quello a cui si era data, studiando il modo migliore per attuare opportunamente la sua vendetta, poiché Plinio, sotto l’influsso delle soavi vibrazioni amorose di Flavia Lentulo, appariva un uomo completamente cambiato. Si era allontanato spontaneamente dai baccanali tipici dell’epoca, fuggendo ugualmente dai vecchi amici che lo trascinavano nel vortice di tutti i vizi e di tutte le leggerezze. Sembrava che una forza nuova guidasse ora la sua vita, educandogli di nuovo il cuore all’ambiente affettuoso e sincero della famiglia.

24.           Nel palazzo dei Lentulo, la vita trascorreva con relativa tranquillità.

25.           Calpurnia abitava lì, nei primi mesi dopo la morte del marito, insieme ai figli, mentre Plinio e Flavia tessevano il loro romanzo di speranza e d’amore, nel fulgore della giovinezza, sotto la benedizione degli dèi, dei quali non si dimenticavano al culmine radioso dei loro dolci affetti.

26.           Estraniandosi dalle agitazioni dell’epoca, Plinio si ritirava, sempre che fosse possibile, nei suoi appartamenti nel palazzo sull’Aventino, dove si occupava di pittura o scultura, modellando in marmo prezioso delle belle statue di Venere e di Apollo, che poi regalava a Flavia in segno del suo grande amore. Lei, a sua volta, componeva delicati gioielli poetici, musicati sulla lira con le sue stesse mani, offrendo i fiori della sua anima all’amatissimo fidanzato, nel cui animo generoso aveva riposto i più bei sogni del suo cuore.

27.           Solo una persona non tollerava quell’armonioso incontro delle due anime gemelle. Questa persona era Agrippa. Fin dal momento in cui aveva visto la figlia del senatore nel porto di Ostia, aveva pensato di aver incontrato la sua futura sposa. Credeva di essere l’unico aspirante al cuore di quella giovane romana, enigmatica e intelligente, sul cui volto rosato sbocciava sempre un sorriso di bontà superiore, come se la Palestina le avesse conferito una nuova bellezza, piena di misteriose e singolari attrattive.

28.           Invece, a causa dei progetti matrimoniali del fratello con Flavia, i suoi piani erano completamente falliti. Invano aveva pensato di aver incontrato la donna dei suoi sogni, poiché la tenerezza e le attenzioni di lei appartenevano unicamente al fratello. Fu per questo motivo che, di pari passo con il ritiro di Plinio Severo nella sua casa, per la realizzazione dei suoi progetti futuri Agrippa aveva deviato verso una lunga serie di atti incontrollati, palesando, ogni volta di più, il carattere stravagante della sua personalità, prediligendo le più nocive compagnie e i più viziosi ambienti.

29.           Nel corso dei suoi frequenti stravizi si era ammalato gravemente, preoccupando molto sua madre che vigilava sui figli con la stessa cura di sempre. Lo incontriamo così, in un bel pomeriggio romano, sullo stesso terrazzo dove vedemmo Publio Lentulo in tristi meditazioni, nelle prime pagine di questo libro.

30.           Un leggero e carezzevole venticello rinfrescava l’ora del crepuscolo, ancora ricco dei chiarori di un bel Sole caldo. Al suo fianco, Calpurnia stava esaminando alcuni capi di vestiario di lana e gli lanciò uno sguardo affettuoso. A un certo punto, la venerabile signora gli rivolse la parola, così: «Allora, figlio mio, ringraziamo gli dèi, perché ora ti vedo molto meglio e sulla strada di un deciso miglioramento».

31.           «Sì mamma», mormorò il giovane convalescente. «Sto molto meglio, mi sento ristabilito; tuttavia, spero che ci trasferiamo nella nostra casa entro due giorni, per poter terminare la mia cura e cercare di dimenticare...»

32.           «Dimenticare che cosa?» domandò Calpurnia, sorpresa.

33.           «Oh, madre mia», rispose il giovane enigmaticamente, «la salute non può tornare nel corpo, quando lo spirito continua ad essere infermo...»

34.           «Ora, figlio, aprimi il tuo cuore con più sincerità e più franchezza. Confidami le tue amarezze più segrete, affinché sia possibile che io possa darti un po’ di conforto!»

35.           «No, no, madre, …non devo farlo!» E così dicendo, Agrippa Severo, sia per lo stato di debolezza in cui si trovava, sia per la necessità di uno sfogo più intenso, scoppiò in pianto, sorprendendo amaramente il cuore materno con il suo inaspettato atteggiamento.

36.           «Ma che significa questo, figlio? Che succede nel tuo animo, per soffrire così?» gli domandò Calpurnia, molto triste, stringendolo tra le amorevoli braccia. «Dimmi tutto», proseguì afflitta. «Non nascondermi le tue tristezze, Agrippa, perché io saprò rimediare alla situazione in qualsiasi modo».

37.           «Madre, madre mia», disse lui, allora, con un lungo sospiro, «io soffro dal giorno in cui Plinio mi strappò la donna desiderata... Sento nell’anima un’attrazione misteriosa per Flavia e non posso rassegnarmi alla dolorosa realtà di questo matrimonio che si avvicina. Credo che se mio padre vivesse ancora, cercherebbe di salvare la mia situazione, riservando per me questo matrimonio, con le provvidenziali soluzioni che ben gli riconosciamo... Ho sempre sperato, attraverso tutte le circostanze della gioventù, che apparisse sul mio cammino la creatura idealizzata nei miei sogni, per formare una famiglia, organizzare una casa e, quando appare la donna dei miei desideri, ecco che me la portano via e, …chi? Perché la verità è che, se Plinio non fosse mio fratello, non esiterei a usare e abusare dei mezzi più violenti per conseguire la realizzazione dei miei desideri!»

38.           Calpurnia lo ascoltava in silenzio, prendendo parte alle sue angosce e alle sue lacrime. Ignorava quel duello silenzioso di sentimenti e solo ora poteva comprendere la malattia misteriosa che le debilitava il figlio maggiore in modo così opprimente. Il suo cuore possedeva però molta esperienza della vita e dei costumi del tempo, per giudicare con il massimo buon senso la situazione e, trasformando la sensibilità femminile e i timori di madre in rigorosa fermezza, gli rispose commossa, accarezzandogli i capelli in un tenero gesto: «Mio Agrippa, comprendo il tuo animo e so giudicare l’intensità delle tue sofferenze, ma bisogna che tu capisca che ci sono nella vita fatalità dolorose, i cui angoscianti problemi sta a noi risolvere con il più grande coraggio e molta pazienza... Non fu per nessun altro motivo che gli dèi ci hanno collocato ai vertici sociali, se non per insegnare a quelli più ignoranti e più deboli le tradizioni della nostra superiorità spirituale di fronte a tutte le penose eventualità della vita e del destino. Soffoca nel tuo intimo questa passione ingiustificabile, anche perché sento che Flavia e tuo fratello sono venuti a questo mondo con i loro destini intrecciati... Plinio era ancora un bambino in fasce quando tuo padre già progettava questo matrimonio che ora è sul punto di realizzarsi. Sii forte…», continuò la nobile matrona, asciugandogli le lacrime silenziose e tristi, «…perché la vita, a volte, …esige da noi questi gesti di rinuncia illimitata! Tuttavia, eleviamo le nostre suppliche agli dèi! Da Giove deve giungere, per la tua anima ferita, il necessario conforto».

39.           Agrippa, dopo avere ascoltato le parole materne, si sentì alquanto sollevato, come se il suo animo si fosse rasserenato dopo una tempesta dei più contrastanti sentimenti. Considerò che le osservazioni materne rappresentavano la verità, e fu intimamente pronto, pur con la penosa impressione psicologica che lo tormentava, a rassegnarsi definitivamente alla dolorosa e irrimediabile situazione.

40.           Calpurnia lasciò trascorrere alcuni minuti, prima di rivolgergli nuove parole, come se attendesse di vedere l’effetto salutare delle sue prime osservazioni, e poi continuò: «Non ti interesserebbe, ora, un viaggio nella nostra tenuta di Avenio? Io so che per la forza della tua vocazione e per l’esigenza delle circostanze, il tuo posto è qui come successore di tuo padre, ma questo viaggio rappresenterebbe la soluzione di vari e urgenti problemi, incluso il tuo caso personale».

41.           Agrippa ascoltò il suggerimento col massimo interesse, rispondendo infine: «Madre mia, le tue parole affettuose mi hanno dato conforto e accetto il tuo suggerimento per vedere, se riesco, a trovare il meraviglioso elisir dell’oblio; però, desidererei partire con una nomina ufficiale dello Stato, perché così potrei stare a Marsiglia più a lungo, rimanendo là con l’autorità che mi sarà necessaria in tali circostanze...»

42.           «E non potresti realizzare con facilità questo tuo progetto?»

43.           «Credo di no. Potrei sì inoltrare domanda per un viaggio con attribuzioni ufficiali, ma raggiungerei i miei scopi solo con una nomina di carattere militare».

44.           «E perché non mettiamo in moto le nostre prestigiose relazioni di amicizia per ottenere quello che desideri? Tu sai che, con l’aiuto di Publio e del senatore Cornelio Docus, Plinio aspetta una promozione a ufficiale fra pochi giorni, con grandi prospettive di avanzamento e nuove realizzazioni future, nel quadro delle nostre forze armate. Dicono, anzi, che l’imperatore Claudio, consolidando la centralizzazione dei poteri con la nuova amministrazione, si mostra soddisfatto quando può trasformare i privilegi politici in privilegi militari. Per me sarebbe solo motivo di grande orgoglio e piacere offrire i miei due figli all’Impero, per consolidarne le sovrane conquiste».

45.           «Farò così», rispose Agrippa già con gli occhi asciutti, come se i consigli materni fossero stati una dolce medicina per le sue penose preoccupazioni.

46.           Lentamente, all’orizzonte scomparivano le ultime luci rossastre del crepuscolo, che lasciavano il posto a una bella notte piena di stelle. Sorretto dalle braccia materne, il giovane patrizio si ritirò più rasserenato nei suoi appartamenti, aspettando l’opportunità di realizzare quanto prima i suoi nuovi piani.

47.           Dopo essersi convenientemente congedata da lui, Calpurnia tornò sul terrazzo, dove cercò di riposarsi dagli intensi affaticamenti morali. Implorando la pietà degli dèi, fissò il cielo costellato di stelle, con gli occhi pieni di pianto. Sembrava che il cuore le si fosse fermato nel petto per assistere al succedersi dei ricordi più cari e più dolci, nonostante la sua mente fosse torturata da pensieri amari e dolorosi. Più di sei mesi erano trascorsi dalla morte del marito e la nobile matrona si sentiva ormai completamente estranea alla vita sociale e al mondo. Faceva prodigi mentali per affrontare degnamente la sua posizione sociale, per quanto, nella sua rassegnata vecchiaia, avvertiva che il corso del tempo va isolando determinate creature ai margini del fiume infinito della vita. Sentiva, nell’ambiente e nei cuori che la circondavano, una differenza singolare, come se le mancasse un pezzo del meccanismo della sua ragione, per completare un giudizio preciso delle cose e degli avvenimenti. Questo pezzo era la presenza del marito che la morte aveva portato via: era la sua parola ponderata e amorosa, amica e saggia.

48.           Fin dai primi giorni della sua permanenza nella casa degli amici aveva ricevuto da Livia, e da Publio in particolare, le più dolorose confidenze sui fatti loro accaduti in Palestina, fatti che avevano compromesso per sempre la sorte e la tranquillità coniugale. Pur usando tutte le sue facoltà di osservazione e analisi, non era riuscita a pronunciarsi definitivamente riguardo agli avvenimenti, a favore dell’innocenza della sua buona e leale amica. Se Publio Lentulo era, ai suoi occhi, lo stesso uomo completamente immedesimato nel riconoscimento dei suoi nobilissimi doveri di Stato e delle più care tradizioni della famiglia patrizia, Livia, dal canto suo, le apparve eccessivamente cambiata nel suo modo di credere e di percepire.

49.           Nella sua concezione di orgoglio e vanità razziale, non poteva ammettere quei principi di umiltà, quella fraternità e quella fede attiva di cui Livia dava piena testimonianza davanti ai propri schiavi, secondo i postulati della nuova dottrina che invadeva tutti i settori della società. Quanto desiderava avere ancora il marito al suo fianco, in modo da poter sottoporre al suo giudizio quegli argomenti così delicati, per seguire la sua opinione, …sempre ricca di equilibrio e saggezza. Ma ora era sola a pensare ed agire in assoluta autonomia di coscienza, e per quanto cercasse nel suo intimo una soluzione al doloroso problema coniugale degli amici, non poteva dire niente con le sue osservazioni e con l’esame delle tradizioni familiari, coltivate nel suo animo col massimo orgoglio e la massima attenzione.

50.           Nella notte brillavano in cielo miriadi di costellazioni, aumentando il mistero delle sue dolorose meditazioni, quando alle sue orecchie arrivarono alcuni rumori, come di passi che si avvicinavano. Era Publio che, terminata la cena, andava anche lui sul terrazzo, per riposare la mente.

51.           «Oh, anche tu qui?» chiese la matrona con tono benevolo.

52.           «Sì, amica mia, mi piace tornare col pensiero, …ai giorni che ormai furono. A volte mi piace riposarmi su questo terrazzo, dove posso contemplare il cielo. Secondo me, è da questa cupola immensa e piena di stelle che riceviamo luce e vita; è là che deve trovarsi il nostro indimenticabile Flaminio, …accolto dall’affetto degli dèi generosi. E. infatti, nobile Calpurnia…», proseguì amabilmente il senato­re «…era questo uno dei luoghi prediletti delle nostre conversazioni e divagazioni, quando l’indimenticabile amico mi faceva l’onore della sua visita in questa casa. Fu qui che molte volte ci scambiammo idee e impressioni sulla mia partenza per la Giudea, alla vigilia della mia prolungata assenza da Roma, durata più di diciassette anni».

53.           Sopravvenne una lunga pausa e sembrava che i due, con uguale vibrazione spirituale, approfittassero del chiarore soave della notte per scendere nel profondo del cuore, riesumando i ricordi più cari in rassegnato e doloroso silenzio.

54.           Dopo alcuni minuti, come se desiderasse modificare il corso dei suoi ricordi, la venerabile matrona esclamò: «Ricordando il tuo viaggio passato, sento il dovere di avvisarti che Agrippa deve partire per Avenio non appena si sarà ristabilito».

55.           «Ma per quale motivo questa novità?» domandò Publio, con vivo interesse.

56.           «Già da molti giorni vado riflettendo sulla necessità che siano controllati là i numerosi interessi delle nostre proprietà, anche perché, prima di morire, era intenzione del mio caro defunto di trattare personalmente questo problema».

57.           «La soluzione del problema è tuttavia così urgente? E il matrimonio di Plinio? Agrippa per caso non sarà presente?»

58.           «Credo di no; tuttavia, nell’eventualità di una sua assenza, egli sarà rappresentato da Saul, antico liberto di casa nostra, che ha già mandato un messaggero da Marsiglia, comunicando la sua presenza alle cerimonie».

59.           «E un peccato!...» mormorò il senatore, sorpreso.

60.           «Devo dirti ancora», continuò la matrona con serenità, «che mi aspetto un grande favore da te, presso Cornelio Docus, perché ottenga dall’imperatore Claudio una buona sistemazione per il nostro viaggiatore che desidera partire con un incarico ufficiale, avendo pertanto necessità che siano trasformati in privilegi militari i privilegi politici che gli spettano di diritto».

61.           «Non sarà difficile ottenerlo. L’attuale amministrazione si interessa molto alla valorizzazione delle classi militari».

62.           Un nuovo silenzio si frappose nella conversazione, e il senatore, dopo una lunga pausa, tornò a esclamare come se volesse approfittare dell’opportunità per la soluzione decisiva del suo amaro problema. Perciò disse preoccupato: «Calpurnia, nel parlare del mio passato viaggio, tu mi hai informato del viaggio obbligato del nostro Agrippa tra breve. Ed io continuo a ricordare la mia sorte fallita, la mia felicità perduta, che non è mai più tornata».

63.           Il senatore osservava tutte le espressioni della sua venerabile amica, desideroso di sorprenderne un gesto di conforto estremo. Desiderava che lei, come confidente di Livia, quasi come la madre stessa di questa, per i legami eterni e sacrosanti dello spirito, gli dissipasse tutti i dubbi, gli parlasse dell’innocenza della moglie, dandogli la certezza che il suo cuore irragionevole ed egoista di uomo si stava ingannando. Ma inutilmente aspettò questa difesa spontanea, che non apparve nel momento giusto e decisivo. La rispettabile vedova di Flaminio aveva abbandonato nell’aria lo stesso doloroso punto interrogativo, mormorando con voce triste, mentre un fascio di luce lunare le coronava i capelli bianchi: «Sì, amico mio, gli dèi possono darci la felicità e possono togliercela... Siamo due anime che piangono sul sepolcro dei sogni più cari del cuore...»

64.           Quelle parole scoraggianti penetrarono nel petto sensibile e orgoglioso del senatore come sciabola affilata che lo squarciava a poco a poco.

65.           «Ma, infine, mia nobile amica…», esclamò lui, quasi energicamente, come se s’aspettasse una risposta decisiva per l’angosciosa incertezza della sua anima, «…che cosa pensi attualmente di Livia?»

66.           «Publio», rispose Calpurnia con serenità, «non so se la franchezza sia un male in certe circostanze, ma preferisco essere sincera. Da quando mi facesti quelle penose confidenze sui fatti che si verificarono in Palestina, sto osservando la nostra amica in modo da poter patrocinare la causa della sua innocenza davanti al tuo cuore, ma, infelicemente, noto in Livia le più singolari e impreviste differenze di ordine spirituale. È umile, dolce, intelligente e generosa, come sempre, ma sembra che disprezzi tutte le nostre tradizioni familiari e le nostre credenze più care.

67.           Nelle nostre discussioni e conversazioni intime, non mi si rivela più con quella sua timidezza incantevole che le conoscevo in altri tempi, dimostrando, al contrario, un’eccessiva disinvoltura di opinione riguardo i problemi sociali che ella ritiene di aver risolto con l’accettazione di una nuova fede. Mi turbano le sue idee con i più ingiustificabili concetti di uguaglianza. Lei non esita a classificare i nostri dèi come nocive illusioni della società, verso la quale nutre, con ogni parola, le più severe critiche, rivelando singolari modifiche nel suo modo di pensare, arrivando al punto di fraternizzare con le stesse serve della sua casa, come se fosse una semplice plebea...

68.           Potrebbe trattarsi di una perturbazione mentale dopo qualche caduta in cui la sua dignità individuale sia stata indotta a una rigida reazione? Sarà forse l’influenza dell’ambiente o anche delle schiave con le quali si abituò a convivere durante la prolungata assenza da Roma? Non so... La realtà è che, di conseguenza, per ora non posso pronunciarmi definitivamente sulle tue amarezze coniugali, consigliandoti di aspettare le risposte del tempo».

69.           Dopo una breve pausa, la vecchia matrona pose fine alle sue osservazioni, chiedendo con interesse: «Perché hai permesso che Livia fosse introdotta a queste nuove idee, abbandonandola alla mercé di questo riformatore giudeo, conosciuto come Gesù di Nazareth?»

70.           «Tu hai ragione», mormorò Publio Lentulo estremamente preoccupato, «ma il motivo nacque in circostanze incombenti, perché Livia credette che fosse stato il profeta Nazareno a salvare nostra figlia».

71.           «Sei stato ingenuo, perché non avresti dovuto ammettere quest’ipotesi, di fronte all’evoluzione delle nostre conoscenze, salvando così da queste pericolose influenze lo spirito impressionabile di tua moglie. È comprovato che questo nuovo credo preannuncia comportamenti mentali umilianti, sovvertendo le più profonde disposizioni delle creature che lo accettano. Uomini ricchi e anche scienziati, che si sottomettano a questi odiosi principi all’interno dell’Impero, a favore di un regno immaginario, sembrano dominati da un terribile narcotico che fa loro dimenticare e disprezzare la fortuna, il nome, le tradizioni e la propria famiglia! Collaborerò con te, allontanando Flavia da questi pregiudizi morali, portandola con me non appena si realizza il matrimonio dei nostri cari figli, perché la verità è che, riguardo Livia, ho già fatto di tutto per convincerla, ma inutilmente».

72.           «Però, mia buona amica…», mormorò il senatore, commosso, come a difendersi di fronte alla nobile patrizia, «…noto che Livia continua ad essere una creatura semplice e modesta, senza esigere da me alcuna cosa che si possa considerare esorbitante o superflua. In questi quasi diciassette anni di separazione intima in seno alla famiglia, mi ha chiesto soltanto il permesso necessario a continuare nelle sue pratiche cristiane, insieme a una vecchia serva di casa nostra, permesso che fui obbligato a con­cedere, considerando la persistenza della sua rinuncia silenziosa e triste all’ambiente familiare».

73.           «Anch’io ritengo che è chiedere molto poco, specialmente ora che tutte le donne di città, secondo la moda, esigono dai mariti le maggiori stravaganze, col lusso orientale. Nonostante ciò, devo consigliare a te, che conservi intatte le nostre tradizioni più care, di aspettare ancora un po’ di tempo prima di dimenticare i fatti dolorosi del passato, affinché noi possiamo vedere se Livia si avvarrà con costanza delle nostre abitudini, tornando finalmente, …in seno alle nostre tradizioni e alla nostra religione!»

74.           Un pesante silenzio s’insinuò tra i due dopo queste parole.

75.           Calpurnia pensò di aver compiuto il suo dovere, e Publio andò a letto, quella notte, preoccupato come non mai.

*

76.           Dopo pochi giorni, raggiunti i suoi obiettivi, Agrippa partì alla volta di Avenio, nonostante le insistenze del fratello e di Flavia perché aspettasse le solennità del matrimonio. Egli fu però irremovibile nella sua decisione. E così il figlio maggiore di Flaminio, indebolito sotto il peso delle sue disillusioni, si allontanò da Roma per un periodo di alcuni lunghi e dolorosi anni.

77.           I giorni passarono rapidamente e, siccome siamo obbligati ad andare avanti nella nostra storia in compagnia di tutti i personaggi, dobbiamo registrare che, vedendosi completamente abbandonata dall’uomo da lei preferito, Aurelia, morsa da un velenoso risentimento, decise di accettare la mano gene­rosa e affettuosa che il giovane Emiliano Lucio le offrì.

78.           Fulvia, che aveva accompagnato la lotta silenziosa, avvelenata dai suoi bassi sentimenti, decise di aspettare un po’ prima di mettere in atto le sue sinistre rappresaglie. E di lì a poco, il matrimonio di Plinio e Flavia si realizzò con misurata eleganza nel palazzo sull’Aventino. Lo sposo, carico di ricompense militari e titoli onorifici, così come la sposa, ammantata di bellezza indescrivibile e di adorabile semplicità, si sentivano felici come se la perfetta felicità si riassumesse soltanto nella fusione dei loro cuori e delle loro anime. Quel giorno, senza dubbio, segnava l’ora più sacra e più bella dei loro destini.

79.           Tra gli invitati in numero ridottissimo, che erano tutte persone della più stretta intimità, si notò la presenza di un uomo ancora giovane, che rappresentava una figura saliente in quel quadro, essenzialmente tipico dell’epoca. I suoi occhi vivaci e ardenti si erano posati sulla sposa con un misterioso e strano interesse.

80.           Quell’uomo era Saul di Giora che, abbandonato il cognome paterno, esibiva ora un nome romano, secondo un’antica autorizzazione di Flaminio, in modo da esprimere, ogni volta di più, il valore sociale della sua fortuna.

81.           Invano il senatore fece il possibile per identificare quel giudeo che gli sembrava una vecchia conoscenza personale. Saul comunque aveva riconosciuto il suo aguzzino di un tempo; lo riconobbe e mantenne il più assoluto silenzio, placando le grandi emozioni del più profondo dell’animo, perché, come il padre, aveva il cuore immerso negli oscuri propositi di una vendetta crudele.

 

 

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Cap. XIII

PIANI DELLE TENEBRE

 

1.                Dopo le feste del matrimonio di Plinio, contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, il liberto giudeo non ritornò a Marsiglia, adducendo come pretesto i molti affari che lo trattenevano nella capitale dell’Impero.

2.                Installatosi nel palazzo della famiglia Severo dove si erano trasferiti i giovani sposi insieme a Calpurnia, Saul ebbe molte opportunità di incontrarsi col senatore Publio Lentulo, con il quale ebbe varie conversazioni sulla Giudea e sulle sue regioni più importanti.

3.                Incuriosito da quello sguardo ardente e da quella fisionomia che non gli era totalmente estranea, e ricordandosi perfettamente di quel padre che lo aveva cercato ansioso e afflitto, a Gerusalemme, seguiamo il senatore in una delle sue conversazioni intime con l’interessante sconosciuto, durante la quale lo affrontò con questa inaspettata domanda:

4.                «Signor Saul, giacché siete un figlio dei dintorni di Gerusalemme, vostro padre non si chiamava, per caso, Andrea di Giora

5.                Il liberto si morse le labbra di fronte a quell’attacco diretto, sull’argomento più delicato della sua vita, e rispose ipocritamente: «No, senatore. Mio padre non ha questo nome. Al tempo in cui fui fatto schiavo da mani crudeli e senza pietà, anche se io altro non ero che un ragazzino maleducato e irresponsabile», disse con profonda ironia, «mio padre era un miserabile agricoltore che non possedeva altra cosa se non le sue braccia per il lavoro di ogni giorno... Io, nonostante tutto, ebbi la buona sorte di incontrare le mani generose di Flaminio Severo che mi hanno guidato verso la libertà e verso la fortuna, e oggi mio padre, con quel poco che gli ho dato, ha aumentato le sue possibilità di lavoro e non soltanto gode di una certa importanza sociale a Gerusalemme, ma ricopre anche funzioni elevate nel Tempio. Ma perché me lo chiedete?»

6.                Il senatore aggrottò le sopracciglia di fronte a una risposta così disinvolta, ma essendo meno preoccupato poiché gli sembrava inverosimile che si trattasse del Saul dei suoi ricordi, rispose con maggior tranquillità: «È che io conobbi, superficialmente, un agricoltore israelita di nome Andrea di Giora, la cui fisionomia non era molto dissimile dalla vostra...»

7.                E la conversazione seguì il ritmo normale delle conversazioni convenzionali e senza importanza tipiche degli ambienti della vita sociale.

8.                Saul, invece, lasciò trasparire una strana luce dal suo sguardo, come chi si trova estremamente soddisfatto del suo destino nell’attesa di un’opportunità per mettere in atto i suoi tenebrosi piani di vendetta.

9.                Un motivo segreto e inconfessabile lo tratteneva a Roma, mentre molti affari esigevano la sua presenza a Marsiglia, dove il suo nome era legato a grandi interessi di ordine finanziario ed economico. Questo motivo era l’intenso desiderio di farsi notare dalla giovane sposa di Plinio, il cui sguardo sembrava attrarlo verso un abisso d’amore violento ed insopprimibile. Fin dall’istante in cui la vide vestita da sposa, nel giorno delle sue nozze, gli sembrò d’aver scoperto la creatura ideale dei suoi sogni più intimi e remoti.

10.           In realtà, i figli dei suoi antichi padroni meritavano il suo rispetto e la sua più profonda stima; tuttavia una forza più grande di tutti i suoi sentimenti di gratitudine lo portava a desiderare di possedere Flavia Lentulo a qualsiasi prezzo, quand’anche fosse quello della propria vita.

11.           Quegli occhi belli e pensosi, la grazia soave e spontanea, l’intelligenza lucida e sensibile, tutte le sue doti fisiche e spirituali, che il giovane aveva avidamente osservato nei pochi giorni di permanenza nella città, lo autorizzavano a credere che quella donna fosse proprio la personificazione dei suoi ideali.

12.           E fu così che, invischiato in questo turbinio di ombrosi pensieri, trascorsero due mesi di attese indicibili e angoscianti, senza che egli perdesse neppure la più piccola occasione per dimostrare a Flavia l’intensità del suo affetto, della sua ammirazione e della sua stima, sotto gli occhi fraterni e fiduciosi di Plinio.

13.           Nella tempesta del suo animo, Saul considerava che, se lei lo avesse amato, se avesse corrisposto all’amore violento del suo spirito impetuoso ed egoista, egli non si sarebbe neppure mai più ricordato di mettere in atto la progettata vendetta contro il padre di lei, e sarebbe andato a prendere il giovane Marco Lentulo per riportarlo alla casa paterna, liquidando il suo passato costellato di visioni tenebrose. Però, se fosse successo il contrario, egli avrebbe attuato i suoi diabolici progetti, lasciandosi ubriacare dall’ebbrezza odiosa della morte.

14.           In quello stesso periodo, correva già l’anno 47, e senza esserci dimenticati di Fulvia e di sua figlia, le incontriamo di nuovo sotto il dominio dei soliti sentimenti crudeli e tenebrosi.

15.           Invano Aurelia aveva sposato Emiliano Lucio che, per lei, non rappresentava in nessun modo il tipo di uomo che il suo temperamento credeva di avere trovato nel figlio minore di Flaminio.

16.           E fu così che, dopo le prime disillusioni e i primi attriti nell’ambiente domestico, su consiglio di sua madre e in compagnia della stessa, decise di ricorrere alle bizzarre scienze di Araxe, celebre mago egizio, che aveva una bottega di mercanzie esotiche in prossimità dell’Esquilino.

17.           Araxe, il cui criminoso commercio conoscevano tutti come fonte inesauribile di filtri miracolosi dell’amore, dell’infermità e della morte, era un iniziato dell’antico Egitto, passato però dalla missione sacrosanta della carità e della pace, alla violenta passione per il denaro della numerosa clientela romana, allora corrotta da vizi straordinari e dalla dissolutezza dei più cari costumi del sacro istituto della famiglia.

18.           Esplorandone le basse passioni e le abitudini viziose, il mago egizio impiegava quasi tutta la sua scienza spirituale nell’esecuzione di ogni maleficio e crimine, provocando enormi danni con le sue droghe velenose e con i suoi sciagurati consigli.

19.           Cercato discretamente da Fulvia e dalla figlia, Araxe capì i fini della loro visita e lì stesso, in mezzo a grandi storte, pacchi di erbe e sostanze diverse, si prese la testa fra le mani, come se il suo spirito stesse indagando sui segreti infinitesimali del mondo invisibile, davanti a un tripode e ad altri strumenti delle scienze occulte con cui egli, profondo psicologo, cercava di impressionare la mente suggestionabile dei numerosi clienti che gli chiedevano la soluzione dei problemi della vita.

20.           Dopo lunghi minuti di concentrazione, con gli occhi che gli brillavano in modo strano, il mago egizio si rivolse ad Aurelia, affermando con parole impressionanti:

21.           «Signora, vedo davanti a me quadri dolorosi della sua vita spirituale, nel lontano passato... Vedo Delfo, nei giorni gloriosi del suo oracolo e contemplo la sua personalità che cerca di sedurre un uomo che non le apparteneva... Quest’uomo è lo stesso del suo presente... Le stesse anime circolano ora in altri corpi e la signora deve pensare alla realtà dei giorni che passano, adattandosi alla nitida separazione delle linee del destino!...»

22.           Aurelia ascoltò sorpresa e spaventata, mentre l’anima arguta di sua madre seguiva la conversazione, colpita da un turbamento indefinibile.

23.           «Ma cosa mi dite?» esclamò la giovane signora, profondamente ferita nella sua sensibilità. «Altre vite? Un uomo che non mi apparteneva?... Che significa tutto questo?»

24.           Il mago rispose con imperturbabile serenità: «Sì, in questo mondo il nostro spirito ha una lunga serie di esistenze che arricchiscono la nostra anima col massimo della conoscenza sui doveri che ci competono nella vita! La signora ha già vissuto ad Atene e a Delfo, in una lunga fase di profondi turbamenti in materia d’amore, e sentendosi oggi vicina all’oggetto delle sue ardenti e peccaminose passioni di altri tempi, crede di avere le stesse possibilità per soddisfare i suoi desideri violenti e indegni!...

25.           Da qui son passate innumerevoli creature. A molte ho consigliato di perseverare nei propositi, a volte ingiustificabili e bassi, ma nel suo caso c’è una voce che, più dall’alto, parla alla mia coscienza. Se la sua passione arriverà al punto di provocare quest’uomo, in coscienza finora onesto, è possibile che il suo cuore anch’esso inquieto venga a corrispondere ai suoi desideri. Tuttavia, nonostante ciò, cerchi di non abbandonarsi alla pazzia di questa provocazione, perché il destino lo ha ora riunito alla sua anima gemella, e un cammino irto di amare prove li aspetta nel futuro, …per consolidare la fiducia reciproca del loro affetto e della loro grandezza spirituale! Non si collochi sul cammino di questa donna, …considerata dal suo animo come una potente rivale. Interporsi tra lei e il marito sarebbe un aggravare le sue pene, signora, perché la verità è che il suo cuore non si trova preparato per le grandi rinunce che santificano, e quello che lei pensa sia profondo e sublime amore, non è niente di più che un capriccio pericoloso del suo cuore di donna testarda e poco disposta a sacrificarsi per l’amore di un compagno dolce e leale, ma a moltiplicare piuttosto gli amanti, …secondo il numero delle sue voglie fittizie».

26.           Aurelia era livida, ascoltando queste parole che considerava sfacciate e offensive. Desiderava difendersi, ma una forza poderosa sembrava che le chiudesse la gola, annientando ogni sforzo delle corde vocali.

27.           Fulvia, invece, in preda al furore per le espressioni offensive di quell’uomo, prese le difese della figlia, accusandolo con energia: «Araxe, mago sfrontato, cosa vuoi dire con queste parole? Tu ci insulti? Potremo far cadere sulla tua testa il peso della giustizia dell’Impero, facendoti mettere in prigione e rivelando alla società i tuoi sinistri segreti!»

28.           «E per caso, non li avete anche voi, nobile signora?» rispose lui imperturbabile. «Sareste così, senza colpa, da non esitare a condannarmi?»

29.           Fulvia si morse le labbra, tremando d’odio ed esclamando furiosa: «Taci, infame! Non sai che davanti ai tuoi occhi hai la moglie di un pretore?»

30.           «Non mi sembra», mormorò il mago con tranquilla ironia, «poiché le nobili matrone di questa stirpe non verrebbero mai in questa casa per sollecitare la mia collaborazione a un delitto... E per di più, che cosa direbbero a Roma di una patrizia che fosse scesa così in basso da andare a cercare, nell’intimità della sua casa, un vecchio mago dell’Esquilino? È vero che ho praticato molti mali nella mia vita, ma lo sanno tutti che io tiro avanti così e non cerco l’ombra della buona posizione sociale per coprire …l’abiettezza della mia miserabile esistenza! Ma, ugualmente, voglio salvare la giovinezza di tua figlia dal pauroso cammino delle tue perversità, perché nell’ipotesi che lei segua le tue spire di vipera nel cammino di sposa nefanda e infedele, la sua unica fine sarà la prostituzione e la malattia, …che si concluderanno con la morte ignominiosa sulla punta di una spada».

31.           Fulvia desiderava replicare energicamente agli insulti di Araxe, per respingere quelle espressioni ingiuriose ricevute come estrema insolenza; ma Aurelia, temendo nuove complicazioni e intuendo la colpevolezza di sua madre, la prese per un braccio, ritirandosi entrambe silenziosamente, sotto lo sguardo beffardo del vecchio egizio che era tornato a impilare pacchi di erbe fra vari vasi di strane sostanze.

32.           Tuttavia, per poco tempo egli poté applicarsi al suo lavoro solitario e silenzioso. Dopo circa due ore un nuovo personaggio batté alla sua porta. Araxe rimase sorpreso alla vista di quel giudeo misterioso che lo cercava. Il brillio degli occhi, il caratteristico naso, l’armonia dei lineamenti israeliti facevano di quell’uomo, ancora giovane, una figura singolare e suggestiva.

33.           Era Saul, che ricorreva agli stessi mezzi misteriosi nell’ansia di possedere, a tutti i costi, la sposa di Plinio, cercando il talismano o l’elisir miracoloso del mago, per i suoi pazzi propositi.

34.           Ricevuto nelle stesse circostanze in cui lo erano stati i due personaggi del nostro penoso dramma, Saul espose all’indovino le sue torture amorose per quella donna degna e onesta.

35.           Dopo la solita concentrazione, già di nostra conoscenza, vicino al tripode davanti al quale diceva le sue orazioni abituali, Araxe abbozzò un lieve e discreto sorriso, come di chi abbia incontrato più di una strana coincidenza nei suoi ampi studi sulla psicologia umana. La sua esitazione, tuttavia, durò pochi istanti, perché, subito si fece udire con voce calma ma lugubre, dicendo severamente: «Giudeo! Ringrazia il dio delle tue credenze, perché la tua faccia fu ripulita della polvere dalle mani dell’uomo che tu oggi ti appresti a tradire... Comandano le severe leggi della tua patria che tu non devi desiderare nemmeno col pensiero la donna del tuo prossimo, né tanto meno la compagna devota e fedele di uno dei tuoi maggiori benefattori. Fai un passo indietro nel tuo triste e sfortunato cammino! Ci fu un tempo in cui il tuo spirito visse nel corpo di un sacerdote di Apollo, …nel tempio glorioso di Delfo. Tu perseguitasti una giovane donna dei servizi sacri, trascinandola nella miseria e alla morte, con i tuoi nefandi e dolorosi deliri. Non osare, ora, strapparla dalle braccia destinate al suo rifugio e alla sua prote­zione, al cospetto di questo mondo! Non intrometterti nel destino di due creature che le forze del Cielo hanno modellato l’una per l’altra!»

36.           Il giovane giudeo, tuttavia, sebbene impressionato da quell’incisiva esortazione, non ebbe la reazione violenta come quella delle due donne che lo avevano preceduto nella misteriosa visita. Prendendo una borsa di monete, l’accarezzò con le mani, come per eccitare la brama dell’indovino, esclamando con vo­ce quasi supplichevole: «Araxe, io ho dell’oro, …molto oro, e te ne darò quanto ne vorrai, …per il prezioso aiuto della tua scienza. Per amore dei tuoi dèi, fa’ che io ottenga la simpatia di questa donna, e ricompenserò generosamente la preziosità degli sforzi che farai per me...»

37.           Gli occhi del mago egizio sfavillarono alla luce di uno strano sentimento, contemplando la borsa sotto forma di cornucopia rilucente d’ oro, come se la desiderasse intensamente, e mormorò con più delicatezza: «Amico mio, questa donna non è tanto ardentemente desiderata solo da te, e ritengo che tu dovresti collaborare affinché lei non si allontani dalla compagnia del marito!»

38.           «Ma allora esiste anche un altro uomo?»

39.           «Sì, i segni del destino mi rivelano che questa creatura è desiderata anche dal fratello del marito».

40.           Saul fece un gesto d’irritazione, come se si sentisse amaramente tormentato dalle più crudeli gelosie, mormorando fra i denti: «Ah! Sì! ... Ora intendo meglio il viaggio precipitoso di Agrippa alla volta di Avenio!», e alzando la voce come di chi si stesse giocando l’ultima carta della sua ambizione, disse con ansietà: «Araxe, ti supplico ancora una volta: …fa’ di tutto! Ti ricompenserò magnificamente!»

41.           Il capo del mago si chinò di nuovo in atteggiamento di profonda meditazione, come se lo spirito cercasse, nell’invisibile, qualche forza tenebrosa, propizia ai suoi sinistri disegni. – Dopo alcuni minuti, cominciò di nuovo a parlare, dicendo in tono benevolo e amichevole: «Sembra che ci sarà una possibilità per il suo affetto, …da qui a qualche tempo!»

42.           Il giovane giudeo lo ascoltò con angosciosa speranza, mentre l’altro continuava con le sue affermazioni: «I segni del destino dicono che i due coniugi, per consolidare il loro profondo affetto, la loro reciproca fiducia e il loro progresso spirituale, siano destinati a prove dolorose, per alcuni anni. Succederà qualcosa che li separerà dentro la loro stessa casa, senza che io possa precisare cosa sia. So solamente che i due dovranno sopportare un lungo periodo di ascetismo e dolorosa abnegazione all’interno della sacra istituzione della famiglia... In quest’occasione – forse chi lo sa? – …il mio amico potrà tentare questo affetto ardentemente desiderato!»

43.           «Succederà, quindi, qualcosa?» chiese Saul, curioso e afflitto, nelle sue indagini sull’argomento trascendentale. «Ma che cosa potrà accadere per separarli dentro l’ambiente domestico?»

44.           «Io stesso non saprei dirlo ...».

45.           «E ognuno sarà obbligato a un ascetismo fedele e a una dedizione assoluta?»

46.           «Comanda il determinismo del destino che sia così. Però, non solo lo sposo, ma anche la compagna possono interferire in queste prove, contraendo un nuovo debito morale o riscattando il passato doloroso con il necessario valore morale nelle sofferenze, impiegando, nel determinismo delle prove purificatrici, la loro buona o cattiva volontà... Sappi che le tendenze umane sono più forti verso il male, diventando così possibile che i tuoi desideri siano soddisfatti in quel momento».

47.           «Quanto tempo dovrò aspettare perché questo succeda?», chiese il liberto, profondamente preoccupato.

48.           «Alcuni anni».

49.           «E sarà inutile tentare un qualsiasi sforzo prima?»

50.           «Perfettamente inutile. Io so che il nobile cliente ha molti interessi in una città lontana, ed è giusto che, in questo intervallo, curi i suoi affari materiali».

51.           Saul fissò a lungo quell’uomo che sembrava conoscere i più intimi segreti della sua vita, passando al vaglio della consapevolezza le sue osservazioni. Gli consegnò la borsa piena, ringraziandolo per la sua attenzione e promettendo di tornare al momento giusto.

*

52.           Dopo pochi giorni, il giovane giudeo, alla vigilia del commiato, approfittando di alcuni minuti di pura e semplice familiarità con la giovane Flavia, le rivolse la parola in questi termini, cominciando con voce quasi timida, ma con la medesima strana luce di bassi sentimenti che gli si irradiava dagli occhi : «Nobile signora, non so la ragione per cui voglio rivelarvi questo mio intimo fatto, ma la realtà è che voglio partire per Marsiglia serbando la vostra immagine nel profondo più segreto dei miei pensieri!...»

53.           «Signore…», gli disse Flavia Lentulo, arrossendo mortificata «…io devo vivere unicamente nel pensiero di colui con il quale gli dèi hanno illuminato il mio destino! ...»

54.           «Nobile Flavia…», replicò il giudeo arguto, intuendo che la mossa era prematura e inopportuna, «…la mia ammirazione non si lega a qualche sentimento meno degno. Per me siete doppiamente rispettabile, non solo per la vostra alta condizione di patrizia, ma anche per il fatto di essere la compagna di uno dei maggiori benefattori della mia vita. Rimanete tranquilla riguardo le mie parole, perché nel mio cuore esiste soltanto il più leale interesse per la vostra felicità personale, insieme al marito degnissimo che avete scelto. Sento per voi quello che uno schiavo deve sentire per una benefattrice della sua vita, giacché nella mia triste condizione di liberto non posso presentarmi alla vostra generosità con le cre­denziali di un fratello che molto vi venera e vi stima».

55.           «E va bene, signor Saul», disse la giovane, più tranquilla, «mio marito vi considera come un fratello molto caro, ed io mi onoro di unirmi ai suoi sentimenti».

56.           «Vi ringrazio tanto», esclamò Saul ipocritamente. «E giacché comprendete così bene il mio pensiero fraterno, è con l’interesse di fratello che mi rivolgo alla vostra anima generosa, …per mettervi in guardia contro un pericolo.»

57.           «Un pericolo?» domandò Flavia, preoccupata.

58.           «Sì. Vi parlo confidenzialmente, chiedendovi di custodire con il massimo segreto questa confidenza fraterna».

59.           E mentre la giovane lo ascoltava con la più grande attenzione, Saul continuò con le sue perfide insinuazioni.

60.           «Voi sapete che Plinio fu quasi fidanzato con la figlia del pretore Salvio Lentulo, vostro zio, oggi sposata con Emiliano Lucio?»

61.           «Sì...» rispose la povera signora, con l’anima oppressa.

62.           «Devo quindi avvisarvi, come fratello, che vostra cugina Aurelia, a dispetto dei suoi seri obblighi matrimoniali, non ha rinunciato all’uomo delle sue antiche preferenze; oggi sono stato informato da un amico che essa è ricorsa a vari maghi di Roma …per riavere il suo antico amore a qualsiasi costo!»

63.           Ascoltando queste perfide parole, Flavia Lentulo provò la prima spina della sua vita coniugale, sentendosi intimamente torturata dalla più pungente gelosia. Plinio riassumeva tutto il suo ideale e tutta la sua felicità di giovane moglie. Aveva depositato nel cuore di lui tutti i suoi sogni femminili, tutte le sue migliori e più splendide speranze.

64.           Assalita dalla prima contrarietà della sua vita sociale nella grande città dei genitori, in quel momento sentì la sete bruciante di un chiarimento amico, di una parola affettuosa in grado di ristabilire l’equilibrio nel suo cuore, ora turbato dai primi dispiaceri. Le mancava qualcosa che potesse completare le nobili qualità del suo cuore di donna, qualcosa che doveva essere la presenza materna nella sua educazione. Publio Lentulo, infatti, nella sua cecità spirituale, le aveva formato il carattere nell’orgoglio della stirpe, nelle preziose tradizioni degli antenati, senza sviluppare le sue qualità di riflessione, la cui influenza di Livia avrebbe certamente dato vita per un notevole sviluppo del sentimento.

65.           La giovane patrizia aveva sentito il cuore spezzarsi per una gelosia quasi feroce; ma, comprendendo i doveri che le competevano in tali circostanze, riacquistò la necessaria energia morale per reagire in quella prima battaglia delle sue prove, rispondendo al giovane giudeo e facendo il possibile per dimostrare il massimo della sua severa e calma nobiltà: «Obbligata! Vi ringrazio per la vostra premura nell’avvertirmi: tuttavia, niente mi autorizza a sospettare della retta coscienza di mio marito, anche perché Plinio incarna tutti i miei sogni di sposa e di donna».

66.           «Signora…», rispose il giudeo mordendosi le labbra, «…lo spirito femminile, nella sua fervida immaginazione estranea alla vita pratica, molte volte può ingannarsi circa le apparenze... Mi fa piacere sentirvi parlare, ed apprezzo la vostra illimitata fiducia; tuttavia voglio che rimaniate convinta che, in qualsiasi momento, troverete in me un sincero difensore della vostra felicità e delle vostre virtù!»

67.           Dicendo questo, Saul di Giora presentò i suoi rispettosi saluti, lasciando la povera giovane con le sue impressioni di sorpresa e di amarezza.

68.           I primi contrasti avevano raggiunto la vita coniugale di Flavia Lentulo, senza che lei sapesse come scongiurare il pericolo in grado da minacciare per sempre la sua felicità.

69.           Quella notte Plinio Severo non trovò a casa la creatura meravigliosa e adorabile della sua devozione e del suo amore profondo. Nell’intimità della loro stanza trovò una compagna piena di lamentele eccessive e inopportune, presa da tristezze amare ed incomprensibili. Si verificarono così fra i due i primi attriti che possono rovinare per sempre, nel corso di una vita, la felicità di una coppia, quando i loro cuori non si trovano sufficientemente preparati alla comprensione spirituale, nella situazione delle prove di perdono, benché il cammino divino delle loro anime gemelle sia un percorso glorioso verso i più sublimi destini.

*

70.           Dopo alcuni giorni, Saul ritornò a Marsiglia, sperando di realizzare alcuni affari di carattere commerciale, in modo da tornare a Roma nel più breve tempo possibile, e la vita dei nostri personaggi proseguiva, nella capitale dell’Impero, quasi allo stesso ritmo di sempre.

71.           Il senatore Lentulo continuava ad essere immerso nei suoi pensieri di ordine politico, visitando, sempre quando gli fosse possibile, la residenza della figlia, dove teneva lunghissime conversazioni con Calpurnia, sul passato e sulle necessità del presente.

72.           Quanto a Livia, costretta ad allontanarsi dalla figlia in forza delle circostanze, lontana dalla sua migliore amica d’altri tempi a causa delle incomprensioni, e continuando a vivere lontana dal marito nel medesimo ambiente dei loro affetti più intimi, si era rifugiata nella devota amicizia di Anna, pregando fervidamente e sinceramente.

73.           Ogni giorno entrambe cercavano di pregare, in dolorosa solitudine, vicino a quella stessa croce grezza che Simeone aveva donato a Livia nel suo momento estremo. Molte volte, entrambe in estasi, osservavano che la piccola croce di legno si adornava di una luce delicatissima, e allo stesso tempo sembrava loro di sentire in lontananza, nel santuario del cuore e del pensiero, esortazioni singolari e meravigliose.

74.           Sembrava loro che la voce soave e amica dell’apostolo della Samaria tornasse dal regno di Gesù, per insegnar loro la fede, il compimento del dovere di carità fraterna, la rassegnazione e la pietà. Entrambe piangevano, allora, come se nelle loro anime sensibili e affettuose vibrassero le armonie di un divino preludio della vita celeste.

75.           A quell’epoca, informata da alcuni cristiani più umili, Anna mise la signora al corrente delle riunioni che si tenevano nelle catacombe. Solamente lì potevano riunirsi i seguaci del nascente cristianesimo, poiché fin dal suo primo apparire nella società romana, le idee cristiane furono considerate sovversive e corruttrici.

76.           L’Impero fondato da Augusto, che rappresentava la maggior espressione di uno Stato forte in ogni epoca del mondo, dopo le conquiste democratiche della Repubblica non tollerava nessuna riunione partitica, in materia di dottrine sociali e politiche. A Roma succedeva la stessa cosa che succede oggi tra le nazioni moderne che oscillano fra le più diverse forme di governo, lungo l’asse degli estremismi e dentro l’ignoranza dell’uomo, il quale si ostina nel non comprendere che la riforma delle istituzioni deve cominciare nell’animo delle creature.

77.           Le uniche associazioni ammesse, erano, a quel tempo, le cooperative funerarie, grazie ai loro programmi di pietà e protezione per coloro che ormai non potevano più perturbare i poteri temporali dei Cesari.

78.           Perseguitati dalle leggi, che non tolleravano le loro idee innovatrici, e visti con avversione dalle poderose forze delle tradizioni antiche, i seguaci di Gesù non ignoravano la loro futura condizione di angoscia e sofferenza. Alcuni editti più rigorosi li obbligavano a nascondere ogni manifestazione di fede, per quanto il governo di Claudio cercasse sempre il massimo dell’ordine e dell’equilibrio, senza grandi eccessi nell’esecuzione dei suoi piani.

79.           Alcuni compagni, più preparati nella fede, difendevano pubblicamente le loro tesi per mezzo di lettere, come si usava a quel tempo; ma molto prima dei tenebrosi delitti di Nerone, l’atmosfera dei cristiani primitivi era già costituita da afflizione, angoscia e lavori penosi. Per questo motivo le riunioni nelle catacombe si effettuavano periodicamente, nonostante il loro carattere assolutamente segreto.

80.           Un gran numero di discepoli della Palestina passavano per Roma, portando ai fratelli della metropoli le prediche più edificanti e confortanti. Lì, nel silenzio dei grandi blocchi di pietra, in caverne danneggiate dal tempo, si ascoltavano voci profonde e austere che commentavano il Vangelo del Signore o lodavano le magnificenze del suo regno, al di sopra di tutti i poteri effimeri della malvagità umana. Torce splendenti illuminavano questi vani sotterranei che l’edera nascondeva, mentre le loro porte di pietra davano l’impressione di luoghi angusti, tristi e in supremo abbandono.

81.           Ogni volta che un pellegrino più erudito sugli insegnamenti del Cristo arrivava a Roma, c’era sempre un avviso comune per tutti i convertiti. Il segno della croce, fatto in qualsiasi modo, era il riconoscimento silenzioso tra i fratelli della stessa fede e, fatto in questo o in quel modo particolare, esprimeva un avviso, il cui significato era immediatamente compreso.

82.           Attraverso queste continue comunicazioni, Anna conosceva tutto il movimento delle catacombe e metteva la sua padrona al corrente di tutti i fatti che si svolgevano a Roma riguardo alla dottrina redentrice del Crocifisso.

83.           Così, quando era annunziata la visita di qualche apostolo dalla Galilea o dalle regioni con essa confinanti, Livia faceva in modo di esserci, facendosi accompagnare a piedi dalla serva premurosa e fedele attraversando le strade, nonostante adesso per professare liberamente il suo credo indossasse il suo abbigliamento patrizio, secondo l’autorizzazione del marito. Lei era cosciente che davanti alla società il suo atteggiamento rappresentava un grande pericolo, ma il sacrificio di Simeone era stato un marchio di luce che aveva segnato il suo destino sulla Terra. Aveva acquistato coraggio, serenità, rassegnazione e conoscenza di se stessa per non dover esitare mai a scapito della sua fede ardente e pura.

84.           Se le sue antiche relazioni di amicizia, a Roma, attribuivano il suo cambiamento interiore alla pazzia, se il marito non la comprendeva e se Calpurnia e Plinio rendevano ancora più profondo il grande abisso che Publio aveva aperto tra lei e la figlia, il suo spirito possedeva nella fede un cammino divino per fuggire da tutte le amarezze terrene, sentendo che il divino Maestro di Nazareth le alleviava tutte le ferite dell’anima, avendo pietà del suo cuore frantumato dalle angosce. La fede era per lei come una fiaccola che le illuminava la strada dolorosa e da cui si irradiavano le luci della fiducia umana nella Provvidenza divina, che trasforma le prove penose della Terra in pregustazione delle eterne gioie dell’Infinito.

 

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Cap. XIV

TRAGEDIE E SPERANZE

 

1.                La vita reale è sempre prosaica, senza fantasia né sogni. Così scorre l’esistenza dei personaggi di questo libro, sulla vivente tela delle realtà nude e dolorose dell’ambiente terrestre. Quelli che raggiungono determinate posizioni sociali, così come coloro che si avvicinano al crepuscolo della frammentata vita terrena, hanno poco da raccontare circa il trascorrere di ogni giorno.

2.                C’è un periodo nella vita dell’uomo, in cui sembra che egli non abbia più la necessaria pressione psichica del cuore, affinché si rinnovino i suoi sogni e le sue prime aspirazioni, apparendogli la sua situazione spirituale cristallizzata o stazionaria. Nell’intimo non c’è più spazio per nuove illusioni o per il rifiorire di vecchie speranze, e l’anima, come di chi si trova in un doloroso periodo di aspettativa e forzato silenzio, si arresta lungo il cammino, contemplando quelli che passano, legata ai fili della routine e delle settimane uniformi e indifferenti.

3.                Stiamo vivendo ora nell’anno 57, e la vita degli attori di questo dramma doloroso si presenta quasi invariabile nello svolgersi infinito dei suoi episodi comuni e tristi. Solo nella casa di Calpurnia era avvenuto un gran cambiamento.

4.                Plinio Severo, nelle sue sfolgoranti manifestazioni di vitalità fisica, aveva già ricevuto le maggiori onorificenze da parte delle organizzazioni militari che garantivano la stabilità dell’Impero. Lunghe e periodiche permanenze nelle Gallie e in Spagna gli avevano procurato decorazioni e molto onore, ma nel suo intimo, la vanità e l’orgoglio avevano intensamente proliferato, nonostante la generosità del suo cuore. Le prime aspre gelosie da parte della moglie furono seguite da conseguenze nefaste e dolorose.

5.                Ai criminosi propositi di Saul si unirono le perfide confidenze delle amiche bugiarde, e Flavia Lentulo, lungi dal gioire della vita coniugale, a cui avrebbe avuto diritto per le sue sublimi doti di cuore, era discesa, senza accorgersene, a causa della sua smisurata gelosia, negli abissi tenebrosi della sofferenza e dell’angoscia.

6.                Per un uomo della condizione di Plinio era molto facile sostituire l’ambiente familiare con le feste rumorose del circo, in compagnia di donne allegre, che non mancavano mai in tutti i luoghi della metropoli del peccato. In poco tempo, l’affetto della moglie fu sostituito con il falso amore di numerose amanti.

7.                Inutilmente Calpurnia cercò d’interporre i suoi buoni uffici e i suoi affettuosi consigli, e invano la giovane sposa dell’ufficiale romano proseguì nel suo martirio imperturbabile e silenzioso. Le rare lamentele erano riservate al cuore generoso della madre di suo marito, o confidate all’animo comprensivo del padre attraverso confessioni amare e penose.

8.                Publio Lentulo, comprendendo l’importanza della donna nella rigenerazione dei costumi e nella rinascita del focolare domestico, incitava la figlia alla più grande rassegnazione e tolleranza, facendole comprendere che la sposa di un uomo è l’onore del suo nome e l’alimento della sua vita, e che, mentre un marito si perde nel vortice delle passioni sfrenate, facendosi beffe di tutti i beni della vita, basta a volte la lacrima di una moglie perché la pace coniugale torni a brillare nel cielo senza nubi dell’affetto puro e reciproco.

9.                Per lo spirito di Flavia, la parola paterna aveva un valore di indiscutibile verità, ed ella cercò di rifugiarsi nelle sue promesse e nei suoi consigli, che riteneva preziosi, aspettando sempre il ritorno del marito al suo amore, come una delle benedizioni della vita.

10.           Mentre succedeva questo, Plinio Severo dissipava al gioco e nei divertimenti una vera fortuna. La sua prodigalità con le donne era divenuta proverbiale nei centri più eleganti della città, e raramente egli ricercava l’ambiente familiare, dove inoltre tutti gli affetti si univano per illuminargli dolcemente l’animo che si era allontanato dal buon cammino.

11.           La morte del vecchio pretore Salvio Lentulo prima dell’anno 50, aveva obbligato i familiari di Publio e quelli che rimanevano di Flaminio a seguire i protocolli sociali insieme a Fulvia e a sua figlia, in occasione degli omaggi offerti alle ceneri del defunto che, avvolto nel mistero della sua passività rassegnata ed incomprensibile, era passato all’altro mondo.

12.           Bastò quell’occasione perché Aurelia riprendesse l’opportunità perduta. Uno sguardo, un incontro, una parola, e il figlio minore di Flaminio, attratto dalle bellezze peccaminose, ristabilì il legame affettivo che un amore santificante e puro aveva in precedenza distrutto. In breve, i due erano stati visti, con sguardi tra loro inequivocabili, nei teatri e nei circhi o alle grandi riunioni sportive dell’epoca.

*

13.           Di tutti questi dolori, Flavia Lentulo aveva fatto il suo calvario di silenziose agonie dentro la casa che la sua fedeltà onorava. Nelle sue silenziose meditazioni, molte volte deplorò gli antichi sfoghi di ingiustificata gelosia che avevano costituito la prima porta attraverso cui il marito si era allontanato dai sacri doveri della famiglia; ma nel suo orgoglio di patrizia, pensava che fosse molto tardi per qualsiasi pentimento da parte sua, considerando intimamente che l’unico rimedio fosse quello di aspettare il ritorno dello sposo al suo cuore fedele e devoto, con la massima umiltà e pazienza. Nei suoi momenti di tristezza, scriveva pagine amare e illuminate dai sublimi concetti che traducevano, ora implorando con fervide suppliche la pietà degli dèi, ora esternando in versi commoventi le sue intime angosce. Questi versi venivano letti solo da suo padre che, piangendo di commozione, molte volte si chiedeva se la sventura coniugale della povera figlia non fosse anch’essa un’eredità singolare e dolorosa.

14.           Verso l’anno 53, scompariva in tragiche circostanze, nelle scure braccia della morte, una delle figure più importanti di questa storia. Ci riferiamo a Fulvia che, due anni dopo la morte del compagno, accusò serissime perturbazioni mentali, oltre a preoccupanti fenomeni organici, causati dalle sue passate stravaganze.

15.           Ferite cancerose le divoravano i centri vitali e, per due anni di seguito, il suo corpo dimagrito fu costretto alle più penose e scomode posizioni di riposo, mentre gli occhi inquieti e stralunati danzavano nelle orbite come se nelle sue allucinazioni fosse obbligata a contemplare le visioni più paurose e tenebrose.

16.           In quelle occasioni non trovava la dedizione della figlia che non aveva saputo educare, sempre occupata nei suoi obblighi di feste, di incontri e di numerose rappresentanze sociali. Ma la misericordia divina, che non abbandona gli esseri più infelici, le aveva dato un figlio caritatevole e pieno di compas­sione per i dolori espiatori.

17.           Emiliano Lucio, il marito di Aurelia, era uno di questi uomini degni e valorosi, rari nella pazienza e nelle più elevate virtù familiari. Passava notti e notti accanto all’infelice vecchietta, che i dolori fisici castigavano senza pietà, con la sofferenza di atroci supplizi. Nei suoi ultimi giorni ascoltiamo le sue parole sconnesse e dolorose.

18.           A notte alta, quando le sue schiave riposavano, vinte dalla fatica e dal sonno, sembrava che il suo udito di pazza si acuisse spaventosamente per udire i rumori dell’invisibile, rivolgendo rimproveri alle sue antiche vittime che tornavano dalle più basse sfere spirituali per collocarsi intorno al suo letto di sofferenza e di morte. Gli occhi smisuratamente sgranati, come se fissasse visioni fatidiche ed orrende, la povera vecchia, al colmo delle sue frequenti crisi di paura e di incosciente disperazione, avvinghiandosi al genero, esclamava con espressione di grande paura: «Emiliano, questa camera è piena di esseri tenebrosi! ...Non vedi? ...Ascolta bene! ...Senti i loro violenti rimproveri e le loro sghignazzanti risate! ...Tu hai conosciuto Sulpicio Tarquinio, il grande littore di Pilato? ...Eccolo che arriva con i suoi legionari mascherati da tenebre! ...Parlano della morte! Parlano della morte! ...Soccorrimi, figlio mio... Sulpicio Tarquinio ha un corpo di drago che mi fa paura!»

19.           Crisi di singhiozzi e lacrime seguivano a queste osservazioni angosciose.

20.           «Calmati, madre» esclamava il militare, costernato fino alle lacrime. «Cerchiamo di aver fiducia nella bontà infinita degli dei!»

21.           «Ah!... Gli dèi!» gridava ora l’infelice, tra isteriche risate «Gli dèi!... Dove sarebbero gli dèi di questa casa infame? Emiliano! Emiliano! È che noi abbiamo creato gli dèi per giustificare le pazzie della nostra vita. L’Olimpo di Giove è una falsità necessaria allo Stato... Siamo teschi rivestiti sulla Terra con una manciata di polvere! ...L’unico luogo che deve esistere realmente è l’inferno, dove stanno i demoni con i loro forconi nel braciere, ...Eccoli che vengono in nere falangi!»

22.           E, avvinghiandosi con forza al petto dell’ufficiale, gridava disperatamente, come se cercasse di nascondere il viso a delle ombre che la minacciavano: «Non mi porterete mai via, maledetti! ... Indietro, …canaglie! Ho un figlio che mi difende dai vostri attacchi minacciosi! ...»

23.           Emiliano Lucio accarezzava affettuosamente i capelli bianchi della sventurata signora, invitandola ad implorare la misericordia degli dèi, in modo che le si attenuassero gli atroci dolori.

24.           Altre volte, Fulvia Procula, come se avesse la coscienza risvegliata da un raggio divino, diceva, più calma, al figlio che il destino le aveva dato: «Emiliano, sto avvicinandomi alla morte e sento la necessità di confessarti le mie mancanze e i miei errori. Perdonami, figlio, se ti ho procurato così grande fatica! La mia vita molto miserabile è stata una lunga serie di delitti, le cui macchie orrende non potranno essere lavate dalle lacrime stesse dell’infermità, che ora mi trascina verso gli impenetrabili segreti di un’altra vita! Mai però cercai di pensare alle sofferenze terribili che mi avrebbero aspettato. Oggi, sotto le pesanti ombre della mia anima, sento che la mia coscienza è annerita dai tizzoni che provengono dal fuoco delle passioni nefaste che mi divorarono il penoso destino!... Sono stata una sposa sleale e senza pietà, …e una madre snaturata.

25.           Chi avrà pietà di me, se ci sarà un barlume di spiritualità dopo le ceneri del tumulo? Da questo letto di pazzia e agonia disperata, vedo un lungo corteo di fantasmi paurosi, che sembrano aspettarmi alla soglia del sepolcro!... Tutti mi rinfacciano i miei crimini passati e si mostrano allegri per le sofferenze che mi trascinano alla tomba.

26.           Senza un credo sincero, mi sento abbandonata a questi draghi dell’imponderabile che mi fanno ricordare il passato delittuoso e oscuro!...»

27.           Un torrente di lacrime di pentimento seguivano a questi vertiginosi momenti di lucido raziocinio.

28.           Emiliano Lucio le accarezzava con affetto la faccia grinzosa, immedesimandosi egli stesso in dolorose preoccupazioni. Quel quadro straziante era la fine tempestosa di una vita di cadute clamorose.

29.           Sì... Egli capiva tutto in quel momento. La ribellione della moglie, la sua incomprensione, gli attriti familiari, quella sete insaziabile di feste rumorose in cerca di un affetto che non era quello di lui, dovevano essere i frutti amari di un’educazione manchevole e corrotta. Ma il suo cuore traboccava di una generosità senza limiti. Spirito valoroso, comprendeva la situazione, e chi comprende sa perdonare.

30.           Una notte in cui la malata era in preda a crisi acute e profonde, il buon ufficiale ordinò alle serve che andassero a dormire. La povera dissennata parlava sempre come se fosse dominata da un’energia inesauribile e incomprensibile. Copioso sudore le inondava la fronte, mentre una febbre alta e costante la consumava.

31.           «Emiliano», gridò lei disperata, «dov’è Aurelia, che non si dà pensiero di vegliare al mio capezzale alla vigilia della morte? Come le false amiche della mia vita, anche lei ha orrore del mio corpo?»

32.           «Aurelia», spiegò generosamente l’ufficiale, «oggi doveva, con alcune amiche, assolvere un obbligo nell’organizzazione di alcuni servizi sociali».

33.           «Ah!» esclamò la demente sghignazzando, «I servizi sociali! ... I servizi sociali! ... Come puoi credere a questo, tu, figlio mio? Tua moglie, a quest’ora deve essere al fianco di Plinio Severo, suo vecchio amante, …in qualche luogo sospetto di questa città miserabile!»

34.           Emiliano Lucio fece il possibile perché l’infelice, completamente uscita di senno, non continuasse nelle sue terribili e impressionanti rivelazioni, ma Fulvia continuò nel suo racconto scandalistico, tremendo e doloroso.

35.           «No! ... non impedirmi di continuare...» proseguì disperata. «Ascoltami ancora! Tutte le mie accuse rappresentano la triste realtà... Molte volte la verità sta dalla parte di coloro che sono pazzi!... Fui io stessa ad avviare la mia infelice figlia al tradimento coniugale... Plinio Severo era il nemico che lei doveva vincere, come donna... Io le ho facilitato l’adulterio che si consumò sotto questo tetto!... Renditi conto, figlio mio, dell’enormità delle mie colpe!... Prova orrore, ma perdona!... E sorveglia tua moglie perché non continui a tradirti con le sue turpi perfidie, e non giunga un giorno a imputridire, compassionevolmente, come me, …in un letto di sete profumate!»

36.           Il generoso militare seguì a bocca aperta e afflitto quelle rivelazioni spaventose. Quindi la sposa, oltre a non comprenderlo nel suo idealismo, lo tradiva ancora vergognosamente nello stesso sacrosanto ambiente del focolare? Emozioni drammatiche gli si accumulavano nel cuore, ma probabilmente tutte quelle parole non erano altro che un semplice delirio febbrile della pazzia incurabile. Tuttavia un dubbio orribile e impietoso si era annidato nel suo cuore angosciato. Alcune lacrime inumidirono i suoi grandi occhi tristi, mentre la malata dava una tregua alle sue penose rivelazioni.

37.           Dopo brevi minuti, però, con voce incerta continuò: «E Aurelia? Cosa ne è stato di Aurelia che ancora non viene? Dove sarà andata la mia povera figlia criminale e infedele? Domani, figlio mio, devo raccontarti gli infami segreti della nostra sventurata esistenza».

38.           Nel frattempo qualcuno era entrato nella camera accanto con cautela e silenziosamente. Era Aurelia che tornava da una festa molto allegra dove vino e piaceri erano stati consumati in abbondanza.

39.           Passando davanti alla porta vicino alla sua, udì le ultime parole della madre, al colmo della febbre e della disperazione. Lei, che aveva ascoltato le tristi rivelazioni di poco prima, pensò che la malata, il giorno dopo, avrebbe mantenuto la terribile promessa e, in un istante, esaminò tutte le possibilità di messa in atto di un’idea tenebrosa che le era passata per la mente criminosa e infelice. I suoi occhi sembrarono oscurati dalla collera, sotto l’incubo di un morboso pensiero che le era affiorato repentinamente nel cuore gelido e senza pietà.

40.           Si tolse le vesti della festa, reintegrandosi negli aspetti intimi della famiglia, e aprì la porta andando verso il letto della madre, dove accarezzò la malata, ipocritamente, mentre il marito stupefatto la contemplava sotto il peso dei dubbi più crudeli.

41.           «Mamma, che succede?» domandò, ostentando una preoccupazione fittizia. «Tu sei stanca... hai bisogno di un po’ di riposo».

42.           Fulvia la guardò, fissandola come se un barlume di lucidità le avesse illuminato all’improvviso lo spirito turbato. La presenza della figlia tranquillizzava in qualche modo il suo cuore affranto e la sua coscienza lacerata. Con uno sforzo sedette sul letto, accarezzò i capelli della figlia, come sempre era solita fare nell’intimità, quindi si stese nuovamente sembrando ben disposta a riposare.

43.           Emiliano Lucio si ritirò dalla scena, pensando che la sua presenza non fosse ormai più necessaria. Ma Aurelia continuò a parlare col suo falso affetto: «Vuoi, mamma, una dose di calmante per un riposo come si deve?»

44.           La povera pazza, nella sua incoscienza spirituale, fece un cenno affermativo con la testa. La giovane si avviò verso il suo appartamento privato e, prendendo un tubetto da uno dei suoi mobili preferiti, lasciò cadere alcune gocce di sedativo in un bicchiere, dicendo tra sé e sé: “Sì... un segreto è sempre un segreto... e solo la morte può custodirlo seriamente!...”

45.           Si diresse senza esitazione verso il letto della madre, dove da oltre due anni giaceva l’infelice, divorata dal cancro e tormentata dalle visioni più strane e tenebrose. In un attimo, l’orribile avvelenamento era stato perpetrato. Somministrata la pozione corrosiva e violenta, Aurelia decise che due schiave vigilassero il sonno dell’inferma, come d’abitudine al suo ritorno dalle nottate di festa, aspettando il risultato dell’azione delittuosa e ingiustificabile.

46.           Dopo due ore l’inferma presentava i più evidenti segni di soffocamento sotto l’azione del veleno, che costituiva uno di quei misteriosi filtri assassini dell’epoca. Alla chiamata urgente delle schiave, tutte le persone di casa erano in piedi, ciascuna al suo posto, vista la gravità estrema dell’inferma.

47.           Emiliano Lucio guardò i suoi occhi che andavano spegnendosi nel velo della morte, e inutilmente cercò di farsi dire dall’agonizzante ancora una parola. Le sue membra fredde si erano irrigidite a poco a poco e dalla bocca cominciò ad uscirle una schiuma rosea.

48.           Invano furono chiamati gli specialisti della medicina, in quegli ultimi istanti. A quell’epoca né i medici conoscevano i segreti anatomici dell’organismo, né esisteva una polizia scientifica per indagare le cause profonde delle morti misteriose. L’avvelenamento di Fulvia passò come conseguenza naturale delle malattie incomprensibili che durante molti mesi le avevano distrutto tutti i centri vitali.

49.           Tuttavia, quell’agonia rapida non passò inosservata a Emiliano, il quale ebbe un dubbio penoso in più fra i pensieri amari e tristi che lo turbavano nel più profondo dell’animo.

50.           Aurelia cercò di rappresentare nel miglior modo il dramma dei suoi sentimenti in simili circostanze, e dopo le cerimonie funebri, semplici e rapide, vista l’immediata decomposizione del cadavere, ordinò che la cremazione avvenisse entro poche ore. Fu così che l’antica casa del pretore Salvio Lentulo divenne il rifugio di due cuori che si odiavano reciprocamente.

51.           Se la sposa infedele, subito dopo i primi giorni di lutto, era ritornata alla sua allegra vita di piaceri, Emiliano Lucio mai poté dimenticare le rivelazioni che Fulvia gli aveva fatto il giorno prima di morire, e si avvolse in un velo di tristezza che coprì il suo cuore per oltre due anni.

*

52.           Nel 54 salì al trono Nerone, accompagnato da una corte depravata di adulatori perversi e di concubine tanto numerose quanto malvagie.

53.           Molto tardi Agrippina[11] riconobbe l’indegnità del suo atteggiamento di madre, obbligando l’imperatore Claudio ad acconsentire al matrimonio di sua figlia Ottavia con colui che, più tardi, l’avrebbe eliminata dalla propria vita con le più grandi raffinatezze della perversione.

54.           Il Foro e il Senato ricevettero, tremando, la tenebrosa notizia della proclamazione del nuovo Cesare, per mezzo delle legioni pretoriane. E tremarono non solo per lui, ma anche perché sapevano, in anticipo, che quel principe ignorante e crudele sarebbe stato un facile fantoccio nelle mani degli spiriti più ambiziosi e più perversi della corte romana.

55.           Nessuno tuttavia ardì protestare tale serie di delitti misteriosi, commessi impunemente, affinché Nerone raggiungesse le scene del potere supremo.

*

56.           Nell’anno 56, l’avvelenamento del giovane Britannico[12] provocò brividi di terrore in tutti i patrizi. Misure vergognose furono messe in pratica per umiliare i senatori dell’Impero, i quali non riuscirono a rendere effettive le loro proteste formali. Tutte le famiglie più importanti della città sapevano che, davanti a loro, avevano i filtri velenosi di una locusta, la tirannia e la perversità di un tigellino o il pugnale di un aniceto.

57.           La morte inattesa di Britannico, tuttavia, aveva provocato un certo scontento, facendo sì che si manifestassero alcuni tra gli spiriti più valorosi. Tra questi si trovava Emiliano Lucio, che si vide subito in serie possibilità di esilio, diventando un vigilato da parte degli sbirri dell’imperatore.

58.           Il generoso ufficiale cercò di ritirarsi quanto più gli fosse possibile, evitando ogni occasione di conflitto. Così, le sue intime angosce ebbero una recrudescenza, e le sue meditazioni si fecero più profonde e più dolorose.

59.           E così avvenne che, alle prime ore di una notte tranquilla, quando rientrò in casa, contrariamente alle sue abitudini più antiche, notò che l’appartamento della moglie era pieno di voci animate e allegre. E capì che Aurelia e Plinio si stavano ubriacando nell’ebbrezza dei loro velenosi piaceri e, con gli occhi spalancati per la sorpresa, vide che la sposa lo tradiva nello stesso talamo nuziale.

60.           Emiliano Lucio sentì che una spina più acuta gli trafiggeva il cuore sensibile e generoso, nel verificare con i suoi stessi occhi quella crudele realtà. Ebbe l’impulso di chiamare l’amante sul campo dell’onore, per morire egli stesso o per sottrarre a quello la vita, ma, allo stesso tempo, considerò che Aurelia non meritava un simile sacrificio.

61.           Disgustato da tutto quello che si riferiva alla sua epoca e sentendosi vinto dalle sventure del suo penoso destino, il nobile ufficiale si ritirò nell’antico studio del pretore Salvio, dove aveva stabilito la sede dei suoi lavori quotidiani e, catturato da una sinistra e dolorosa decisione, aprì un vecchio armadio dove erano allineate alcune boccette e ne prese una, speciale, per mettere in atto gli amari propositi del suo spirito esausto.

62.           Davanti alla coppa di cicuta, il cervello, sofferente, si perse per alcuni minuti in penose congetture, ma, studiando intimamente tutte le probabilità della sua sorte, pensò, al colmo della disperazione, che al tradimento della moglie, alle minacce di espulsione e di esilio o alla possibilità di un agguato nelle tenebre, era preferibile ciò che egli considerava il conforto ultimo della morte.

63.           In un attimo, senza che gli amici spirituali potessero allontanarlo dal proposito terribile, tale la repentinità del gesto disperato e irriflessivo, bevve il contenuto della piccola coppa, appoggiando in seguito la giovane testa sulle braccia, sdraiato su un letto del triclinio, adattato a suo studio, ricco di marmi e pieno di pergamene preziose.

64.           La morte orribile non si fece attendere molto e, nel circolo delle sue numerose relazioni di amicizia, mentre Aurelia rappresentava una nuova farsa di dolore immaginario, si commentò il suicidio di Emiliano non come diretta conseguenza delle sue profonde disillusioni familiari, ma come frutto della ti­rannia politica del nuovo imperatore, sotto il cui governo tanti delitti erano stati commessi ogni giorno, nell’ombra.

65.           Sola, ora, nel suo campo di azione, Aurelia si diede liberamente ai suoi eccessi, aumentando le sue inclinazioni nocive e cercando, ogni volta di più, di trattenere vicino a sé l’uomo delle sue preferenze, oggetto delle sue sfrenate ambizioni.

66.           Nella casa dei Lentulo e dei Severo, la vita continuava a sgranare il rosario delle sventure.

67.           Erano più di cinque anni, nel 57, che Saul di Giora si trovava definitivamente sistemato a Roma, senza avere rinunciato ai suoi desideri e propositi riguardo alla sposa dell’amico e benefattore. Consolidata la sua fortuna con il commercio di pelli dall’Oriente, non perdeva le più piccole occasioni per mettere in rilievo la sua eccellente situazione economica davanti alla donna ardentemente desiderata da lunghi anni. Flavia Lentulo, invece, aveva fatto della sua vita un calvario di rassegnazione commovente e silenziosa.

68.           La vita pubblica del marito era, per il suo spirito, un doloroso e prolungato supplizio morale. Sull’argomento Saul faceva di quando in quando allusioni indirette, con l’intento di richiamare l’attenzione di Flavia sul suo affetto, ma la povera signora non vedeva altro ruolo in lui che quello di un amico o di un fratello. Invano il giovane giudeo le testimoniò la sua ammirazione personale, con gesti di estrema gentilezza, cercando di offrirle la sua compagnia; ma la verità è che i richiami della sua anima impetuosa e appassionata non incontravano risonanza nel cuore dì quella donna, che adornava col dolore la dignità del matrimonio.

69.           Attratto dalla forza del suo denaro, Araxe lo animava di speranze per non lasciare affievolire i suoi pericolosi istinti.

70.           Plinio Severo andava a casa raramente, giustificando con frequenti servizi o viaggi le sue continue assenze. Poco si preoccupava che le spese astronomiche stessero rovinando a poco a poco le sue possibilità finanziarie, trascinando anche i suoi familiari all’esaurimento di ogni loro avere.

71.           Alcune volte intratteneva affettuosi colloqui con la moglie, alla quale si sentiva legato da legami di affetto eterno e profondo, ma le seduzioni del mondo erano ormai troppo forti nel suo cuore, per essere estirpate. Nel suo intimo desiderava tornare alla quiete della casa, alla vita affettuosa e tranquilla; ma il vino, le donne e gli ambienti lussuosi erano la continua ossessione del suo spirito debole. Altre volte, pur amando la sposa teneramente, non le perdonava la prerogativa della sua superiorità morale, irritandosi contro la stessa umiltà che lei mostrava davanti ai suoi errori, e tornava nuovamente nelle braccia di Aurelia, come vittima indecisa tra le forze del bene e del male.

*

72.           Nell’anno 57 la salute di Calpurnia, scossa all’estremo, aveva obbligato la famiglia a riunirsi intorno al letto della generosa matrona. Per la prima volta dopo il matrimonio del fratello, Agrippa Severo tornò dalle sue lunghe imprese a Marsiglia e ad Avenio, per essere vicino alla madre inferma e sfinita, rispon­dendo ai suoi tristi richiami. Reincontrare Flavia Lentulo e partecipare con lei alle dolcezze della vita domestica, fu lo stesso che riattivare un vecchio vulcano addormentato.

73.           A colpo d’occhio comprese la situazione coniugale di Plinio, cercando di sostituirne l’affetto accanto alla sposa triste e buona. Desiderava confessarle tutto il suo amore ardente e infelice, ma nel cuore custodiva sublime rispetto fraterno per quella donna, che confidava in lui come in un fratello molto caro.

74.           Fu così che, nell’alternarsi dei miglioramenti della vecchia inferma, Flavia accettò la sua compagnia per divertirsi un po’ ad alcuni spettacoli della rumorosa città di quell’epoca.

75.           Tanto bastò perché Saul avvelenasse la situazione, intravedendo in queste innocenti manifestazioni un rapporto meno degno, che riempiva di paurose gelosie il suo animo violento e irascibile.

76.           Alla prima occasione insinuò in Plinio Severo tutti i suoi capziosi sospetti, inventando, con la sua immaginazione malata, situazioni ed avvenimenti che mai si erano verificati. Il marito di Flavia era uno di quegli uomini capricciosi che, organizzando un circolo di libertà illimitata per se stessi, nulla concedono alla moglie, nemmeno sul terreno degli affetti disinteressati e puri. In questo modo, Plinio Severo cominciò a seguire le parole di Saul, concedendo ai suoi insensati racconti il più largo credito nel più profondo del suo animo.

77.           Lui, che aveva lasciato nell’abbandono l’affettuosa compagna e che per molti anni era stato causa delle più penose amarezze domestiche, si sentì preso da acre e inconcepibile gelosia, cominciando a spiare i più piccoli gesti del fratello e a dubitare dei più intimi pensieri della sposa, aspettando che la malattia irrimediabile di sua madre giungesse alla soluzione della morte, che si presumeva imminente, per affermarsi con maggior forza nella rivendicazione dei suoi diritti coniugali.

*

78.           Si entrava nell’anno 58, con amare previsioni per i nostri personaggi. Un fatto, però, cominciò a colpire l’attenzione di tutti i personaggi di questa storia reale e dolorosa. La dedizione di Livia per la sua vecchia amica malata era un esempio raro di amore fraterno, di affetto e di bontà indescrivibili. Per otto mesi consecutivi, la sua figura esile e silenziosa rimase sempre al suo posto, giorno e notte, senza riposo, accanto al letto di Calpurnia, provandole con l'esempio l’eccellenza dei suoi principi religiosi.

79.           Molte volte la nobile matrona considerò, intimamente, la superiorità morale di quella dottrina generosa, che esisteva nel mondo per risollevare i caduti, confortare gli infermi e gli afflitti, offrendo le più belle speranze ai disillusi della sorte, in confronto ai suoi vecchi dèi che amavano i più ricchi e quelli che offrivano i migliori sacrifici nei templi. E quel Gesù umile e povero, scalzo e crocifisso, di cui Livia le parlava nelle sue conversazioni intime e affettuose...

80.           Calpurnia era completamente cambiata alla vigilia della sua morte. La convivenza continua della vecchia amica le aveva rinnovato tutte le idee e tutte le credenze più radicate. Trattava meglio le schiave che le stavano attorno al letto, e aveva chiesto a Livia che le insegnasse le orazioni del profeta crocifisso a Gerusalemme, orazioni che entrambe recitavano a mani giunte, quando l’appartamento dell’inferma era silenzioso e deserto. In quei momenti, la vedova di Flaminio Severo sentiva che i dolori diminuivano, come se un balsamo soave le rinvigorisse i centri più profondi dell’energia vitale; la dispnea cessava e la respirazione quasi si normalizzava, come se profonde energie dal piano invisibile le rianimassero il cuore malato e stanco.

81.           Allo spirito di Publio non passarono inavvertiti questi sintomi di cambiamento morale della vecchia matrona; né, men che poco, il nobile comportamento della sposa, la quale non si concesse più riposo, fin dall’istante in cui l’aveva vista inerme ed esausta. Le sofferenze della vita avevano anche modificato molto la struttura della condotta spirituale del senatore che, come non mai prima di allora, sentiva la necessità di riconciliarsi con la sposa per affrontare insieme gli inverni penosi della vecchiaia che si avvicinava.

82.           Non solo lui, ma anche Livia avevano oltrepassato il mezzo secolo di vita, e ora che conosceva bene la vita e i suoi dolorosi meccanismi di perfezionamento, si sentiva capace di perdonare tutti gli errori del passato della sposa, considerando che i suoi venticinque anni di martirio morale, nel sacro ambiente della casa, potevano considerarsi sufficienti per redimerla dalle mancanze che, per caso, avesse commesso, nelle illusioni della gioventù, in terra straniera, secondo quanto supponeva da quelle false osservazioni, figlie anche della calunnia, che gli avevano distrutto il destino e la pace di un’intera esistenza.

83.           Nei primi giorni dell’anno 58 le sofferenze di Calpurnia si erano improvvisamente aggravate e ci si aspettava da un momento all’altro la sua penosa fine. I figli e i più intimi circondarono il suo letto estremamente commossi, nonostante riconoscessero la necessità del riposo per quel corpo malato e sfinito.

84.           Due giorni prima della morte, la veneranda signora chiese che la lasciassero sola col senatore, per alcune ore, adducendo la necessità di affidare a Publio Lentulo delle disposizioni in extremis.

85.           Esaudita immediatamente, li incontriamo in intimo colloquio come se stessero insieme per l’ultima volta, per decidere su argomenti importanti e supremi. Publio, ancora nel pieno vigore della sua costituzione fisica, aveva gli occhi pieni di lacrime, mentre l’anziana matrona lo guardava lasciando trasparire un bagliore di viva lucidità negli occhi calmi e profondi.

86.           «Publio…», cominciò lei gravemente, come se quelle parole fossero le sue ultime raccomandazioni «…per gli spiriti della nostra formazione culturale non può esistere il timore della morte, ed è per questo motivo che ho deciso di parlare con te nelle mie ultime ore...»

87.           «Ma, mia buona amica», rispose il senatore aggrottando la fronte e sforzandosi di nascondere la commozione che gli traboccava dall’anima, ricordando ciò che, nelle stesse circostanze, gli aveva detto Flaminio per l’ultima volta tra le pareti di quella stessa stanza, «solo gli dèi possono decidere dei nostri destini, e …solo essi conoscono i nostri ultimi istanti!»

88.           «Non dubito di queste verità…», aggiunse la coraggiosa patrizia, «…ma ho la certezza che le mie ore sulla Terra stiano per arrivare al termine, e non voglio portare nella tomba il rimorso di una colpa che riconosco di aver commesso più di dieci anni fa».

89.           «Una colpa? Mai! ... La vostra vita, Calpurnia, è stata sempre uno dei più rari esempi di virtù in quest’epoca di transizione e di degenerazione dei nostri più bei costumi.»

90.           «Ti ringrazio, mio grande amico, ma la tua gentilezza non mi esime dalla penitenza davanti al tuo animo, affermando che più di dieci anni fa errai in un mio giudizio, e ti chiedo oggi di accogliere la mia rettifica, forse tardiva, ma ancora in tempo affinché santifichiamo, con il rispetto più giusto, …una vita di sacrifici e di abnegazioni!»

91.           Publio Lentulo capì che si trattava di sua moglie e, con la voce rotta dalla commozione e dalle lacrime, lasciò che la vecchia amica continuasse, con gli occhi asciutti, a manifestare l’elevatissimo valore morale davanti alla morte che si avvicinava.

92.           «Mi riferisco a Livia», continuò Calpurnia in tono commosso «riguardo alla quale io ebbi l’infelicità di trasmetterti una supposizione erronea ed ingiusta, troncandole l’ultima possibilità di fortuna sulla Terra; ma la morte rinnova le nostre concezioni della vita, e coloro che sono vicini ad abbandonare questo mondo posseggono una più chiara visione di tutti i problemi dell’esistenza. Oggi, amico mio, ti dico, con l’anima serena, che la tua sposa è immacolata e innocente...»

93.           Il senatore sentiva il pianto sgorgargli spontaneamente dagli occhi, ma era intimamente consolato nel sapere che la venerabile amica confermava, ora, le convinzioni che il tempo gli aveva rinsaldato riguardo la nobilissima compagna della sua vita.

94.           «Non te lo dico semplicemente per una questione di egoismo personale, in segno di ringraziamento per la grande dedizione di Livia verso di me nel corso di questa dolorosa malattia» continuò ella coraggiosamente. «Uno spirito della nostra stoffa deve sempre stare dalla parte della verità, sopra ogni cosa, e questa mia confessione non avviene solo per la mia totale debolezza umana.

95.           La realtà, tuttavia, amico mio, è che fin da quella notte in cui tu mi chiedesti di darti il mio parere sulla tua sposa e mia intima amica, sento la spina di un dubbio crudele nel mio cuore lacerato. Livia è stata sempre la mia compagna migliore, e contribuire alla sua sventura, senza ragione, era ai miei occhi la maggior colpa di tutta la vita...

96.           Per undici anni ho pregato sempre, ho offerto molti sacrifici nei templi, perché gli dèi mi ispirassero la verità sull’argomento, e per tutto questo tempo ho aspettato pazientemente la rivelazione dal Cielo... Solo oggi, però, mi è stato concesso di ottenerla, …ormai alle porte del sepolcro.

97.           È possibile che la mia povera anima, già quasi libera, partecipi agli incomprensibili misteri della vita dell’aldilà, e forse sarà per questo che stamattina ho visto la figura di Flaminio, qui in camera!... Era molto presto ed io ero sola con le mie meditazioni e le mie preghiere!»

98.           Nel frattempo, la parola dell’inferma si interruppe a causa della profonda emozione che la dominava, mentre Publio Lentulo piangeva, in triste silenzio.

99.           «Sì», proseguì Calpurnia dopo una lunga pausa, «in mezzo a una luce diffusa e azzurrina, …ho visto Flaminio che mi tendeva le braccia amorevoli e pietose. Nel suo sguardo ho notato la stessa abituale espressione di tenerezza, e nella voce quel timbro familiare indimenticabile... Mi ha avvertito che entro due giorni penetrerò i segreti imperscrutabili della morte, ma questa rivelazione della mia prossima fine non poteva sorprendermi perché… per me... che da tanti anni vivo nel mio esilio di nostalgia e ombre... inasprito dalle continue angosce dell’infermità, lunga e dolorosa... la certezza della morte costituisce un supremo conforto... Consolata dalle dolci promesse della visione che mi auguravano questo dolce sollievo entro poche ore... ho interrogato lo spirito di Flaminio sul dubbio crudele che mi affliggeva da tanti anni. E bastato che io lo pensassi, perché la radiosa entità mi dicesse a voce alta... scuotendo la testa con un cenno delicato... come a esprimere un’infinita e dolorosa tristezza: “Calpurnia, in un momento cattivo tu hai dubitato di colei che tu avresti dovuto amare... e proteggere come una figlia cara e affettuo­sa... perché Livia... è una creatura immacolata e innocente...”

100.      In quel momento...» continuò l’inferma con qualche difficoltà, «tale fu l’impressione dolorosa della mia anima... per la sorpresa della risposta... che non ho più avuto quella visione affettuosa e consolatrice.... come se all’improvviso fossi chiamata alle tristi realtà della vita pratica...»

101.      La vecchia matrona aveva gli occhi pieni di lacrime, mentre il senatore si abbandonava silenziosamente al pianto delle sue penose commozioni.

102.      Per lunghi minuti rimasero entrambi così, nell’atteggiamento di chi stia macerando nel rimorso e nella sofferenza... Infine, fu ancora la coraggiosa patrizia che ruppe il pesante silenzio, e prendendo le mani dell’amico tra le sue, scarne e pallide, esclamò:

103.      «Publio, ti parla il cuore di una vecchia amica, con le verità serene e tristi della morte... Credi tu pienamente nelle mie dolorose rivelazioni?»

104.      Il senatore fece uno sforzo per asciugare le lacrime che copiose gli sgorgavano dagli occhi e, appellandosi a tutte le sue energie, rispose con fermezza: «Sì, ci credo!»

105.      «E cosa faremo ora... per riparare le nostre colpe... davanti al cuore generoso e giusto di tua moglie?»

106.      Egli lasciò trasparire una luce di tenerezza negli occhi e, passandosi le mani inquiete sulla fronte, come se avesse trovato una soluzione quasi felice, si rivolse alla malata con un’espressione di gioia e di tranquillità sul viso, dicendo confortato: «Lo sai che fra pochi giorni si realizzerà la grande festa dello Stato, nella quale i senatori con più di vent’anni di servizio per l’Impero saranno coronati di mirto e di rose come i trionfatori?»

107.      «Sì», rispose la matrona, «tanto che ho già chiesto ai miei figli che, nonostante la mia morte vicina... ti accompagnino in questo momento di giusta felicità... perché tu sarai uno dei festeggiati dalle nostre autorità supreme...»

108.      «Oh, mia grande amica: nessuno attende la vostra morte, anche perché non potremmo fare a meno del prezioso contributo della vostra vita! Però, giacché stiamo cercando di riparare il grave errore del mio doloroso passato, aspetterò ancora una settimana per portare allo spirito di Livia l’espressione del mio ravvedimento, della mia gratitudine e del mio profondo amore. Andrò a questa festa che si realizzerà sotto gli auspici di Seneca, il quale ha fatto di tutto per dissimulare la penosa impressione causata dalla crudele condotta dell’imperatore, suo antico discepolo. Dopo che avrò ricevuto la corona della suprema vittoria della mia vita pubblica, collocherò tutte le decorazioni ai piedi di Livia, come giusto riconoscimento della sua esistenza tormentata dai penosi sacrifici familiari... Mi inginocchierò davanti alla sua santa figura e, togliendomi dalla fronte l’aureola dell’Impero, deporrò i simbolici fiori ai suoi piedi che bacerò umilmente col mio pentimento e le mie lacrime, rivelandole la mia gratitudine e il mio amore infiniti».

109.      «Generosa idea, figlio mio», esclamò l’inferma, commossa, «e ti prego di metterla in pratica al momento opportuno. E quando... tu testimonierai a Livia il tuo amore... dille che mi perdoni... perché allora piangerò di gioia... vedendovi tutti e due felici... là dalle ombre tranquille del mio sepolcro».

110.      I due piansero, commossi, silenziosamente.

111.      A un certo punto, la vecchia inferma strinse le mani dell’amico, come a dargli un estremo addio. Calpurnia fissò su di lui i grandi occhi luminosi che emanavano radiazioni misteriose, e con lacrime di emozione indicibile esclamò commossa: «Publio... ti prego... non dimenticarti... della promessa... In­ginocchiati ai piedi di Livia... come ai piedi di una dea... della rinuncia e della bontà... Non preoccuparti... della mia dipartita da questo mondo... Va’ alla festa del Senato... ripariamo... la nostra grave colpa... e ora, amico mio... un’ultima preghiera... Veglia sui miei figli... come se fossero i tuoi... Insegna loro l’onestà... la forza... la sincerità e il bene... Un giorno... tutti noi... ci uniremo... nell’eternità...»

112.      Publio Lentulo le strinse le mani, emozionato, accomodandole sui guanciali di seta la testa bianca, mentre lacrime di commozione gli incrinavano la voce. Da molto tempo l’inferma soffriva di dispnee periodiche e prolungate.

113.      Il senatore aprì le porte del vasto appartamento, e Livia accorse, premurosa, come infermiera d’ogni momento, mentre Flavia e alcune serve accorrevano con unguenti e altri rimedi della medicina del tempo.

114.      Calpurnia, però, sembrava soffrire delle ultime afflizioni che l’avrebbero portata alla tomba. Per ventiquattro ore consecutive il petto ansimò sibilando, come se la cassa toracica fosse sul punto di scoppiare sotto l’impulso di una forza indomabile e misteriosa.

115.      Dopo un giorno e una notte di attacchi di affanno ed angosce, sembrava che la malata avesse un leggero miglioramento. La respirazione era diventata meno penosa e gli occhi rivelavano una grande serenità, sebbene tutto il corpo fosse chiazzato da macchie azzurre e violacee, preannuncianti la morte. Soltanto l’afonia persisteva, ma a un certo momento lei fece un cenno con la mano, chiamando Livia al suo capezzale, con la tenera familiarità dei tempi antichi. La moglie del senatore rispose all’appello silenzioso, inginocchiandosi, con gli occhi pieni di lacrime e comprendendo, attraverso l’intuizione spirituale, che era arrivato l’istante doloroso del commiato. Si vedeva che Calpurnia desiderava parlare, ma invano. Fu allora che strinse Livia amorosamente contro il suo petto, baciandole i capelli e la fronte con uno sforzo supremo e, avvicinandole le labbra all’orecchio, balbettò con infinita tenerezza: «Livia, perdonami!»

116.      Solamente Livia aveva ascoltato il tenue sussurro dell’agonizzante. Queste furono le ultime parole di Calpurnia. Si sarebbe detto che la sua anima generosa avesse bisogno solamente di quell’ultimo appello per riuscire a svincolarsi dalla Terra, librandosi verso il paradiso.

117.      Abbracciata all’instancabile amica, l’agonizzante lasciò cadere nuovamente la testa sui cuscini. Per sempre. Abbondante sudore stillò da tutto il suo corpo, che si quietò dolcemente verso la suprema rigidezza cadaverica, e dopo pochi minuti i suoi occhi si chiusero, come se si preparassero per un lungo sonno. La respirazione andava estinguendosi lentamente, mentre una lenta e chiara lacrima le scorreva sul volto rugoso, come un raggio divino della luce che le avrebbe illuminato la notte sepolcrale.

118.      Le porte del palazzo furono allora aperte per gli omaggi affettuosi della società romana. Alle esequie della eccellente matrona si presentò quanto la città possedeva di più nobile e illustre, riguardo la sua aristocrazia spirituale, dato l’elevato concetto in cui erano tenute le rare virtù della defunta.

119.      Terminate le cerimonie della cremazione e custodite le insigni ceneri della nobile patrizia all’ombra del monumento funerario di famiglia, Flavia Lentulo assunse la direzione della casa, mentre i suoi genitori tornavano nella residenza sull’Aventino, per il necessario riposo.

*

120.      Mancavano solo quattro giorni alla realizzazione delle grandi feste, in cui più di un centinaio di senatori avrebbe ricevuto la corona del supremo trionfo nella vita pubblica. Publio Lentulo, che sarebbe stato uno dei senatori incoronati nella festa memorabile, nonostante il lutto della famiglia, aspettava il grande momento con ansietà. Infatti, ricevuta l’espressione massima della vittoria di un uomo di Stato, l’avrebbe deposta ai piedi della sposa, come simbolo perenne del suo affetto e della sua riconoscenza nella vita intera. Nel suo intimo, architettava la maniera più dolce per rivolgersi nuovamente alla compagna, in un tono carezzevole e soave che la sua voce aveva perduto da venticinque anni e, verificando il perdurare del suo amore per la sposa, ogni volta più profondo, aspettava con ansia il mo­mento della sua reintegrazione nella felicità familiare.

121.      Di notte, in quelle lunghe ore che trascorrevano mentre il vecchio cuore si preparava alle benedizioni della felicità coniugale di lì a pochi giorni, egli si avvicinava agli appartamenti della sposa, situati ben distanti dai suoi durante quei prolungati anni di interminabili amarezze.

122.      Due giorni prima delle grandi feste a cui ci siamo riferiti, saranno state le ventitré, allorché egli si fermò di fronte alla camera della compagna, pregustando il felice momento della sua penitenza, che significava per lui un’immensa gioia, mentre il pensiero sprofondava negli abissi del lontano passato, la sua attenzione spirituale fu repentinamente destata dalla soave melodia di una voce di donna che cantava sottovoce nel silenzio della notte. Il senatore si avvicinò piano piano alla porta, accostando l’orecchio per ascoltare... Sì! Livia cantava con voce sommessa e dolce, come un’allodola abbandonata, facendo suonare lievemente le corde armoniose di una lira, uno dei suoi ricordi più cari. Publio piangeva commosso, ascoltando le sue note argentine che si spegnevano nell’ambiente limitato della camera, come se Livia stesse cantando per se stessa, addormentando l’umile e disprezzato cuore, per riempire di conforto le ore tristi e deserte della notte. Erano gli stessi versi di una poesia del marito quelli che le uscivano dalle labbra in quel momento, in cui la voce aveva tonalità strane e meravigliose, d’indefinita malinconia, come se tutto il suo canto fosse il lamento doloroso di un usignolo pugnalato:

«Anima gemella dell’anima mia,

fiore di luce della mia vita,

sublime stella caduta

dalle bellezze dell’infinito!

Quando io erravo nel mondo,

triste e solo, sul mio cammino,

arrivasti piano piano,

e colmasti il mio cuore.

 

Venisti con la benedizione degli dèi,

nel divino chiarore,

a tessere la mia felicità

con sorrisi di splendore!

Sei il mio tesoro infinito,

ti giuro eterna alleanza,

perché sono la tua speranza,

come tu sei tutto il mio amore!

 

Anima gemella dell’anima mia,

se io ti perdessi, un giorno,

sarei l’oscura agonia

della velata nostalgia.

Se un giorno mi abbandonassi,

luce tenera del mio amore,

t’aspetterò tra i fiori

del chiarore dei cieli.»[13]

123.      Dopo alcuni minuti, la voce armoniosa s’interruppe come se fosse obbligata a un divino distacco. Il senatore si ritirò con gli occhi bagnati di lacrime, pensando fra sé e sé: “Sì, Livia, da qui a due giorni ti dimostrerò che tu sei stata sempre la luce della mia vita intera... Bacerò i tuoi piedi con la mia grata umiltà e saprò spargere nel tuo cuore il profumo del mio pentimento...”

*

124.      Entrando nella camera di Livia, la incontriamo genuflessa, dopo aver deposto, su un mobile da lei prediletto, la lira dei suoi ricordi. Inginocchiata, come sempre, con accanto la croce di Simeone, che in quel giorno offriva ai suoi occhi spirituali un chiarore più intenso.

125.      Durante le sue orazioni, udì la parola dell’amico invisibile, il cui tono profondo sembrava incidersi per sempre nel profondo della sua coscienza: “Figlia”, esclamò la voce amica, dal piano spirituale, “rallegrati nel Signore perché è arrivata l’ora della tua felicità eterna e immortale! Innalza il tuo umile pensiero a Gesù, perché non è lontano il momento felice della tua entrata gloriosa nel suo regno!”

126.      Livia lasciò trasparire dallo sguardo un senso di gioia e sorpresa. Ma, piena di fiducia e di fede nella Provvidenza divina, serbò nel più intimo del suo cuore il conforto di quelle sacrosante parole.

 

 

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Cap. XV

NELLE CATACOMBE DELLA FEDE E NEL CIRCO DEL MARTIRIO

1.                Il giorno dopo la scena che abbiamo appena terminato di descrivere, incontriamo insieme le due grandi amiche che, invece di essere la padrona e la serva, erano due anime unite dagli stessi ideali, legate dai vincoli più santi del cuore.

2.                Anna era arrivata a casa dopo aver sbrigato alcune commissioni nel Foro Olitorio[14] e, quando incontrò Livia da sola, le disse sottovoce: «Signora, questa notte una nuova voce si leverà nel santuario delle catacombe, per le preghiere della nostra fede. Questa mattina alcuni nostri amici mi hanno avvisata che già da vari giorni si trova in città un emissario della chiesa di Antiochia, chiamato Giovanni di Cleofa, portatore di importanti rivelazioni per noialtri cristiani di questa città».

3.                Livia lasciò trasparire una luce di intima gioia dal suo sguardo, ed esclamò: «Ah, sì... oggi dovremo andare alle catacombe. Ho bisogno di comunicare con i nostri fratelli di credo nelle medesime vibrazioni della nostra fede. Oltre a ciò, sento il dovere di ringraziare il Signore per la misericordia delle sue grazie immense!»

4.                E alzando un poco la voce come se volesse comunicare all’amica la santa gioia delle sue speranze più intime, esclamò con un tenero sorriso che le illuminò il viso calmo: «Anna, dalla morte di Calpurnia osservo che Publio è più sereno e tranquillo... In questi ultimi giorni mi ha rivolto la parola con la tenerezza dei tempi passati, dicendomi proprio ieri che il suo cuore ha in serbo per me una dolce sorpresa per domani, dopo il suo massimo trionfo nella vita pubblica. Sento che è molto tardi ormai perché io possa essere di nuovo felice in questo mondo, ma, insomma, sono intimamente soddisfatta perché non ho mai voluto morire in disarmonia col compagno che Dio mi ha concesso per le lotte e le gioie della vita. Credo che non mi perdonerà mai il delitto di infedeltà che egli pensa che io abbia commesso venticinque anni fa, ma piango di gioia nel pensare che Publio mi crede redenta davanti alla severità dei suoi occhi!»

5.                E pianse, commossa, mentre la vecchia serva le diceva con tenerezza: «Sì, mia signora, forse egli ha riconosciuto la vostra santificante dedizione alla casa, in questi lunghi anni di sacrifici benedetti».

6.                «Ringrazio Gesù per una così grande misericordia» rispose Livia, emozionata. «Penso proprio di non essere lontana dal partire verso il mondo delle realtà celesti, dove tutti quelli che soffrono saranno consolati». – E dopo una breve pausa, continuò: «Ancora ieri, quando pregavo accanto alla semplice croce, là nella camera, ho udito una voce che mi annunziava il regno di Gesù tra non molto».

7.                Ascoltandola, Anna si ricordò subito di Simeone e delle ore che avevano preceduto i suoi sacrifici, sprofondando in dubbi dolorosi. I suoi ricordi risalivano al lontano passato, quando la voce di Livia, nuovamente, aveva richiamato la sua attenzione con queste parole: “Anna”, aveva detto con l’eroica decisione della sua fede “non so come sarò richiamata dal Messia, ma nell’ipotesi della mia dipartita, fra non molto, ti chiedo di continuare in questa casa il tuo apostolato di lavoro e di sacrifici, perché Gesù benedirà le tue fatiche santificanti”.

8.                L’antica serva dei Lentulo voleva dare un nuovo indirizzo alla dolorosa conversazione, ed esclamò con la giudiziosa serenità che le riconosciamo: «Signora, sa Dio chi di noi due partirà per prima. Dimentichiamo per oggi questo argomento e pensiamo solamente alle vostre sante gioie». – E come per chiudere l’angosciosa impressione di quell’intima conversazione, concluse chiedendo confidenzialmente: «Allora, oggi andremo alle catacombe; vero?»

9.                «Sì, rimaniamo d’accordo così. Sul far della sera partiremo verso le nostre orazioni e i cari ricordi del Messia Nazareno. Ho bisogno di questo sfogo spirituale, dopo i lunghi mesi passati accanto alla mia nobile Calpurnia; oltre a ciò, desidero chiedere ai nostri fratelli che preghino con me per lei, testimoniando nello stesso tempo, al Signore, il mio sincero ringraziamento per le sue grazie divine... Quando partiremo, ti prego di rinfrescarmi la memoria, perché voglio portare al nuovo apostolo un’offerta per la chiesa di Antiochia. Se domani, Publio va a ricevere la massima onorificenza come cittadino benemerito di Roma, voglio chiedere a Gesù che non abbandoni il suo cuore intrepido e generoso, affinché le vanità della Terra non gli impediscano di cercare, un giorno, il meraviglioso regno del Cielo!»

10.           Così d’accordo, si separarono nella premura delle incombenze domestiche. E mentre il senatore, durante tutto il giorno, prendeva numerosi provvedimenti perché non mancasse nulla il giorno dopo allo splendore del suo grande trionfo, Livia passava le ore con l’anima rivolta al Cristo, pregando con fervore.

11.           All’imbrunire, secondo quanto avevano concordato, si recarono là alla riunione segreta delle pratiche primitive del cristianesimo.

12.           Tutti i servi più importanti del palazzo le videro uscire, senza preoccupazione né sorpresa. Durante tutto il lungo periodo della malattia di Calpurnia, Livia e Anna non avevano mai più fissato la loro presenza all’interno del palazzo, e non ci sarebbe stato da meravigliarsi se avessero deciso di cercare ospitalità presso i Severo, quella notte, da dove non sarebbero tornate a casa se non il giorno seguente, dopo aver confortato lo spirito abbattuto di Flavia, aiutandola nel disimpegno dei suoi faticosi incarichi domestici.

*

13.           Fu così che le ore passarono, tranquille e silenziose; e quando il senatore si avvicinò agli appartamenti della sposa, immaginando le profonde gioie che lo attendevano il giorno seguente, intuì, dal silenzio pesante che regnava in quel luogo, il significato del suo calmo riposo, sulle ali leggere e carezzevoli del sogno. Pensando che Livia riposasse nella pace sovrana della notte, Publio Lentulo si ritirò nel suo studio privato, con la mente piena di radiose speranze e con il proposito di pentirsi di tutti i suoi errori passati.

14.           Livia, invece, in compagnia di Anna, aveva approfittato delle prime ombre della notte per raggiungere le catacombe. Erano passate le diciannove, quando tutt’e due si nascosero tra le pietre abbandonate che davano accesso ai sotterranei, dove si accumulava la vecchia polvere dei morti.

15.           In un vasto spazio con le volte a cupola che era servito in passato alle riunioni delle cooperative funerarie, un gran numero di persone si era riunito intorno alla figura simpatica e generosa del colto predicatore che era arrivato dalla lontana Siria. In un angolo si ergeva una tribuna improvvisata, sulla quale dopo pochi minuti salì Giovanni di Cleofa, avvolto in un alone di dolcezza che ne aureolava la singolare personalità.

16.           L’apostolo di Antiochia aveva i suoi primi capelli bianchi, e tutta la sua figura emanava un forte magnetismo personale, che univa intimamente la sua personalità a quanti gli si avvicinavano, attratti dalla dolce affinità della fede e dei profondi sentimenti.

17.           Tutti i presenti apparivano entusiasti della sua parola carismatica e impressionante che si fece ascoltare per quasi due ore consecutive, scendendo nel cuore dell’uditorio come balsamo sublime dell’eloquenza celeste. Concetti elevati e profetiche osservazioni risuonavano attraverso le arcate silenziose e oscure, debolmente illuminate da alcune torce.

18.           In realtà, l’assemblea aveva tutte le ragioni di elettrizzarsi per quel doloroso e sublime profetismo, perché Giovanni di Cleofa pronunciò la sua profonda orazione più o meno in questi termini: «Fratelli, sia con voi la pace dell’Agnello di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, nell’intimità della vostra coscienza e nel santuario del vostro cuore! Il santo patriarca di Antiochia, nelle sue orazioni e meditazioni di ogni giorno, ha ricevuto numerose rivelazioni dal Messia, cha ha ordinato la venuta di un messaggero nel luogo del vostro lavoro nella capitale del mondo, per annunziarvi grandi cose...

19.           Attraverso le rivelazioni dello Spirito Santo, i cristiani di questa empia città sono stati scelti dall’Agnello per il grande sacrificio. Ed io vengo ad annunziarvi la nostra imminente entrata nel regno di Gesù, in nome dei suoi amati apostoli! Sì, perché qui, dove tutte le glorie divine sono state schernite e umiliate dalla protervia delle creature, qui si svolgeranno i primi grandi combattimenti delle forze del bene e del male, preparando nel mondo la realizzazione definitiva del divino ed eterno messaggio del Vangelo del Signore!

20.           Nell’ultima riunione generale dei fedeli di Antiochia si sono manifestate le voci del Cielo in lingue di fuoco, come avvenne nei giorni gloriosi del cenacolo degli apostoli dopo la divina resurrezione del nostro Salvatore; e il vostro servo qui presente è stato scelto come portatore di queste notizie confortatrici, perché le voci celesti ci promettono il regno del Signore, fra pochi giorni... Miei cari, credo che siamo alla vigilia delle più crudeli testimonianze della nostra fede, attraverso sofferenze redentrici; ma la croce del Calvario dovrà illuminare la penosa notte dei nostri patimenti... Anch’io provai la felicità di sentire la parola del Signore nelle ultime ore della Sua dolorosa agonia, di fronte a questo mondo. E cosa chiedeva Lui, miei cari, se non il perdono infinito del Padre per i carnefici implacabili che lo torturavano? Sì, non dubitiamo delle rivelazioni del Cielo... Persecutori inflessibili vigilano sui nostri passi ed io vi porto il messaggio dell’amore e della forza in nostro Signore Gesù Cristo!

21.           Roma battezzerà la sua nuova fede col sangue dei giusti e degli innocenti; ma dobbiamo anche considerare che l’Agnello immacolato di Dio Onnipotente si immolò sulla croce infamante per riscattare i peccati e le ignominie del mondo! ... Forse cammineremo per queste vie sontuose, come nelle nuove vie di una Gerusalemme putrida, piena di desolazione e di amarezza. ... Le voci celesti dicono che qui saremo disprezzati, umiliati, offesi e vinti; ma la vittoria suprema del Signore ci aspetta al di là delle palme spinose del martirio, nelle dolci luci del suo regno, inaccessibile alla sofferenza e alla morte! ...

22.           Laveremo col nostro sangue e con le nostre lacrime l’iniquità di questi marmi preziosi; ma un giorno, fratelli miei, tutta questa Babilonia di inquietudine e di peccato cadrà fragorosamente, sotto il peso delle sue ignobili miserie... Un uragano devastante abbatterà i falsi idoli e sconvolgerà le menzogne arroganti dei loro culti... Le tormente dolorose dello sterminio e del tempo faranno piovere su questo potente Impero le rovine della miseria e del più triste silenzio. I circhi dell’empietà scompariranno sotto una manciata di ceneri, il Foro e il Senato degli impenitenti saranno confusi dalla suprema giustizia divina, e gli orgogliosi guerrieri di questa città peccatrice strisceranno un giorno come vermi, lungo le rive del Tevere, che trascina le loro iniquità! ...

23.           E allora novelli Geremia piangeranno sopra i marmi alla luce pietosa della notte... I sontuosi palazzi di queste dolci e superbe colline rovineranno sotto un ciclone di terrore, ...sui monumenti di tanto orgoglio, egoismo e vanità, gemeranno i venti tristi delle notti, silenziose e deserte... Felici tutti coloro che piangeranno ora, per amor del divino Maestro; fortunati tutti coloro che spargeranno il loro sangue per le sublimi verità dell’Agnello, perché nel Cielo esistono le dimore divine per i beati di Gesù. ...»

24.           Così predicava la voce soave e terribile del messaggero della Chiesa di Antiochia, e le sue parole risuonavano nel profondo silenzio delle arcate. Circa duecento persone si erano incontrate lì, ascoltandolo attentamente. Quasi tutti i cristiani presenti, estasiati, piangevano. Nell’intimo delle anime aleggiava un’esaltazione dolce e mistica che faceva sentir loro le tenere emozioni di tutti quei discepoli anonimi che morirono nelle arene ignominiose dei circhi, per gettare col sangue e con le lacrime le fondamenta della nuova fede.

25.           Dopo le profezie straordinarie e dolorose che riempirono gli occhi di tutti di un’indefinibile luce di gioia interiore in previsione del glorioso regno di Gesù, Giovanni fu interrogato da numerosi confratelli su vari argomenti di interesse generale per il cammino e l’evoluzione della nuova dottrina, come succedeva nelle primitive riunioni del cristianesimo nascente, e a tutti egli rispondeva con le più sincere espressioni di fraterna bontà.

26.           Interrogato da uno dei presenti sul motivo della sua gioia radiosa, mentre le rivelazioni dello Spirito Santo prevedevano grandi prove e tante sofferenze, il generoso messaggero rispose con sublime ottimismo: «Sì, amici miei, noi non possiamo aspettarci, se non il sacro avverarsi delle profezie, ma dobbiamo considerare con esultanza che se Gesù permette agli empi la realizzazione di monumenti meravigliosi come quelli di questa città sontuosa e corrotta, che cosa mai riserverà Egli, nella sua infinita misericordia, agli uomini buoni e giusti, negli splendori del Suo regno?»

27.           Quelle risposte consolatrici scesero nell’anima dei numerosi presenti come un balsamo che addolcisce. Parole di amore e saluti affettuosi vennero scambiati fra tutti, con le più sensibili dimostrazioni di letizia e fraternità. Livia e Anna avevano una luce di gioia intima che brillava nei loro occhi sereni. Alla fine della riunione, tutti si alzarono per le preghiere semplici e spontanee, come sorgenti pure, delle primitive lezioni del cristianesimo.

28.           La voce dell’inviato di Antiochia, si fece udire ancora una volta, brillante e chiara: «Padre nostro, che siete nei Cieli, santificato sia il Vostro nome, venga a noi il Vostro regno di misericordia, sia fatta la Vo­stra volontà, così sulla Terra, come nei Cieli...» Tuttavia, in quel momento, la parola buona e commovente fu coperta da un sinistro sferragliare di armature.

29.           «È qui, Luculo!» gridò la possente voce del centurione Clodio Varrò che avanzava, con i suoi numerosi pretoriani, verso la massa attonita dei cristiani indifesi, composta nella maggior parte da donne. Alcuni fedeli più impetuosi cominciarono allora a spegnere le torce, provocando con l’oscurità, confusione e tumulto.

30.           Ma Giovanni di Cleofa scese dalla tribuna, con la sua figura radiosa e impressionante: «Fratelli», gridò con voce meravigliosa e vibrante nel suo appello, come di chi è ricco di straordinario magnetismo, «il Signore ci ha raccomandato di non collocare mai la luce sotto il moggio! Non spegnete la luce che deve illuminare il nostro esempio di coraggio e di fede!»

31.           In quel momento i due centurioni presenti già avevano dispiegato le loro forze in comune, organizzando i cinquanta uomini che erano venuti, sotto il loro comando, nell’ipotesi di una resistenza.

32.           Si vide allora l’apostolo di Antiochia camminare con coraggio tra lo spasimo silenzioso dei presenti, dirigersi verso Luculo Quintilio, tendergli le braccia pacificamente e sollecitarlo con franchezza: «Centurione, compi il tuo dovere senza timore, perché io non sono venuto a Roma, se non per le glorie del sacrificio!»

33.           Il rappresentante dell’Impero non si commosse a queste parole e, dopo aver brandito davanti al viso del missionario la sua spada, in un attimo gli legò le braccia, immobilizzandone i movimenti.

34.           Due giovani discepoli, dando libero corso al loro temperamento ardente e sincero, scossi da tanta crudeltà, sguainarono le armi che rilucevano alla debole luce di quell’ambiente in penombra, avanzando contro i soldati in un gesto di difesa e resistenza; ma Giovanni di Cleofa avvertì ancora una volta, con la sua parola magnetica e profonda: «Figli miei, non ripetete qui la scena dolorosa della cattura del Messia. Ricordatevi di Malco. Deponete la spada, perché chi di ferro ferisce, di ferro perisce...»

35.           Si ebbe allora nell’assemblea una sensazione di tranquillità e di sorpresa. Il sereno coraggio dell’apostolo aveva contagiato tutti i cuori. Nei grandi movimenti della vita c’è sempre una vibrazione spirituale che fluisce da altri mondi, a conforto dei miseri viaggiatori della giornata terrestre. Si osservò, in questo modo, l’inaudito e l’insperato. Tutti i presenti imitarono il coraggioso apostolo, consegnando le braccia inermi al sacrificio.

36.           Nel suo doloroso momento, Livia si riempì di un coraggio che non aveva mai posseduto. Davanti alla sua figura nobile e alle sue vesti di patrizia, a lungo si soffermarono gli occhi meravigliati dei soldati. In quella folla lei era l’unica donna che mostrava i distintivi del patriziato romano. Clodio Varrò compì il suo dovere con parecchio rispetto, e dopo pochi minuti la numerosa carovana era in cammino verso la prigione, dentro le fitte tenebre della mezzanotte.

37.           Il carcere dove i cristiani avrebbero passato tante ore all’aperto, in angosciosa promiscuità, cosa che in qualche modo rappresentava per loro un tenero conforto, era annesso al grande circo, sulle cui proporzioni gigantesche siamo obbligati a fermare la nostra attenzione, per dare al lettore una pallida idea della sua grandezza.

38.           Il circo Massimo era situato esattamente nella valle che separa il Palatino dall’Aventino, ergendosi qui come una delle più importanti meraviglie della città invitta. Costruito ai primordi dell’ordinamento romano, le sue proporzioni grandiose si erano sviluppate con la città e, al tempo di Nerone, tale era la sua estensione che occupava 2.190 piedi di lunghezza per 960 di larghezza, terminando in un semicircolo, della capienza di trecentomila spettatori comodamente sistemati. Da tutti e due i lati, correvano due ordini di portici sovrapposti, ornati di colonne preziose coronate da eleganti terrazze. In quel lusso di costruzioni ed eccesso di ornamenti, si notavano numerose bettole e innumerevoli luoghi di depravazione, al cui riparo dormivano i miserabili e riposava la maggior parte del popolo ubriaco e abbruttito dai piaceri più sordidi. Sei torri quadrate, che denotavano la più avanzata espressione di eleganza dell’architettura dell’epoca, dominavano le terrazze, servendo come palchi lussuosi per le personalità più in vista durante gli spettacoli più importanti. Larghi sedili di pietra, disposti ad anfiteatro, correvano per tre lati, delineando in seguito, su linea retta, lo spazio occupato dalle carceri, da dove uscivano cavalli e carri così come schiavi e prigionieri, bestie feroci e gladiatori, per il divertimento preferito della società romana. Sulle carceri sorgeva il sontuoso padiglione dell’imperatore, da dove le più alte autorità e i nobili accompagnavano il Cesare nei suoi divertimenti. L’arena era divisa longitudinalmente da una muraglia di sei piedi di altezza per dodici di larghezza, e su di essa si ergevano altari e statue preziose, adorne di oro e bronzi raffinati. Ben al centro di questa muraglia, dando un maestoso tono di grandezza all’ambiente, si ergeva con un’altezza di centoventi piedi, il famoso obelisco di Augusto che dominava l’arena ricoperta di rosso e di verde, dando l’impressione di un prato delizioso che si tingesse all’improvviso di fiori di sangue.

39.           I miseri prigionieri di quella caccia umana furono spinti alle prime ore del giorno in una vasta dépendance delle carceri. I soldati li avevano spogliati, uno a uno, degli oggetti di valore o delle piccole quantità di danaro che avevano con sé. Le signore stesse non erano sfuggite all’umiliante perquisizione, venendo derubate dei loro gioielli più preziosi. Solo Livia, per il rispetto che ispirava il suo abbigliamento, fu risparmiata da quell’infame esame.

40.           In uno studio riservato, Clodio Varrò informò il suo superiore Cornelio Rufo, circa l’esito delle misure che gli erano state comandate quella notte.

41.           Cornelio esclamò soddisfatto, «Sì, da quanto posso dedurne, domani la festa si svolgerà del tutto secondo il programma dell’imperatore. Questa prima retata di cristiani era essenziale per il glorioso avvenimento dei grandi omaggi ai senatori. Ma, ascolta», continuò egli più discretamente, riferendosi a Livia. «Chi è quella donna che usa la toga delle matrone della più alta classe sociale?»

42.           «Non so», rispose il centurione, molto preoccupato. «Anzi, sono rimasto molto sorpreso di trovarla in un simile ambiente; ma ho eseguito rigidamente i vostri ordini».

43.           «Hai fatto bene». Tuttavia, come se stesse adottando tra sé e sé una nuova decisione, Cornelio Rufo sentenziò: «Lasciamola qui fino a domani mattina fino al momento dello spettacolo, quando potrà essere rimessa in libertà».

44.           «E perché non la liberiamo fin d’ora?»

45.           «Ella potrebbe, nella sua condizione di nobile, provocare qualche sollevamento di protesta contro la decisione del Cesare, e ciò ci porrebbe in una pessima situazione. E siccome queste miserabili creature saranno gettate alle bestie feroci nella condizione di schiavi condannati alla pena estrema durante gli ultimi divertimenti del pomeriggio, non ci conviene comprometterci con la sua famiglia. Trattenendola qui, soddisfiamo i capricci di Nerone e, liberandola in seguito, non ci inimicheremo quelli che godono dei favori della situazione».

46.           «È vero; questa è la soluzione più ragionevole. Con tutto ciò, per quale motivo queste creature saranno condannate come schiavi, quando dovrebbero morire come cristiani, poiché solamente questa è la causa della loro giusta condanna? La causa della loro morte non è forse dovuta all’umiliante dottrina che essi professano?»

47.           «Sì, ma dobbiamo considerare che l’imperatore sente di non avere ancora sufficienti forze per affrontare l’opinione dei senatori, dei magistrati e di varie altre personalità che, certamente, desidererebbero difendere la causa di questi infelici, in dispregio di lui e di quello dei suoi più intimi consiglieri... Ma non dubito che questa persecuzione contro i seguaci della odiosa dottrina del Crocifisso sarà ufficializzata fra pochi giorni[15], non appena i poteri imperiali saranno più fortemente centralizzati. Quindi, aspettiamo ancora un po’ di tempo, e per ora appoggiamo il prestigio di Nerone, perché chi detiene il potere deve essere sempre il nostro migliore amico».

48.           Mentre accadeva questo, tutti i cristiani, all’interno del carcere, si divisero in gruppi scambiandosi le più intime impressioni sulla terribile situazione.

49.           A un certo momento, tuttavia, si aprì una porta ed apparve la detestabile figura di Clodio, il quale esclamò ironicamente: "Cristiani, non esiste clemenza di Cesare per coloro che professano le pericolose dottrine del Nazareno. Se avevate qualche affare materiale da sbrigare, ricordatevi che è ormai troppo tardi, poiché poche ore vi separano dalle bestie feroci dell’arena, nel circo».

50.           Nuovamente la pesante porta si richiuse sulla sua figura, mentre i miseri condannati rimasero amaramente sconvolti dall’inquietante e dolorosa notizia. Attraverso le inferriate rinforzate potevano osservare i movimenti dei numerosi soldati che li vigilavano, dando adito, nei primi momenti, alle più angosciose supposizioni. Ma subito dopo era tornata in loro la calma, e i prigionieri si quietarono con umiltà. Alcuni pregavano fervidamente, mentre altri si scambiavano pareri sottovoce.

51.           I carcerieri non tardarono a separare le donne, spingendole in uno stanzone vicino, dove ogni gruppo di fedeli rimase con l’anima rivolta a Gesù, negli istanti supremi in cui aspettavano la morte.

*

52.           La mattina seguente, non appena il Sole apparve all’orizzonte del bel cielo romano, incontriamo Anna e Livia che conversano serenamente, da sole, dietro una specie di paravento dei molti esistenti nell’ampio stanzone riservato alle donne, mentre molte compagne sembrava che riposassero, vinte dalla stanchezza.

53.           «Signora…», disse la serva alquanto preoccupata, «…ho notato che qui vi trattano con simpatia e riguardo. Perché non chiedete subito la vostra libertà? Non sappiamo quanto di sinistro e terribile ci accadrà nelle penose ore di questo giorno!»

54.           «No, mia buona Anna», rispose Livia tranquilla, «sii certa che l’anima mia è ben preparata al sacrificio. E anche qualora non mi sentissi tranquilla, tu non dovresti farmi una simile proposta, perché Gesù, pur essendo il Maestro di tutti i maestri e Signore del regno dei Cieli, non cercò di ottenere la libertà dai suoi aguzzini, mentre Lo percuotevano e Lo perseguitavano...»

55.           «Questo è vero, signora. Ma credo che Gesù saprebbe comprendere il vostro gesto, perché avete ancora uno sposo e una figlia...» insistette la vecchia serva, come a ricordarle gli obblighi umani.

56.           «Uno sposo?» obiettò la nobile matrona, con eroica serenità. «Sì, ringrazio Dio per la pace che mi ha concesso, permettendo che Publio mi dimostrasse il suo pentimento in questi ultimi giorni. Per me, solo questa tranquillità era essenziale e necessaria, poiché lo sposo, per quanto concerne l’aspetto umano, l’ho perso venticinque anni fa... Invano ho sacrificato tutti gli impulsi della mia giovinezza per provargli il mio amore e la mia innocenza, in contrapposizione alla calunnia con cui umiliarono il mio nome. Per un quarto di secolo ho vissuto con le mie orazioni e le mie lacrime... Angoscioso è stato il mio rimpianto, e dolorosissimo l’abbandono spirituale a cui fui condannata sul piano dei miei affetti più puri... Non credo che sia più possibile per me rivivere, nel cuore del vecchio compagno, la fiducia antica, piena di felicità e tenerezza.

57.           Quanto alla figlia, la consegnai a Gesù fin dai giorni della sua infanzia, quando mi vidi costretta alla terribile separazione dal suo affetto. Allontanata dalla sua anima per imposizione di Publio, ho dovuto soffocare i più dolci entusiasmi del cuore materno. Il Signore conosce mie pene e le mie angosce nelle notti silenziose e tristi, in cui gli ho offerto i miei amari patimenti. Oltre a ciò, Flavia ha oggi un marito che ha cercato di allontanarla ancora di più dal mio povero spirito, per paura della mia fede, giudicata da tutti una vera demenza...» – E dopo una breve pausa nella sua confidenza dolorosa, disse con serena tristezza: «Per me non esiste il rifiorire delle speranze qui sulla Terra... Ora desidero solo morire in pace, confortata dalla mia coscienza».

58.           «Ma, signora…», riprese la serva con ardore «…oggi è il giorno della maggior gloria del vostro sposo!»

59.           «Non ho dimenticato questa circostanza. Sono già venticinque anni che Publio segue un cammino opposto al mio, e non sarà troppo se, ottenendo lui oggi la suprema ricompensa del mondo, come trionfo finale dei suoi desideri, anch’io cerchi, se non la vittoria del Cielo che non merito, almeno la possibilità di mostrare al Signore la sincerità della mia fede, ansiosa di ricevere le benedizioni luminose della Sua infinita misericordia. E poi, mia cara Anna, è cosa molto grata al cuore, vedere in sogno il suo Regno santo e misericordioso... Vedremo di nuovo le mani soavi del Messia che benedice il nostro spirito con i suoi ampi gesti di carità e tenerezza!»

60.           Livia aveva una luce divina negli occhi che si bagnavano di lacrime spontanee, come se fosse caduta sul suo cuore la rugiada del paradiso. Si vedeva chiaramente che i suoi pensieri non stavano più sulla Terra, ma fluttuavano in un mondo di radiosità soavissima, pieno di ricordi affettuosi del passato e impregnato di tenere speranze nell’amore di Gesù Cristo.

61.           «Sì…», continuò a dire come se si rivolgesse solamente alla sua anima, nell’intimità del suo cuore, «…ultimamente ho ricordato molto il divin Maestro e le Sue parole davvero indimenticabili... Come indimenticabile è quel pomeriggio delle Sue prediche: era ancora il crepuscolo, e il cielo era trapuntato di stelle, come se anche le luci del cielo desiderassero ascoltarLo... Le onde del lago di Tiberiade, di solito tanto rumorose sotto l’impeto del vento, venivano a morire silenziose, con una sequenza di spuma contro le barche della spiaggia, in una sorta di dolce espressione di rispetto, quando in quel paesaggio si udivano i Suoi divini insegnamenti! Tutto si quietava, tutto diveniva tranquillo; era bello vedere il sorriso dei bambini di fronte alla tenera luce dei Suoi occhi di Pastore di uomini e della natura...

62.           Nel mio cuore angosciato, mia buona Anna, io desideravo adottare tutti quei bambini malvestiti e affamati che apparivano nelle riunioni popolari di Cafarnao; ma il mio proposito materno, di proteggere quelle donne vilipese e quei bambini cenciosi che vivevano allo sbaraglio, non poteva realizzarsi in questo mondo... Tuttavia, credo che potrò realizzare le idee della mia anima, se Gesù mi accoglierà nelle luci del Suo regno...»

63.           La vecchia serva pianse piena di emozione, ascoltando queste confidenze toccanti e commoventi.

64.           Dopo una lunga pausa, lei continuò, come se desiderasse approfittare delle ultime ore, dicendo con ferma tranquillità: «Anna, tutt’e due siamo state chiamate alla sacra testimonianza della fede, nelle ore che stanno passando e che devono essere gloriose per il nostro spirito. Perdonami, cara, se qualche volta posso averti offeso il cuore con parole forse alquanto indegne. Prima che Simeone ti affidasse alla mia custodia, io già ti amavo teneramente, come se tu fossi una mia sorella o una mia figlia...»

65.           La serva singhiozzò sempre più commossa, mentre Livia, affettuosa, continuò: «Ora, mia cara, ho un’ultima richiesta da farti...»

66.           «Dite, signora», sussurrò la serva con gli occhi pieni di lacrime, «prima di tutto, sono vostra schiava».

67.           «Anna, se è vero che dobbiamo testimoniare anche oggi la nostra fede, io desidero presentarmi al sacrificio come quelle povere creature che ascoltavano le consolazioni divine vicino al lago di Tiberiade. Se puoi, scambia oggi con me la toga della signora con la tunica della serva! Desidero partecipare al sa­crificio con le vesti umili e povere del popolo, non perché mi senta umiliata davanti alle persone della mia condizione, nel momento felice della testimonianza, ma perché, strappando per sempre gli ultimi preconcetti della mia nascita, darei alla mia coscienza cristiana il conforto dell’ultimo atto di umiltà... Io, che sono nata fra le porpore della nobiltà, desidero cercare il regno di Gesù con le vesti semplici di coloro che sono passati per il mondo nel vortice doloroso delle prove e delle fatiche!»

68.           «Signora...» disse la serva con incertezza.

69.           «Non esitare se vuoi offrirmi l’ultima soddisfazione».

70.           Anna, di fronte ai pietosi propositi di quella generosa creatura, non seppe rifiutare, e in un istante, nell’oscurità di quell’improvvisato nascondiglio che le separava dalle altre compagne, esse si scambiarono la toga e la tunica, che erano soltanto una specie di manto sulle complicate vesti dell’epoca. La toga, che Livia aveva adornato con finissima lana, era ora sul corpo della serva, con i gioielli discreti che la padrona usava abitualmente.

71.           Dopo averle consegnato due anelli preziosi e un grazioso braccialetto, le restava un solo oggetto di valore; ma Livia, passandosi la mano sul collo e accarezzando la piccola collana con immensa tenerezza, esclamò con decisione verso la compagna: «Va bene, Anna, mi rimane solo questa piccola collana, a cui porto appeso un cammeo su cui è sbalzato il profilo di Publio, ed è un regalo che egli mi fece nel lontano giorno delle nostre nozze. Morirò con questo gioiello come se fosse un simbolo di unione fra i due miei amori, …che sono mio marito e Gesù Cristo».

72.           Anna, senza protestare, accettò tutti i pietosi desideri della signora, e in pochi istanti l’aspetto dell’umile serva era stato sfiorato, nella sua antica bellezza verginale, da un’imponente nobiltà, come se essa fosse stata la figura di una sovrana scolpita in avorio antico.

73.           Per tutti i prigionieri, nel terribile tormento che li opprimeva, nonostante le dolci luci interiori della preghiera li unissero nel coraggio morale necessario al sacrificio, le ore del giorno passavano con difficoltà e lentamente. Giovanni di Cleofa, con il rassegnato eroismo del suo fervore religioso, riuscì a mantenere acceso il calore della fede in tutti i cuori: non mancarono compagni più coraggiosi che, nell’esaltazione della loro fiducia nella Provvidenza divina, provarono i cantici di gloria spirituale per il momento supremo del martirio.

74.           Nel palazzo sull’Aventino tutti i servi più intimi pensavano che Livia fosse a casa della figlia; ma poco prima di mezzogiorno, Flavia Lentulo andò dal padre, per baciarlo prima del trionfo. Messa al corrente dal senatore riguardo ai suoi progetti di ristabilire l’antica felicità familiare con le più espressive dimo­strazioni pubbliche di fiducia e di amore per la sposa, Flavia, con grande sorpresa di suo padre, cercò la madre per manifestarle la sua più che giustificata allegria.

75.           Un angosciante interrogativo si stampò così sul volto di tutti. Dopo venticinque anni era la prima volta che Livia e Anna si allontanavano da casa per un giorno intero, provocando le più legittime apprensioni. Il senatore sentì il suo cuore ferito da angosciosi presagi, ma gli schiavi erano già pronti per condurlo al Senato, dove le prime cerimonie sarebbero cominciate subito dopo mezzogiorno, alla presenza di Cesare.

76.           Osservando in lui i segni dell’afflizione e lo sguardo ansioso e inquieto, Flavia Lentulo cercò di tran­quillizzarlo con queste parole, che nascondevano le sue stesse preoccupazioni: «Va’ tranquillo, padre mio. Ora tornerò a casa, ma non trascurerò nulla di quanto occorre, perché quando tornerai nel pomeriggio con la corona del trionfo voglio abbracciarti insieme alla mamma, tra i fiori del vestibolo, per poter entrambe riceverti con i petali del nostro amore sempre vivo, giorno dopo giorno».

77.           «Sì, figlia mia», rispose il senatore con un’ombra di angoscia, «vogliano gli dèi che sia così, perché le rose della casa saranno per me la migliore delle ricompense!»

78.           Sulla lettiga, salutato dai molti amici che lo aspettavano, Publio Lentulo andò verso il Senato, dove folle entusiastiche gridavano di allegria, in segno di gratitudine per l’abbondante distribuzione di grano con cui le autorità romane avevano celebrato quell’evento applaudendo i festeggiati con le grida as­sordanti delle grandi manifestazioni popolari.

79.           Dal nobile edificio, centro della politica dove si erano disputate le più eleganti gare di arte oratoria per glorificare la persona dell’imperatore, preceduti dalla figura impressionante del Cesare, che mai disdegnò il fasto rumoroso dei grandi spettacoli, dato il suo carattere di antico commediante, i senatori si diressero verso il famoso tempio di Giove, dove i festeggiati avrebbero ricevuto la corona di mirto e rose, come i trionfatori, ubbidendo ai suggerimenti di Seneca[16] che, in ogni modo, si prodigava per distruggere l’impressione penosa di governo crudele da parte del suo ex-discepolo, – che alla fine lo avrebbe tuttavia condannato a morte nell’anno 66. Nel tempio di Giove, quel grande artista che era Nerone coronò la testa a più di cento senatori dell’Impero, sotto la benedizione convenzionale dei sacerdoti, prolungandosi così le cerimonie, nel loro complicato rito religioso, per diverse ore consecutive. Solo dopo le quindici uscì dal tempio, in direzione del circo Massimo, il grande e lunghissimo corteo. La compatta processione dall’aspetto così solenne, come poche altre volte si sarebbe osservato a Roma nei secoli successivi, si diresse dapprima al Foro, passando in mezzo a una massa enorme di popolo, con il più grande ossequio.

80.           Per informare i lettori, daremo una pallida idea del meraviglioso corteo che si svolse secondo le grandi cerimonie pubbliche dell’epoca:

81.           In testa procedeva un carro, superbamente e magnificamente addobbato, su cui sedeva mollemente l’imperatore; lo seguivano numerosi altri carri su cui prendevano posto i senatori festeggiati, con il loro seguito scelto.

82.           Nerone, con accanto uno dei favoriti prediletti, passava serio nel suo manto rosso da trionfatore, con il lusso spettacolare che caratterizzò tutta la sua vita. Subito dietro veniva un numeroso gruppo di giovani di quindici anni, parte a cavallo e parte a piedi, che facevano la scorta ai carri d’onore e aprivano la marcia.

83.           Dopo, venivano i cocchieri guidando le bighe, le quadrighe e le sestighe, che erano i carri a due, a quattro e a sei cavalli, per le folli emozioni delle corse tradizionali.

84.           Seguivano gli aurighi, quasi completamente nudi, poi gli atleti, che avrebbero eseguito i numeri di tutti i grandi e piccoli giochi del pomeriggio; dopo si sarebbe proseguito con i tre gruppi classici di ballerini, il primo composto da adulti, il secondo da adolescenti molto suadenti e il terzo da graziosi bambini, che vestivano tutti la tunica rossa stretta con una cintura di rame, spada al fianco e lancia nella mano, ostentando inoltre l’elmo di bronzo ornato da pennacchi e coccarde che completavano il loro abbigliamento stravagante. Questi ballerini passavano, seguiti dai musici, esibendosi in movenze ritmiche ed eseguendo danze guerriere, al suono di arpe d’avorio, flauti corti e molti liuti.

85.           Dopo i musici, quale gruppo di biechi comici, apparivano i satiri e i sileni, personaggi strani che usavano maschere orrende, coperti di pelli di caprone, sotto le quali facevano i gesti più orribili, provocando risate entusiastiche negli spettatori, con le loro smorfie e contorsioni ridicole e originali. Si succedevano poi nuovi gruppi musicali che si facevano accompagnare da vari ministri secondari del culto di Giove e di altri dèi, i quali portavano tra le mani grandi recipienti a guisa di turiboli d’oro e d’argento, da cui si sprigionavano inebrianti volute d’incenso.

86.           Seguivano i ministri con ornamenti d’oro e pietre preziose, e sfilavano anche le statue delle numerose divinità prelevate, provvisoriamente, dai loro templi sontuosi e tranquilli. Ogni statua, nella sua espressione simbolica, era accompagnata dai suoi devoti o dai suoi vari collegi sacerdotali. Tutte le immagini, con grande sfarzo, erano trasportate su carri d’avorio o d’argento, trainati da cavalli imponenti, guidati delicatamente da bambini poveri fra i dieci e i dodici anni, con genitori viventi, e scortati con molta attenzione dai patrizi più in vista della grande città.

87.           Era tutto uno sfoggio di corone d’oro, di porpore, di lussuosi tessuti orientali, di metalli luccicanti, di scintillii di pietre preziose. Chiudeva il corteo l’ultima legione di sacerdoti e ministri del culto, a cui faceva seguito la massa interminabile del popolo anonimo e sconosciuto.

88.           Il gigantesco corteo entrò nel Grande Circo con profondo raccoglimento, seguendo il cerimoniale delle più elevate solennità. Il silenzio era interrotto solo dalle acclamazioni parziali dei differenti gruppi di cittadini, quando passava la statua della divinità che proteggeva le loro attività e la loro professione nella vita comune.

89.           Dopo un giro solenne all’interno del circo, le silenziose figure d’avorio vennero depositate nel tempietto vicino alle carceri, sotto gli splendori sfolgoranti del padiglione dell’imperatore e dove venivano fatte le orazioni e i sacrifici dei nobili e dei plebei, mentre il Cesare e il suo seguito, in compagnia dei politici che erano festeggiati in quel pomeriggio, facevano numerose e straordinarie libagioni. Terminate queste cerimonie, allo stesso modo scomparse il silenzioso raccoglimento della folla.

90.           Cominciarono quindi i giochi, sotto gli sguardi avidi di oltre trecentomila spettatori che, a stento, si stringevano in masse compatte nel lussuoso recinto dalle dimensioni grandiose. I palazzi dell’Aventino e del Palatino, come anche i terrazzi del Celio, servivano come tribune per i numerosi spettatori che non potevano vedere più da vicino il magnifico spettacolo.

91.           Roma si divertiva, e tutte le sue classi sociali erano entusiaste. La corsa dei carri fu il primo numero ad essere presentato, ma gli applausi più frenetici si verificarono non appena morirono nell’arena i primi cocchieri e i primi cavalli che si erano sfracellati.

92.           I giocatori si distinguevano dai colori della tunica. C’erano quelli vestiti di rosso, d’azzurro, di bianco e di verde a rappresentare i vari partiti, mentre la platea si divideva in gruppi di esaltati furiosi. Gridavano appassionatamente gli ammiratori e i soci di ogni fazione, manifestando la loro allegria, il loro timore, la loro angoscia o la loro impazienza. Alla fine dei primi numeri si verificarono squallide scene di lotta fra gli avversari di questo o di quel partito, in mezzo alla folla immensa, e nacquero seri tumulti che immediatamente degenerarono in violenza delittuosa, a causa della quale poi, si raccolsero continuamente alcuni cadaveri.

93.           Dopo le corse ci fu una caccia straordinaria, effettuandosi terribili combattimenti fra uomini e belve, in cui alcuni giovani schiavi persero la vita tragicamente, fra le acclamazioni deliranti della folla incosciente. L’imperatore sorrise soddisfatto e continuò a bere lentamente, accanto ad alcuni tra i suoi amici più intimi. Sei arpisti eseguirono le sue melodie predilette nel padiglione imperiale, mentre liuti emettevano suoni piacevoli e chiari.

94.           Altri giochi di vario genere si succedettero, divertenti e terribili, e dopo alcune danze esotiche eseguite nell’arena, si vide uno dei prediletti del seguito di Nerone chinarsi rispettosamente verso di lui, sussurrandogli all’orecchio: «È arrivato il momento, o Augusto, della grande sorpresa dei giochi di questo pomeriggio!»

95.           «Entreranno ora i cristiani nell’arena?» domandò l’imperatore a voce bassa, col suo gelido e crudele sorriso.

96.           «Sì, è già stato dato l’ordine affinché siano lasciati liberi nell’arena i venti leoni africani non appena si presenteranno in pubblico i condannati».

97.           «Che bell’omaggio per i senatori!» commentò Nerone, sarcastico. «Questa festa è stata una felice idea di Seneca, perché così avrò l’opportunità di mostrare al Senato che la legge è la forza, e ogni forza deve stare nelle mie mani!»

98.           Mancavano pochi minuti alla rappresentazione del sorprendente numero del pomeriggio, quando Clodio Varrò consigliò a uno dei suoi aiutanti di fiducia: «Aton» gli disse con fare circospetto «fa’ pure entrare ora tutti i prigionieri nell’arena, ma allontana con discrezione una donna che è rimasta là con la toga del patriziato. Lasciala per ultima, e dopo mandala via, per la strada, perché non vogliamo complicazioni con la sua famiglia».

99.           Il soldato fece un cenno come di chi avrebbe fedelmente custodito l’ordine ricevuto, disponendosi a eseguirlo, e di lì a poco il numeroso gruppo di cristiani, sotto gli insulti e i fischi dei più bassi servitori del circo, s’incamminava impavido verso il sacrificio...

100.      Davanti a tutti andava Giovanni di Cleofa, mormorando nell’intimo la sua ultima preghiera. Ma nel momento in cui fu aperta la grande porta attraverso la quale si udivano i ruggiti paurosi delle fiere affamate, Aton si avvicinò ad Anna e, osservandone la toga di finissima lana, i gioielli discreti che ne adornavano e nobilitavano l’aspetto così come la delicata rete d’oro che le tratteneva con eleganza i capelli, esclamò con rispetto, impressionato dalla nobiltà della sua figura: «Signora, rimanete qui fino all’ordine successivo!»

101.      La vecchia serva dei Lentulo scambiò uno sguardo significativo e angosciato con la sua padrona, rispondendo tuttavia con serena fierezza: «Ma perché? Pretendete forse di privarmi della gloria del martirio?»

102.      Aton e i suoi colleghi si sorpresero per quella profonda vocazione all’eroismo spirituale e costui, dopo un gesto evasivo che esprimeva l’esitazione circa la risposta che avrebbe dovuto darle, esclamò con rispetto: «Sarete l’ultima!»

103.      Quella spiegazione sembrò soddisfarla, ma Livia e Anna in quel momento decisivo della separazione si scambiarono un amoroso sguardo, triste e indimenticabile. Tutto, però, fu questione di pochi secondi, perché la funesta porta fu ora aperta e le armi minacciose dei soldati di Nerone obbligarono i prigionieri a dirigersi verso l’arena: blocco terrorizzato di condannati all’ultima pena.

104.      Il venerabile apostolo di Antiochia guidava la fila con coraggiosa serenità. Il suo cuore si levava verso l’infinito con fervide e sincere orazioni. In pochi istanti tutti i prigionieri si trovavano riuniti all’entrata dell’arena, ricchi di una forza morale che, fino a quel momento, era loro sconosciuta. Il fatto è che dietro quelle porpore sontuose e al di là di quelle risate stridenti e di quelle bieche maledizioni, c’era una legione di messaggeri celesti che rafforzava le energie spirituali di coloro che andavano a morire di una morte infamante, per bagnare la semenza del cristianesimo con le loro lacrime feconde. Una strada luminosa, invisibile agli occhi mortali, si aprì nelle luci del firmamento, e da essa discendeva tutto un esercito di arcangeli del divin Maestro, per incoronare con le benedizioni della Sua gloria i valorosi operai della Sua causa.

105.      Tra gli applausi deliranti e assordanti della folla numerosa, furono sciolti i leoni affamati, per la più spaventosa scena di empietà, di terrore e di sangue. Ma nessuno degli sconosciuti discepoli che si preparavano a morire nella depravata festa di Nerone, soffrì le torture terribili di così orribile morte, perché, nel momento supremo, il dolce balsamo delle potenze divine anestetizzò il loro cuore affranto e dilacerato.

106.      Martirizzati dall’angoscia e dall’afflizione del momento finale, davanti a un pubblico sanguinario, i poveri sacrificati non ebbero il tempo di riunirsi nella tragica arena. Le fiere affamate sembravano dominate da un’orrida ferocia. E mentre i corpi venivano sbranati in modo orribile, Nerone comandò che tutti i cori dei ballerini e tutti i musici celebrassero lo spettacolo con gli inni e le ballate di Roma vittoriosa.

107.      Includendo il considerevole pubblico che si era ammassato sulle colline, quasi mezzo milione di spettatori si agitò in applausi assordanti e paurosi, mentre due centinaia di creature umane morivano sbranate e fatte a pezzi.

108.      Entrando nell’arena, Livia s’inginocchiò davanti al grande e sontuoso padiglione dell’imperatore, dove cercò di scorgere il volto del marito per l’ultima volta, per fissare nel fondo dell’anima la dolorosa espressione di quell’ultima visione, insieme all’immagine intima di Gesù Crocifisso che le inondava di se­rene emozioni il povero cuore lacerato nel momento supremo. Le sembrò di vedere, confusamente, nel dolce chiarore del crepuscolo, la figura eretta del senatore, coronato di rose come i trionfatori, e quando le sue labbra si mossero in un’ultima preghiera, mescolata alle lacrime ardenti che le scendevano dagli occhi, si vide all’improvviso ghermita dalle zampe feroci di un mostro. Non sentì comunque quell’emozione violenta e brutale che caratterizza comunemente l’istante tenebroso della morte. Le sembrò di aver ricevuto un urto leggero, sentendosi ora cullata tra le braccia di una nebbia trasparente che ella contemplò molto sorpresa. Cercò di rendersi conto della sua posizione dentro il circo e riconobbe al suo fianco la nobile figura di Simeone che le sorrideva divinamente, dandole la muta e dolce certezza di aver oltrepassato la soglia dell’Eternità.

109.      In quel momento, nel baldacchino d’onore dell’imperatore, Publio Lentulo sentì scendergli nel cuore un’inesprimibile angoscia. Nel vortice di quelle grida assordanti, il senatore non aveva mai provato una così profonda tristezza e una così amara delusione della vita. Lo terrorizzavano ora quei tremendi spettacoli omicidi di paura e di morte. Senza ch’egli potesse spiegarsene la causa, il suo pensiero tornò alla Galilea lontana e gli sembrò di vedere nuovamente la soave figura del Messia di Nazareth, quando gli diceva: «Sono ben deboli tutti i poteri del tuo Impero, e ben miserabili tutte le sue ricchezze!...»

110.      Chinandosi verso l’amico Eufanilo Druso, Publio gli rivelò la sua penosa sensazione, con discrezione: «Amico mio, questo spettacolo di oggi mi spaventa! ... Provo qui emozioni così angoscianti, come non ne ho mai provate in tutta la mia vita... Saranno schiavi destinati all’ultima pena quelli che cadono sotto la crudeltà delle belve feroci e selvagge?»

111.      «Non credo», rispose il senatore Eufanilo, sussurrando al suo orecchio. «Corre voce che questi miseri condannati siano poveri cristiani inoffensivi, arrestati nelle catacombe!»

112.      Senza sapersi spiegare la ragione del suo profondo disgusto, Publio Lentulo si ricordò all’improvviso di Livia, sprofondando, afflitto, nelle più penose congetture.

*

113.      Mentre si verificavano questi fatti, torniamo a esaminare la situazione di Anna subito dopo l’entrata dei compagni nell’arena del sacrificio. Sicura che Gesù le avesse riservato l’ultimo posto nel momento penoso del martirio, l’antica serva aveva mantenuto desto il suo coraggio con orazioni sincere e fervide. I suoi occhi, però, non avevano abbandonato la figura di Livia che si allontanava dall’angolo dell’arena dove si era inginocchiata, giungendo al punto di fissare il grande leone africano che le aveva sferrato il colpo fatale all’altezza del petto. In quel momento, la povera creatura fu colta da un’estrema debolezza davanti alle tremende prospettive della testimonianza, ma in un attimo, prima che le sue idee prendessero un nuovo corso, Aton e un altro soldato le si avvicinarono e le dissero: «Signora, seguiteci!»

114.      Notando che i soldati la facevano tornare verso l’interno, lei protestò con energia: «Soldati, io nulla di più desidero, se non morire anch’io in quest’ora, per la fede in Gesù Cristo!»

115.      Constatato il suo indomabile coraggio, il soldato dell’Impero l’afferrò saldamente per un braccio, trascinandola attraverso un passaggio interno delle carceri che comunicava con la pubblica via, e Aton le rivolse la parola quasi minacciosamente: «Andatevene via, donna! Andate via di qui senza indugio, poiché non desideriamo complicazioni con la vostra famiglia!»

116.      E dicendo questo, richiuse il grande portone, mentre l’antica serva di Livia, ora comprese tutto.

117.      Angosciata, arrivò immediatamente alla conclusione che le vesti della signora le avevano salvato la vita in quel disperato frangente. Sentì che il pianto le sgorgava copioso dagli occhi. Le sue lacrime erano un insieme di inenarrabili sofferenze morali, e nel suo intimo chiese a se stessa per quale ragione il Si­gnore non l’avesse ammessa alla gloria del martirio in quel pomeriggio memorabile e doloroso.

118.      Sentiva il confuso echeggiare di più di trecentomila voci che si diffondevano in acclamazioni e applausi, festeggiando la tragica corsa delle fiere nella loro caccia umana, e via via, portando con sé il peso torturante di una tristezza senza fine, si diresse verso il palazzo sull’Aventino, che non era molto lontano dall’ignominioso circo, entrando in casa, prostrata e silenziosa.

119.      Solo alcuni schiavi più intimi facevano la guardia alla residenza dei Lentulo, com’era costume nei giorni delle grandi feste popolari a cui partecipavano quasi tutti i servi. Nessuno notò il ritorno della serva, che riuscì a spogliarsi della toga con la calma necessaria. Tolse le gioie preziose dal vestito, dalle mani, dai capelli e, inginocchiandosi nella camera, lasciò che le lacrime dolorose scorressero libere, sotto l’influsso delle tristi preghiere che innalzava a Gesù, sotto il peso delle sue angosciose afflizioni.

120.      Non riuscì a capire quanti interminabili minuti rimase in quella posizione supplichevole e dolorosa, fra implorazioni ardenti e amare congetture sul suo insperato allontanamento dalle torture del circo, sentendosi indegna di testimoniare la sua profonda e sincera fede nel Salvatore, finché un rumore più di­stinto le annunciò il ritorno del senatore. Era quasi notte e le prime stelle brillavano nell’azzurro del bellissimo cielo romano.

121.      Entrando in casa, con lo spirito inquieto e preoccupato, Publio Lentulo, raggiunse il vestibolo vuoto con l’anima oppressa, immediatamente raggiunto, però, dal servo Fabio Tullio che da molti anni aveva sostituito Comenio, strappato dalla morte a quell’incarico di fiducia.

122.      Avvicinandosi al senatore che era entrato solo, poiché aveva dispensato gli amici dal tenergli compagnia col pretesto che la moglie si trovava gravemente inferma, l’antico servo esclamò con tutto il rispetto: «Signore, vostra figlia, per mezzo di un messaggero, ordina di comunicarvi che continua a far di tutto perché possiate avere notizie della signora il più presto possibile».

123.      Il senatore ringraziò con un lieve cenno della testa, mentre le sue penose intime preoccupazioni aumentavano.

124.      Anna, intanto, nel raccoglimento delle sue orazioni, nella camera a lei riservata, udendo che il padrone di casa era tornato, comprese il triste dovere che incombeva su di lei in quel momento indimenticabile, dovendo metterlo al corrente di tutti gli avvenimenti. Dopo pochi minuti, Fabio tornò a cercarlo nei suoi appartamenti, per comunicargli che Anna gli chiedeva un incontro riservato. Il senatore ricevette immediatamente la vecchia serva di casa, preso da un’indefinibile sorpresa.

125.      Con gli occhi gonfi dal lungo pianto e con la voce frequentemente interrotta dalle violente e penose emozioni, Anna espose tutti i fatti, senza tralasciare nessun particolare dei tragici incidenti, mentre il senatore, con gli occhi spalancati, faceva di tutto per comprendere quelle confidenze dolorose, nella sua incredulità e nel suo pauroso terrore. Alla fine del terribile racconto, un freddo sudore gli scese dalla fronte, mentre le tempie gli pulsavano smisuratamente.

126.      Sul principio desiderò annientare l’umile serva, come se fosse una vipera velenosa, preso dai primi sintomi di ribellione del suo orgoglio e della sua vanità. Non voleva dar credito a quella confessione orrenda e angosciosa, ma il cuore gli batteva forte e i suoi nervi si eccitavano con vibrazioni lancinanti. Publio Lentulo provò il dolore più terribile della sua miserabilissima esistenza. Tutti i suoi sogni, tutte le sue aspirazioni e dolci speranze franavano penosamente e irrimediabilmente, per sempre, sotto la nera marea della funesta realtà.

127.      Sentendosi l’imputato più sventurato della giustizia degli dèi, proprio nel momento in cui desiderava realizzare la sua suprema felicità, non vide più nulla davanti ai suoi occhi, se non la schiacciante realtà del suo dolore senza limiti.

128.      Sotto gli occhi commossi di Anna che l’osservava timorosa, si alzò rigido e senza una lacrima, con gli occhi che lampeggiavano furiosi, tale la loro fissità strana e dolorosa. E come se fosse un fantasma di ribellione, di dolore, di vendetta e di sofferenza indefinibile, senza nulla rispondere alla serva stordita che chiedeva silenziosamente a Gesù di darle la serenità tra le tante angosciose tristezze, egli fece alcuni passi come un automa verso la porta, che spalancò, e da cui entrò la brezza soave e rinfrescante della notte...

129.      Vacillando per il dolore selvaggio lungo il peristilio, camminò poi risoluto come se stesse sfidando a un duello le ombre per difendere la sposa calunniata e tradita, martirizzata dai criminali di quella corte infame, dirigendosi rapidamente, senza osservare la trascuratezza delle sue vesti, verso il circo, dove la plebe stava terminando di prender parte alle passioni impietose del suo Cesare crudele.

130.      Tuttavia, uno spettacolo ancor più terribile gli apparve davanti agli occhi afflitti, nell’isolamento della sua suprema angoscia morale. Eccitati nei bassi istinti della loro perversa materialità, i soldati e il popolo avevano collocato i tragici resti del mostruoso banchetto delle bestie feroci, in quel pomeriggio indimenticabile, sulle sommità di pali e colonne, a guisa di torce improvvisate, che illuminavano tutto lo spazio del grande recinto, con un tetro incendio di frammenti di carne umana.

131.      Publio Lentulo sentì tutta la profondità della sua impotenza davanti a quella suprema dimostrazione di orrore e crudeltà, ma avanzò, vacillando per il dolore, come ubriaco o pazzo, tra lo stupore di coloro che lo videro a piedi in quei luoghi, guardando a bocca aperta le sinistre torce fatte di teste informi e incendiate.

132.      Stava dando libero corso ai suoi pensieri dolorosi, come se il suo spirito non fosse che una tigre incatenata nella gabbia del suo petto invecchiato, quando notò la presenza di due soldati ubriachi, in lotta fra loro a causa di un delicato monile, che richiamò subito la sua attenzione, senza che riuscisse a spiegarsi il motivo del suo improvviso interesse per un qualcosa.

133.      Era una piccola collana di perle, dalla quale pendeva un prezioso antico cammeo. I suoi occhi avevano osservato quell’oggetto strano, e il cuore indovinò il resto. Egli lo aveva riconosciuto. Quel gioiello era stato il regalo di nozze, fatto alla sposa adorata, e solo ora si ricordava dell’attaccamento affettuoso della moglie a quel cammeo che custodiva il profilo di lui giovane, ricordando l’unico affetto della sua gioventù.

134.      Si fermò davanti ai due contendenti che immediatamente avevano assunto un atteggiamento di rispetto, dovuto alla sua presenza.

135.      Interrogati con severità, uno dei soldati esclamò, umile e tremante: «Illustrissimo, questo gioiello apparteneva a una delle donne condannate alle fiere, nello spettacolo di oggi...»

136.      «Quanto volete per questo ritrovamento?» domandò Publio Lentulo accigliato.

137.      «L’ho comprato da un compagno per due sesterzi».

138.      «Dammelo!» replicò il senatore in tono minaccioso e di comando.

139.      I soldati gli consegnarono la collana con umiltà, e il senatore, frugando tra le vesti, estrasse una pesante borsa di monete d’oro, che buttò ai litiganti con una smorfia di ripugnanza e supremo disprezzo.

140.      Publio Lentulo si allontanò da quell’ambiente nefando, trattenendo le lacrime che ora gli salivano come un torrente dal cuore oppresso e ferito. Stringendo al petto quel piccolo ornamento, sembrava do­minato da una forza misteriosa. Gli sembrava che, custodendo quell’ultima reliquia dell’abbigliamento di quel giorno della sua sposa, avrebbe custodito in sé, e per sempre, qualcosa della sua persona e del suo cuore. Lontano dalle luci tragiche che illuminavano macabramente in tutta la sua estensione la via pubblica, il senatore penetrò in una stradina piena di ombre.

141.      Dopo alcuni passi, notò che davanti a sé si alzava verso il cielo un albero gigantesco che ingentiliva tutto l’ambiente con l’antichità delle sue fronde maestose. Vacillando, desideroso di riposo e di conforto, si accostò al tronco annoso. Contemplò le stelle che adornavano di carezzevoli luci tutto il firmamento romano e si ricordò che certamente, in quel momento, l’anima purissima della compagna avrebbe dovuto riposare nella pace sublime degli splendori celesti, sotto la benedizione degli dèi...

142.      In un gesto spontaneo, baciò il minuscolo gioiello, lo strinse con dolce rapimento sul cuore e, considerando l’arido deserto della sua vita, pianse come non aveva mai fatto in nessun’altra circostanza dolorosa della sua tribolata esistenza.

143.      In una profonda retrospettiva di tutto il suo amaro passato, considerò che tutte le sue nobili aspirazioni avevano ricevuto lo scherno degli dèi e degli uomini. Nel suo infelice orgoglio aveva pagato al mondo i più pesanti tributi di angoscia e di lacrime dolorose e, nella sua vanità di uomo, aveva ricevuto le più penose umiliazioni del destino. Rifletté, tardivamente, che Livia aveva fatto di tutto per renderlo felice, con una vita d’amore gioioso, semplice e senza pretese. Ricordò i minimi incidenti del doloroso passato, come se il suo spirito stesse procedendo a una meticolosa autopsia di tutti i suoi sogni, speranze e illusioni nella nebbia del tempo.

144.      Come uomo, aveva vissuto legato agli interessi dello Stato, che gli aveva rubato i più incantevoli momenti della vita familiare e, come marito, non aveva avuto energia sufficiente per armarsi contro le calunnie insidiose. Come padre, si considerava il più disgraziato di tutti. – A cosa gli serviva allora, la corona del trionfo, se gli arrivava come un disgustoso calice di amarezza? A cosa servivano ora le vittorie politiche e il significato sociale dei titoli di nobiltà, così come la massiccia consistenza della sua ricchezza, sotto la mano implacabile del suo impietoso destino in questo mondo?

145.      Si stavano perdendo le sue meditazioni in profondi abissi di ombre e di aspri dubbi, quando gli apparve nella mente tormentata la figura dolce e soave del sublime profeta di Nazareth, con la ricchezza indistruttibile della Sua pace e della Sua umiltà.

146.      Nel pieno dei suoi ricordi, gli sembrò di sentire ancora le straordinarie avvertenze che gli aveva rivolto con voce affettuosa e pietosa, vicino alle acque agitate del lago di Tiberiade. Ricordando intensamente Gesù, si sentì sopraffatto da un turbine di lacrime dolorose che, in qualche modo, gli attenuavano il deserto del cuore. Inginocchiatosi sotto le fronde ricche e generose come aveva fatto un giorno in Palestina, con gli occhi pieni di lacrime, ricordandosi della forza morale che la dottrina cristiana aveva dato all’animo della moglie, nutrendola spiritualmente per ricevere con dignità ed eroismo tutte le sofferenze, esclamò verso i Cieli, con voce supplichevole e dolorosa: «Gesù di Nazareth! È stato necessario che io perdessi il migliore e il più caro di tutti i miei tesori, per ricordare l’essenzialità e la dolcezza delle Tue parole!... Non so comprendere la Tua croce e ancora non so accettare la Tua umiltà dentro la mia franchezza di uomo, ma, se puoi vedere l’enormità delle mie piaghe, soccorri ancora una volta il mio cuore miserabile e infelice...»

147.      Una penosa crisi di pianto fece seguito a quest’invocazione, proferita con sincerità rude, aggressiva e dolorosa. Tuttavia, gli sembrò che un’energia indefinibile lo aiutasse, ora, a superare il doloroso frangente.

148.      Terminata la supplica che gli era sgorgata dal profondo dell’anima affranta, l’orgoglioso patrizio notò che la presenza di una forza sconosciuta modificava, in quel momento indimenticabile, tutte le disposizioni più intime del suo cuore. Rimanendo genuflesso, notò, con la visione interiore del suo spirito, che al suo fianco cominciava a sorgere un punto luminoso, il quale andava sviluppandosi prodigiosamente nella dolorosa serenità di quel penoso istante della sua vita, e si sorprese di quel feno­meno che suggeriva alla sua mente le congetture più inattese.

149.      Alla fine, quel nucleo di luce prese forma, e davanti a sé vide la figura radiosa di Flaminio Severo, che andava da lui per parlargli, nella notte tormentosa della sua infinita amarezza.

150.      Publio ne percepì la presenza, sorpreso e spaventato, identificandolo dai tratti somatici e dai saluti calorosi come quando gli si rivolgeva sulla Terra. Il suo aspetto era lo stesso nella dolce espressione di serenità, ora sfiorata da un triste e amareggiato sorriso. Aveva la stessa toga, dall’orlo di porpora, ma non mostrava l’aspetto marziale e imponente dei giorni terreni. Flaminio lo osservò come se fosse stato assalito da pietà e tristezza infinite. Lo sguardo penetrante del suo spirito gli scrutò i recessi più reconditi della coscienza, mentre il senatore si quietava, riverente, emozionato e sorpreso.

151.      «Publio», gli disse con affetto la voce amica dello spirito, «non ribellarti all’attuazione dei disegni divini che oggi hanno modificato tutti i piani della tua vita! Ascoltami bene: – ti parlo con la stessa sincerità e lo stesso amore che unisce i nostri cuori da tanti secoli... Davanti alla morte, tutte le nostre vanità scompaiono ...nelle sue luci sublimate; i nostri poteri terreni sono miserabilmente fragili! ... L’orgoglio, amico mio, ci apre oltre la tomba una porta di tenebre dense, in cui ci perdiamo nel nostro egoismo e nella nostra ostinazione! ... Torna alla tua casa e bevi l’acre contenuto della coppa delle dure prove, con serenità e coraggio spirituale, perché tu ancora sei lontano dall’aver vuotato il calice delle tue amare purificazioni che si trovano dentro le espiazioni redentrici e supreme. Nel mondo, i grandi dolori senza rimedio apriranno alla tua mente un nuovo cammino negli eterni orizzonti della fede! ... I nostri dèi sono espressioni di fede rispettabile e pura, ma Gesù di Nazareth è la Via, la Verità e la Vita! ... Le nostre illusioni su Giove ci portano a venerare i più potenti e i più forti, considerati prediletti dalle nostre divinità per la doviziosa espressione dei loro ricchi sacrifici, mentre gli insegnamenti preziosi del Messia Nazareno ci portano a considerare la miseria dei nostri falsi poteri di fronte al mondo, abbracciando i più poveri e i più provati dalla sorte, quasi a spingere tutte le creature sulla strada del suo regno, conquistato col sacrificio e lo sforzo di ognuno, alla ricerca di un’unica vita reale, …che è la vita dello Spirito. Oggi io so che un giorno tu perdesti la tua sublime opportunità, ma il Figlio di Dio onnipotente, nella Sua infinita pietà e nel suo infinito amore, ha ascoltato ora il tuo appello, permettendo che il mio antico affetto venga a curare le dolorose ferite del tuo cuore tormentato! ...»

152.      Il senatore lasciò che ogni suo pensiero si perdesse nella tempesta delle lacrime più benedette della sua vita. Quasi soffocato dai singhiozzi del suo pentimento, supplicò mentalmente: «Sì, amico mio e mio maestro, io voglio comprendere la verità e desidero il perdono delle mie enormi colpe! ... Flaminio, ispirazione dell’anima mia lacerata, sii la mia guida nella tormentosa notte del mio triste destino! ... Aiutami col tuo equilibrio e la tua bontà! ... Prendimi di nuovo per mano e illumina il mio cuore nel tenebroso cammino! ... Che fare per ottenere dal Cielo l’oblio delle mie colpe?»

153.      La serena visione, come se si fosse commossa intensamente nel ricevere quell’appello, ebbe ora gli occhi illuminati da una pietosa e divina lacrima.

154.      A poco a poco, senza comprendere il meccanismo di quel fenomeno insolito, Publio osservò che la figura dell’amico svaniva lievemente nell’ombra, allontanandosi dal quadro delle sue contemplazioni spirituali; ma, ciononostante, percepì che le labbra dell’amico mormoravano, pietosamente, una parola: «Perdona!»

155.      Quella soave raccomandazione gli scese nell’anima come un balsamo che lenisce. Si accorse, allora, che i suoi occhi erano ora aperti alla realtà materiale che lo circondava, come se si fosse svegliato da un sonno consolante. Si sentì un poco sollevato dai suoi profondi dolori e si alzò per riprendere, con decisione e coraggio, il pesante fardello dell’esistenza terrena.

156.      Ritornando a casa verso le ventidue, incontrò Flavia e Plinio che lo aspettavano afflitti. Vedendo il suo volto profondamente abbattuto e trasfigurato, la figlia l’abbracciò preoccupata, in uno slancio di tenerezza indefinibile, esclamando in lacrime: «Padre mio, caro padre mio, finora non è stato possibile ottenere alcuna notizia!»

157.      Publio Lentulo, però, fissò nei figli lo sguardo triste e sconfortato, abbracciandoli in silenzio.

158.      In seguito li chiamò nel suo studio particolare, da dove ordinò la convocazione anche di Anna, e i quattro, in un doloroso consiglio di famiglia, esaminarono con commozione gli avvenimenti indimenticabili di quel giorno di prove durissime.

159.      Via, via che il senatore narrava ai figli le penose rivelazioni di Anna, che seguiva le sue parole estremamente emozionata, si notava che Flavia e il marito mostravano nel volto le più singolari e più forti emozioni, sotto l’angosciosa impressione di quella narrazione.

160.      Alla fine del minuzioso racconto, Plinio Severo esclamò nel suo orgoglio avventato: «Ma non potremmo imputare tutta la colpa dei fatti a questa misera creatura che da tanti anni serve indegnamente nella vostra casa?»

161.      Così parlando, l’ufficiale indicò la serva, la quale abbassò la testa umilmente, chiedendo a Gesù che le desse forza nello spirito per la testimonianza di quel momento, che immaginò penosa per i più delicati sentimenti del suo cuore.

162.      Publio Lentulo parve condividere l’opinione del genero; tuttavia gli sembrò che le parole di Flaminio gli risuonassero ancora nel profondo della coscienza, e rispose con fermezza: «Figli miei, dimentichiamo i giudizi affrettati, e per quanto riconosca la mancanza di Anna che accettò le vesti della sua padrona, voglio che sia venerata in questa serva la memoria di Livia, per sempre. Compagna fedele dei suoi tristi martiri per venticinque anni consecutivi, lei rimarrà in questa casa con gli stessi privilegi che le furono elargiti dalla sua benefattrice. Esigo soltanto che il suo cuore sappia custodire i nostri funesti segreti di questa notte, perché desidero onorare pubblicamente la memoria di mia moglie, dopo il suo terribile sacrificio in quella festa dell’infamia».

163.      Flavia e Plinio osservarono sorpresi la sua spontanea generosità verso la serva, la quale a sua volta ringraziava Gesù per la grazia di quel chiarimento.

164.      Il senatore sembrò profondamente cambiato da quel terribile shock che aveva duramente messo alla prova le sue fibre spirituali.

165.      In quel momento, intervenne Plinio Severo, esclamando: «A vari amici nostri che sono venuti qui per complimentarsi con voi, ho detto che a causa del nostro lutto per mia madre, voi non avreste celebrato il vostro trionfo politico in data odierna. Inoltre, ho informato tutti, allo scopo di giustificare la vostra assenza, che la signora Livia si trova gravemente inferma a Tivoli, dove si era recata in cerca di riposo; notizie queste che sono state accolte dai nostri amici col massimo della naturalezza, poiché vostra moglie non aveva più frequentato la società fin dal ritorno dalla Palestina, ed essendo perciò comprensibile che tutti i nostri conoscenti la considerassero malata».

166.      Il senatore ascoltò con interesse queste spiegazioni, come se avesse trovato una soluzione al difficile problema che lo preoccupava.

167.      Dopo pochi minuti, esaminata la possibilità di mettere in atto l’idea che gli era affiorata nella mente afflitta, esclamò più animato: «La tua idea, figlio mio, in questo caso mi ha portato alla prospettiva di una soluzione ragionevole per la triste questione che mi opprime». E con gli occhi umidi, il senatore continuò: «Devo difendere la memoria di mia moglie e, se fosse possibile, lotterei corpo a corpo con l’infame mentalità di questo governo crudele che attualmente ci contamina le migliori conquiste sociali; ma se mi mettessi a urlare personalmente la mia indignazione e la mia ribellione nella pubblica piazza, sarei considerato pazzo; e se sfidassi Nerone, sarebbe lo stesso che tentare di fermare le acque del Tevere con il gambo di un fiore. In questo senso, vedrò di agire negli ambienti politici per sconfiggere il tiranno e i suoi gregari, anche nel caso che questo ci costasse il massimo del tempo e della pazienza. – Ora, quello che devo fare urgentemente è rendere tutti gli omaggi possibili ai sentimenti immacolati della compagna strappata al mio affetto dal vortice della pazzia e della crudeltà».

168.      Flavia e Plinio lo ascoltarono silenziosi e commossi, senza interrompere il corso rapido delle sue parole, mentre egli proseguì sensatamente: «Per più di dieci anni la società romana ha visto nella mia sposa un’inferma e una demente. E poiché i nostri amici sono stati avvisati che Livia si trova a Tivoli, forse aspettando la morte, io partirò per Tivoli, anche questa notte stessa, portando Anna con me...»

169.      E come se fosse dominato da un’idea fissa, con quella preoccupazione di rendere omaggio all’indimenticabile defunta, Publio Lentulo, continuò: «La nostra casa a Tivoli è ora disabitata, perché da più di venti giorni Filopator è andato a Pompei per mio ordine... Arriverò là con Anna, portando un’urna funeraria che, a tutti gli effetti, racchiuderà i resti della mia povera Livia... I nostri servi devono partire domani, anch’essi, allorché io invierò messaggeri a Roma, comunicando loro l’accaduto, per soddisfare le esigenze della vita sociale! ... A Tivoli renderemo alla memoria di Livia tutti gli omaggi, trasportando in seguito, pubblicamente, le ceneri qui, dove farò celebrare le esequie più solenni, con visite pubbliche, testimoniando così, per quanto tardivamente, la mia venerazione alla santa creatura che sacrificò per noi la vita intera...»

170.      «Ma... e la cremazione?» domandò Plinio Severo, prudentemente, pensando al possibile esito del progetto.

171.      Il senatore però non esitò, risolvendo il caso con l’energia che gli era abituale nelle decisioni: «Se questa cerimonia esige la presenza dei sacerdoti, mi recherò presso il ministro del culto, in città, facendo presente il desiderio di fare tutto nel più ristretto circolo della mia intimità familiare. Ciò che mi resta da dire, ora, è solamente questo: m’aspetto da voi che mi state ascoltando, un silenzio sepolcrale sulle do­lorose decisioni di questa notte, per non offendere la suscettibilità di coloro che sono legati ai preconcetti sociali».

172.      Sorpreso da quell’energia in circostanze così penose, Plinio Severo gli fece compagnia in quelle ore di notte inoltrata per comprare l’urna funeraria, che fu acquistata in pochi minuti da un commerciante, il quale non domandò nulla allo strano cliente, prestando riguardo alla sua posizione sociale e politica, così come alla grande importanza dell’acquisto, effettuato con significativo vantaggio dei suoi interessi.

173.      In quella stessa notte, Publio Lentulo e Anna si misero in viaggio con alcuni schiavi, verso la città delle vacanze degli antichi romani, superando in alcune ore le fitte tenebre del cammino e arrivando con la tranquillità necessaria, a organizzare le ultime cerimonie in omaggio alla memoria di Livia.

174.      Tutte le precauzioni furono adottate, con profonda sorpresa da parte di tutti i servi, che non ardivano discutere gli ordini ricevuti, e anche da parte dei patrizi della città che sapevano malata la sposa del senatore, ma ignoravano il doloroso episodio della sua morte.

175.      Flavia e Plinio furono chiamati il giorno dopo, per soddisfare tutte le esigenze di ordine sociale, in quella penosa presentazione di condoglianze.

176.      Un’offerta oltremodo ricca e generosa da parte di Publio Lentulo al culto di Giove, gli procurò la piena autorizzazione dei sacerdoti tiburtini riguardo alla sua decisione di cremare il corpo della sposa nell’intimità della famiglia, e onorare così la memoria di Livia con tutte le cerimonie dell’antico culto degli dèi, invocando la protezione dei Mani e delle divinità domestiche.

177.      Numerosi portatori furono spediti a Roma e, dopo due giorni, l’urna funeraria arrivò nella capitale dell’Impero, entrando con tutti gli onori nel palazzo sull’Aventino, dove l’attendeva un superbo catafalco.

178.      Per tre giorni consecutivi le ceneri simboliche di Livia rimasero esposte per la visita del popolo, avendo il senatore ordinato di distribuire grandi donativi, in alimenti e denaro, alla plebe che fosse andata a rendere omaggio alla memoria della sua cara defunta. Lunghe file di pellegrini visitarono la residenza, giorno e notte, dandole l’aspetto di un tempio aperto a tutte le classi sociali. Tutta la nobiltà romana, incluso il crudele imperatore, fu rappresentata nei fasti di quelle cerimonie funebri che erano quasi un’espressione di rimorso e il tentativo di riparazione da parte del marito afflitto. Publio Lentulo conside­rò che solo così avrebbe potuto pentirsi pubblicamente del passato, riguardo a sua moglie, che tornava ad occupare il posto d’onore nel numeroso circolo di amicizie aristocratiche della sua famiglia.

179.      Terminate le cerimonie, il senatore chiese che la figlia e il genero, e anche Agrippa, andassero ad abitare nel palazzo sull’Aventino insieme a lui, nella qual cosa fu assecondato con carattere provvisorio, come assicurava Plinio alla moglie, e in quella stessa notte, con l’anima affranta dalla nostalgia e dal­l’angoscia, trasportò, con Anna, tutti gli oggetti di uso personale della sposa nei suoi appartamenti privati.

180.      Terminato il lavoro, Publio Lentulo esclamò, rivolto alla serva, con singolare interesse: «Tutto pronto?»

181.      Ricevendo risposta affermativa, insistette, quasi mancasse ancora qualcosa, alludendo alla croce di Simeone, custodita con tutte le attenzioni dalla devota Anna, come se più nessuno potesse apprezzare il significato speciale di quel tesoro: «Dov’è quella piccola croce di legno grezzo che mia moglie venerava tanto?»

182.      «Ah! È vero...» esclamò la serva, soddisfatta nell’osservare il cambiamento di quell’anima austera. E prendendo in camera sua il modesto ricordo dell’apostolo della Samaria, glielo consegnò con affettuoso rispetto.

183.      Il senatore ripose la croce in un mobile segreto. Nondimeno, se qualcuno avesse potuto seguirlo nella sua triste esistenza, avrebbe potuto vederlo, tutte le notti, nella solitudine del suo appartamento, con accanto il prezioso simbolo della fede della sua compagna.

184.      Quando le luci del palazzo pian piano si spensero e tutti cercavano il riposo nel silenzio della notte, l’orgoglioso patrizio prendeva dallo scrigno dei suoi ricordi più cari la croce di Simeone e, inginocchiandosi come faceva Livia, arrestava la macchina del convenzionalismo mondano, per meditare e piangere amaramente.

 

 

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Cap. XVI

AURORA DEL REGNO DEL SIGNORE

1.                Riportandoci alla dolorosa e commovente scena del sacrificio dei martiri cristiani nell’arena del circo, siamo spinti ad accompagnare l’entità Livia nel suo viaggio trionfale verso il regno di Gesù.

2.                Mai gli orizzonti della Terra furono rallegrati con paesaggi di tanta bellezza come quelli che si aprirono nelle sfere più vicine al pianeta, quando ci fu la partenza in gruppo dei primi discepoli del cristianesimo, sterminati dall’empietà umana, nei tempi aurei e gloriosi della dottrina consolatrice del Nazareno.

3.                Quel giorno, quando le belve affamate fecero a pezzi gli indifesi seguaci delle nuove idee, tutta una legione di spiriti soavi e benevoli, sotto l’egida del divin Maestro, stava intorno ai loro cuori lacerati dal martirio, colmandoli di forza, rassegnazione e coraggio per la suprema testimonianza della loro fede.

4.                Sulle nefaste passioni, scatenate in quella folla ignorante e impietosa, i poteri del Cielo dispiegarono il manto infinito della loro misericordia, e al di là delle grida paurose e assordanti, c’erano voci che benedicevano, offrendo ai martiri del Signore una fonte di soavi e felici consolazioni.

5.                Moriva ormai il giorno, quando caddero le ultime vittime nello scontro brutale con i leoni furiosi e implacabili. Aprendo gli occhi fra le braccia affettuose del suo vecchio e generoso amico, Livia comprese immediatamente il compimento dell’angoscioso passaggio. Simeone aveva sulle labbra un sorriso divino e le accarezzava paternamente i capelli con delicatezza e dolcezza. Una strana emozione vibrava nell’anima libera della sposa del senatore, che si vide sopraffatta da lacrime dolorose. Al suo fianco notò, con penosa sorpresa, i resti sanguinanti del corpo squarciato, e comprese, sebbene con spavento, il dolce mistero della resurrezione spirituale di cui parlava Gesù nelle sue lezioni divine.

6.                Desiderò parlare, così da tradurre i suoi pensieri più intimi e, tuttavia, aveva il cuore pieno di emozioni indefinibili e angoscianti. Poco dopo notò che, dall’arena intrisa di sangue, si elevavano entità come la sua, tentando passi vacillanti, sorrette nondimeno da creature eteree, aureolate di grazia incomparabile, come non ne aveva mai contemplate in nessuna circostanza della vita. Ai suoi occhi scomparve lo scenario tumultuoso e carico di colori del circo dell’ignominia, e alle sue orecchie non risuonarono più le risate beffarde e perverse degli spettatori senza pietà.

7.                Notò che dal firmamento stellato scendeva una luce misericordiosa e pietosa, e le sembrò che un nuovo chiarore, sconosciuto sulla Terra, si fosse meravigliosamente acceso dentro la notte. Una moltitudine immensa di esseri, che le parvero alati, circondava tutti, riempiendo l’ambiente di vibrazioni divine. Meravigliata, vide allora che tra la Terra e il cielo si andava formando un radioso cammino...

8.                Attraverso una striscia di luce indescrivibile, che non era arrivata a offuscare il bagliore carezzevole e tenero delle stelle che, scintillando, ornavano l’azzurro delicato del firmamento, osservò nuove legioni di spiriti che scendevano velocemente dalle meravigliose regioni dell’Infinito.

9.                Attratte dai suoni delicati di quell’ambiente inenarrabile, i suoi orecchi ascoltarono allora sublimi melodie del piano invisibile, come se, accompagnati da lire e flauti, arpe e liuti, nell’Alto cantassero i divini uccelli del paradiso, proiettando le gioie celesti sui paesaggi oscuri e tristi della Terra.

10.           Il suo spirito, come spinto da un’energia misteriosa, riuscì allora a manifestare le emozioni più intime e più care.

11.           Stringendosi al vecchio e generoso amico di Samaria poté mormorare, bagnata di lacrime: «Simeone, mio benefattore e maestro, prega con me Gesù perché quest’ora mi sia meno dolorosa».

12.           «Sì, figlia», rispose il venerabile discepolo, stringendola al cuore come si farebbe con un bambino, «il Signore, nella sua infinita misericordia, riserva il Suo affetto a quanti ricorrono alla Sua magnanimità, con fede ardente e cuore sincero... Calma il tuo spirito, perché tu sei, ora, in cammino verso il regno del Signore, destinato ai cuori che molto hanno amato!»

13.           In quel momento una forza inconcepibile sembrava spingere verso le Alture quanti rimanevano lì senza l’ingombrante indumento terreno. Livia sentì che le mancava la terra sotto i piedi e che tutto il suo essere volteggiava nel pieno spazio, provando strane sensazioni, per quanto fortemente aggrappata alle braccia generose del venerando amico.

14.           Era, infatti, una radiosa schiera di entità purissime che si elevava in gruppo, attraverso quello scintillante cammino tracciato dalla luce nella piena aria. Sperimentando singolari sensazioni di leggerezza, la sposa del senatore si sentì sprofondare in un oceano di vibrazioni soavissime.

15.           Tutti i compagni, anch’essi assistiti dai messaggeri divini, le sorridevano, ed ella, contemplandoli, identificava uno a uno, quanti le erano stati fratelli nel carcere, nel martirio e nella morte infame. Tuttavia ad un tratto, come se la memoria fosse stata richiamata a tutti i particolari della realtà terrena, si ricordò di Anna, sentendo la sua mancanza in quella giornata di glorificazione in Gesù Cristo.

16.           Bastò che il ricordo le affiorasse nell’intimo, perché la voce di Simeone chiarisse con la sua proverbiale bontà: «Figlia, più tardi potrai sapere tutto... Nella tua nostalgia, però, inchinati sempre di fronte ai disegni divini ispirati a ogni saggezza e misericordia... Non preoccuparti dell’assenza di Anna in questo banchetto di gioia celestiale, perché Gesù ha creduto bene di conservarla ancora per qualche tempo nell’officina delle sue benedizioni, tra le ombre dell’esilio terreno...»

17.           Livia ascoltò e si rassegnò silenziosamente. Si rese conto che avevano sempre proseguito attraverso la stessa strada meravigliosa, che ai suoi occhi pareva unire il cielo alla Terra in un fraterno abbraccio di luce; le sembrò che tutti i divini componenti della luminosa schiera fluttuassero in un movimento ascensionale, nel pieno spazio, dirigendosi verso regioni gloriose e sconosciute. In seno agli elementi aerei, si meravigliava di conservare totalmente il meccanismo delle sue sensazioni fisiche, attraverso l’etereo e radioso cammino.

18.           Lontano, negli abissi senza fine, le sembrò di intravedere nuovi firmamenti stellati, che si moltiplicavano meravigliosamente dentro l’Infinito, e osservava che radiazioni folgoranti, a volte, le offuscavano gli occhi incantati...

19.           Altre volte, guardando furtivamente indietro, vedeva un gruppo compatto di ombre in movimento, dove si localizzavano le sfere della vita nella Terra lontana.

20.           Su entrambi i lati del cammino vide che c’erano fiori belli e profumati, come se i gigli terrestri, ma con caratteristiche più delicate, fossero stati trasportati nei giardini del paradiso. L’eternità le si presentava con incanti e situazioni incredibili!...

21.           Simeone parlava affettuosamente del suo adattamento alla nuova vita e alle sublimi bellezze del regno di Gesù, ricordando con gioia le penose angustie della vita sulla Terra, allorché alle sue orecchie echeggiarono i gorgheggi argentini e armoniosi degli usignoli siderei, che festeggiavano sulle Alture, la redenzione dei martiri del cristianesimo, come se stessero giungendo nelle vicinanze di una nuova Galilea, piena di melodie e profumi deliziosi, innalzata alla luce piena dell’Infinito, come se fosse un nido di anime pure e santificate che oscillavano ai venti profumati della perenne primavera, sull’albero meraviglioso e senza fine della Creazione...

22.           Quell’inno soave e chiaro, che si elevava ora sulle Alture in suoni prodigiosi, come se fosse un tenue incenso delle anime per raggiungere il trono del Sempiterno, nell’osanna d’amore, di gioia e di gratitudine, ora discendeva in melodie esaltanti dirigendosi verso le ombre della Terra, come se fosse un grido di fede e di speranza in Gesù Cristo, destinato a risvegliare nel mondo i cuori più perversi e induriti.

23.           Il linguaggio umano non può riuscire a tradurre fedelmente le armoniose vibrazioni delle melodie dell’Invisibile, ma quel cantico di gloria, sia pur pallidamente, deve essere ricordato da noi come un soave ricordo del paradiso:

«Gloria a Te, Signore dell’Universo, Creatore di tutte le meraviglie!

È per la Tua inaccessibile sapienza che si accendono le costellazioni negli abissi dell’Infinito, ed è per la Tua bontà che cresce la tenera erba sulla crosta scura della Terra!

Per la Tua inestimabile grandezza e per la Tua misericordiosa giustizia, il Tempo apre i suoi illimitati tesori per le anime!

Per il Tuo amore, sacrosanto e sublime, nascono tutti i sorrisi e tutte le lacrime nel cuore delle creature!

Benedici, Signore dell’Universo, le sacre speranze di questo regno. Gesù è per noi il Tuo Verbo d’amore, di pace, di carità e di bellezza! Fortifica le nostre aspirazioni, affinché possiamo collaborare nel tuo Santo Terreno!

Moltiplica le nostre energie e fa’ piovere su di noi il sacro fuoco della fede, affinché possiamo spargere sulla Terra i divini semi dell’amore del Figlio Tuo!

Basta una goccia della divina rugiada della Tua misericordia perché si purifichino tutti i cuori, immersi nel fango dei delitti terreni e del loro perpetuarsi, e basta un solo raggio del Tuo potere perché tutti gli Spiriti si convertano al bene supremo!...

E ora, o Gesù, Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, accogli le nostre suppliche fervide e ardenti.

Benedici, o divin Maestro, coloro che giungono redenti con il vivo desiderio delle Tue benedizioni santissime!

Vittime della perversità umana, i tuoi missionari hanno soddisfatto valorosamente ogni obbligo che li teneva legati al carcere penoso dell’esilio!

Il mondo, nel vortice delle sue inquietudini e iniquità, non comprese il loro cuore amabilissimo, ma Tu nella Tua bontà e misericordia, apri ai martiri della verità le porte divine del Tuo regno di luce..

24.           Strofe di profonda bellezza diffondevano nelle strade luminose e splendide dell’etere universale, benedizioni di pace e di gioie armoniose.

25.           Gli esseri inferiori dalle sfere spirituali più vicine al pianeta ricevevano quei sacrosanti effluvi del celeste banchetto riservato da Gesù ai martiri della Sua dottrina di redenzione, come se fossero anch’essi invitati dalla misericordia del divin Maestro. Molti di essi, ricevendo nell’intimo quelle vibrazioni meravigliose, si erano convertiti per sempre all’amore e al bene supremi.

26.           Armonie soavissime riempivano tutte le atmosfere spirituali, spargendo sulla Terra fulgori sacri e sovrani. In quella regione di bellezze ignote e prodigiose, intraducibili nella povertà del linguaggio umano, Livia ritemprò le forze morali, dopo l’austera realizzazione della sua missione divina. Lì comprese la profondità del concetto di “molte dimore” degli insegnamenti di Gesù, sia contemplando insieme a Simeone le più diverse sfere di lavoro, localizzate nelle vicinanze della Terra, sia studiando la grandezza dei mondi disseminati dalla sapienza divina nell’oceano incommensurabile dell’etere, nell’immortalità. Ubbidendo agli impulsi del suo cuore, non si dimenticò delle antiche amicizie nei circoli spirituali, collocati nelle zone terrene.

27.           Dopo alcuni giorni di soavi e dolci emozioni, tutti gli Spiriti riuniti in quel paesaggio luminoso si prepararono per ricevere la visita del Signore, come quando godevano della Sua divina presenza nella bucolica cornice della Galilea.

28.           In un giorno di rara e indefinibile bellezza, in cui una luce dalle sfumature divine versava saporoso miele di gioia in tutti i cuori, scese l’Agnello di Dio dalla sfera superiore delle Sue glorie sublimi, e prendendo la parola in quel cenacolo di meraviglie, fece ricordare le Sue indimenticabili prediche presso le acque tranquille del piccolo ‘mare di Galilea’. In nessun modo si potrebbe tradurre fedelmente sulla Terra la nuova bellezza della Sua parola eterna, essenza di tutto l’amore, di tutta la verità e di tutta la vita. Ma costituisce per noi un dovere, in questa sintesi, ricordare la Sua illimitata sapienza, osando riprodurre imperfettamente e superficialmente l’essenza della Sua lezione divina in quel momento indimenticabile.

29.           Sembrava a tutti i presenti, una copia fedele dei quadri delicati e luminosi di Tiberiade. La parola del Maestro scendeva nelle anime con suono profondo e misterioso, mentre dai Suoi occhi proveniva la stessa vibrazione di misericordia e di serena maestà.

30.           «Venite a me, voi tutti che seminaste, con lacrime e sangue, nella vigna celeste del Mio regno di amore e di verità!... Le infinite dimore del Padre hanno luce sufficiente per dissipare tutte le tenebre, consolare tutti i dolori e riscattare tutte le iniquità... Gloria a voi, quindi, nella sapienza e nell’amore di Dio Onnipotente, a voi che avete già scosso via la polvere dai miserabili sandali della carne, attraverso i sacrifici purificatori della Terra! Una pace sovrana vi attende, per sempre, nel regno immenso e infinito, promesso dai divini alleluia della Buona Novella, perché non avete nutrito altra aspirazione al mondo se non quella di cercare il regno di Dio e della sua giustizia.

31.           Tra la Mangiatoia e il Calvario Io tracciai per le mie pecorelle un cammino eterno e luminoso... Il Vangelo ora fiorisce come il campo imperituro e inesauribile di benedizioni divine. Tuttavia non fermiamoci, miei amati, perché tempo verrà sulla Terra, in cui tutte le Sue lezioni saranno disprezzate e dimenticate... Dopo un lungo periodo di sacrifici per rafforzarla nelle anime, la Dottrina della redenzione sarà chiamata ad illuminare il governo transitorio dei popoli. Ma l’orgoglio e l’ambizione, il dispotismo e la crudeltà rivivranno gli abusi nefandi del loro arbitrio! Il culto antico, con le sue rovine pompose, cercherà di restaurare i templi abominevoli del vitello d’oro. I preconcetti religiosi, le caste clericali e i falsi sacerdoti ristabiliranno nuovamente il mercato delle cose sacre, offendendo l’amore e la sapienza del Padre nostro che placa la più piccola onda del mare immenso, così come asciuga la più nascosta lacrima che la creatura versa nel silenzio delle sue orazioni o nella dolorosa serenità della sua indicibile amarezza!

32.           Sotterrando il Vangelo in dispregio dei luoghi santi, gli abusi religiosi non potranno, tuttavia, seppellire la luce delle Mie verità, estirpandole dal cuore degli uomini di buona volontà!... Qualora si verificasse questa eclisse nello sviluppo dei Miei insegnamenti, non per questo smetterò di amare intensamente il gregge delle Mie pecorelle fatte fuggire dall’ovile!... Dalle sfere di luce che dominano tutti i cerchi delle attività terrene, camminerò con i Miei ribelli proteggendoli, come una volta fra i cuori impietosi e induriti di Israele, che un giorno scelsi come messaggero delle verità divine, tra le tribù deviate dell’immensa famiglia umana!

33.           In nome di Dio Onnipotente, Padre Mio e Padre vostro, Mi rallegro con voi per le ricompense spirituali che con i vostri sacrifici benedetti e con le vostre rinunce purificatrici avete conquistato nel Mio regno di pace! Numerosi missionari della Mia dottrina cadranno ancora, esanimi, nell’arena dell’empietà, ma costituiranno con voi la schiera apostolica che giammai si dissolverà, proteggendo tutti gli operai che avranno perseverato fino alla fine, nel lungo cammino della salvezza delle anime!...

34.           Quando l’oscurità diventerà più profonda nei cuori sulla Terra, determinando l’utilizzo di tutti i progressi umani atti allo sterminio, alla indigenza e alla morte, spargerò la Mia luce su tutta la carne, e tutti coloro che vibreranno con il Mio regno avranno fiducia nelle Mie promesse e ascolteranno le nostre voci e i nostri appelli santificanti!...

35.           Tramite la sapienza e la verità contenute nelle soavi rivelazioni del Consolatore, il Mio Verbo si manifesterà nuovamente nel mondo, per le creature disorientate nel difficile cammino, per mezzo delle vostre lezioni che si perpetueranno nelle immense pagine dei secoli futuri.

36.           Sì, Miei cari, perché giorno verrà in cui le menzogne umane saranno smascherate dalla Luce delle rivelazioni del Cielo. Un potente soffio di verità e di vita monderà tutta la Terra, la quale pagherà, allora, all’evoluzione delle sue istituzioni, i più pesanti tributi di sofferenze e di sangue... Stanco di ricevere i fluidi velenosi dell’ignominia e dell’iniquità dei suoi abitanti, il pianeta sconvolgerà le sue stesse viscere con dolorosi cataclismi, protestando così contro la criminosa protervia degli uomini. Le empietà terrene formeranno pesanti nubi di dolore che a un dato momento si squameranno in tempeste di lacrime sulla tenebrosa faccia della Terra, e allora, dalla luce della Mia misericordia contemplerò il Mio gregge infelice e dirò come i miei emissari: “O Gerusalemme! O Gerusalemme!”

37.           Tuttavia, il Padre nostro, che è la sacra espressione di tutto l’amore e di tutta la sapienza, non vuole che si perda neanche una sola delle Sue creature, cadute nei tenebrosi sentieri dell’empietà!... Lavoreremo con amore nell’officina dei secoli futuri; riorganizzeremo tutti gli elementi distrutti; esamineremo con calma tutte le rovine cercando il materiale ancora riutilizzabile; e quando le istituzioni terrene ricomporranno la loro vita nella fraternità e nel bene, nella pace e nella giustizia, dopo la sele­zione naturale degli spiriti e dentro gli sconvolgimenti rinnovatori della vita planetaria, organizzeremo per il mondo un nuovo ciclo evolutivo, consolidando con le divine verità del Consolatore i progressi definitivi dell’uomo spirituale».

38.           La voce del Maestro sembrava riempire tutto l’infinito, come se Egli la lanciasse, quale segno divino del Suo amore, nello spazio e nel tempo illimitati, in seno alla radiosa Eternità.

39.           Terminata l’esposizione delle Sue sublimi profezie, la Sua figura divina s’innalzò verso l’alto, mentre un oceano di luce azzurra, con suoni di divine e incomparabili melodie, invadeva quei domini spirituali con le dolci tonalità degli zaffiri terrestri.

40.           Tutti i presenti, inginocchiati nella loro dolce emozione, piangevano di gratitudine e gioia, colmi di santo coraggio per le elevate missioni che avrebbero dovuto realizzare nel corso incessante dei secoli. Fiori dalle meravigliose sfumature azzurre piovevano dall’alto su tutte le teste, disfacendosi tuttavia, allorquando toccavano le delicate sostanze che formavano il suolo di quel paesaggio di sovrana armonia, come se fossero gigli fluidici di nebbia profumata.

41.           Livia piangeva di un’indefinibile commozione, mentre Simeone, con i suoi generosi insegnamenti, la istruiva sulle nuove missioni di lavoro santificante che, nel piano spirituale, attendevano la sua dedizione.

42.           «Amico mio…», disse lei tra le lacrime, «…le agonie terrene sono un prezzo miserabile per queste radiose e immortali ricompense! Se tutti gli uomini avessero una nozione diretta di simili fortune, non avrebbero altra preoccupazione se non quella di cercare il glorioso regno di Dio e la Sua giustizia».

43.           «Sì, figlia», aggiunse Simeone come se i suoi occhi si posassero serenamente sui panorami del futuro. «Un giorno, tutti gli esseri della Terra conosceranno il Vangelo del Maestro, osservandone gli insegnamenti! ... Per questo dovremo sacrificarci per l’Agnello di Dio, quante volte sarà necessario. Organizzeremo posti avanzati di lavoro tra le ombre terrestri, cercheremo di svegliare tutti i cuori addormentati nelle reincarnazioni dolorose, per le armonie sublimi di queste divine aurore! Se sarà necessario, torneremo di nuovo al mondo in missioni santificatrici di pace e di verità. ... Moriremo sulla croce infame o daremo il nostro sangue in pasto alle fiere dell’ambizione e dell’orgoglio, dell’odio e dell’empietà, che dormono nelle anime dei nostri compagni dell’esistenza terrestre, convertendo tutti i cuori all’amore di Gesù Cristo!»

44.           In quel momento, tuttavia, Livia notò che un gruppo grazioso di entità angeliche distribuiva le grazie del Signore in quel paesaggio fiorito dell’Infinito, organizzato nell’aldilà come un luogo di riposo per ricompensare coloro che erano reduci dalle angustie terrene, dopo aver compiuto la missione divina.

45.           Tutti quelli che avevano raggiunto la vittoria celeste con i loro sforzi, attraverso i martiri santificanti, ritempravano ora le loro forze morali e desideravano conoscere nuove sfere di piacere spirituale, nuove espressioni della vita in altri mondi, ricevendo altre cognizioni nei templi radiosi e sublimi dell’Eternità e, allo stesso tempo, ristabilendo l’equilibrio delle loro emozioni.

46.           Accanto alla magnanimità dei messaggeri di Gesù, sublimi piani furono architettati. Nuovi scenari, nuove officine di studio e nuove emozioni, nel reincontro di affetti indimenticabili, avevano preceduto i missionari del Signore nella notte scura e fredda della morte. Ma giunto per lei il momento di esprimere i suoi più reconditi desideri, la nobile compagna del senatore, dopo aver esaminato i suoi sentimenti più profondi, rispose fra le lacrime all’emissario di Gesù che la interrogava: «Messaggero del Bene, le meraviglie del regno del Signore avrebbero per me una nuova bellezza se io potessi penetrarle in tutta la loro magnificenza in compagnia di quel cuore che è la metà del mio, in compagnia dell’anima gemella della mia, che la sapienza di Dio, nei suoi profondi e dolci misteri, destinò al mio modo di essere, fin dall’alba dei tempi!...

47.           Lungi da me disprezzare la gloria sublime di queste regioni di felicità e di pace indicibile, ma in mezzo a tutte queste delizie che mi circondano, sento la nostalgia dell’anima che è il complemento della mia stessa vita! Fammi la grazia di tornare tra le ombre della Terra e togliere dal degrado dell’orgoglio e delle vanità impietose il compagno del mio destino! Permettimi di proteggerlo in spirito, affinché un giorno io possa portarlo ai piedi di Gesù, così da ricevere anche lui le sue divine benedizioni!»

48.           L’entità angelica sorrise con profonda comprensione e tenera compiacenza, esclamando: «Sì, l’amore è il legame di luce eterna che unisce tutti i mondi e tutti gli esseri dell’universo; senza di esso la stessa Creazione infinita non avrebbe ragione di esistere, perché Dio è la sua espressione suprema... Le prospettive affascinanti delle sfere felici perderebbero la divina bellezza, se non serbassimo la speranza di partecipare, un giorno, delle sue illimitate fortune presso i nostri cari che si incontrano sulla Terra o negli altri circuiti di prove dell’Universo». – E fissando lo sguardo lucido negli occhi sereni e sfolgoranti di Livia, continuò come se penetrasse nei suoi pensieri più segreti e più profondi: «Conosco tutta la tua storia e so delle tue lotte incessanti e redentrici nelle incarnazioni del passato, giustificando così i tuoi propositi di voler continuare, in spirito, a lavorare sulla Terra per il perfezionamento di coloro che tanto amasti! Anche l’Agnello di Dio, per amare molto l’umanità, non disdegnò l’umiliazione, il martirio, il sacrificio... Va’, figlia mia, potrai lavorare liberamente tra le falangi radiose che operano sulla faccia scura del pianeta terrestre. E tornerai qui, sempre che tu abbia bisogno di nuovi chiarimenti e nuove energie. Ritornerai insieme a Simeone non appena lo desideri. Proteggi il tuo infelice compagno nel lungo cammino delle sue dure e amare espiazioni, anche perché lo sventurato Publio Lentulo non è lontano dalla sua più angosciosa prova nell’attuale esistenza, infelicemente sprecata, per il suo smisurato orgoglio e per la sua vanità fredda e impietosa!»

49.           Livia si sentì presa da un’indicibile emozione di fronte a quella dolorosa rivelazione, ma allo stesso tempo manifestò tutta la sua gratitudine verso la misericordia divina, nell’intimità del suo cuore sensibile e amoroso.

50.           In quello stesso giorno, in compagnia di Simeone, la generosa creatura ritornava sulla Terra, allontanandosi temporaneamente da quegli splendidi domini. Attraverso il suo viaggio spirituale, sublime e vertiginoso, osservò le stesse prospettive incantatrici e affascinanti del cammino, ricevendo, estasiata, elevati insegnamenti dal venerabile amico della Samaria. In poco tempo si avvicinarono tutti e due a una larga macchia scura.

51.           Già nell’atmosfera della Terra, Livia sentì la singolare differenza della natura ambientale, provando i più penosi turbamenti fluidici. A un certo momento si rese conto che si trovavano nella stessa Roma della sua infanzia, della sua gioventù e delle sue amare esperienze. Era mezzanotte. Tutto l’emisfero era immerso negli abissi dell’ombra.

52.           Protetta dalle braccia e dall’esperienza di Simeone, arrivò al suo antico palazzo sull’Aventino, riconoscendone i marmi preziosi. Entrando lì, Livia e Simeone si diressero immediatamente verso l’appartamento del senatore ancora illuminato da una debole luce. Ad eccezione delle vie dove rumorosamente si muovevano gli schiavi nei servizi notturni di trasporto, secondo gli usi del tempo, tutta la città riposava nell’oscurità.

53.           Inginocchiato, con accanto la reliquia di Simeone, come da sua recente abitudine, Publio Lentulo meditava. Il suo pensiero scendeva negli abissi tenebrosi del passato, dove cercava di rivedere, con angoscia, gli affetti indimenticabili che lo avevano preceduto nei tristi sentieri della morte. Era da più di un mese che anche la sua sposa era partita verso i misteri della tomba, in tragiche circostanze.

54.           Immerso nelle tenebre del suo esilio di amarezze e profonde nostalgie, l’orgoglioso patrizio placava le inquietudini dolorose della giornata, per meglio meditare sui misteri dell’essere, della sofferenza e del destino... A un certo punto, quando più profondi e melanconici erano i penosi ricordi, notò, attraverso il velo delle lacrime, che la piccola croce di legno emanava delicati fili di luce argentea, come se fosse bagnata di una luce lunare dolce e misericordiosa.

55.           Publio Lentulo, immerso nelle vibrazioni pesanti e oscure della carne, non vide la nobile figura di sua moglie che si trovava lì insieme al venerabile apostolo della Samaria, e che si rallegrava nel nome del Signore nel verificare i profondi e benefici cambiamenti spirituali della sua anima gemella, attraverso la ripetuta peregrinazione delle incarnazioni terrene. Dominata da gioia e gratitudine per la divina Provvidenza, Livia lo baciò sulla fronte in un impulso di indefinibile tenerezza, mentre Simeone alzava al Cielo una preghiera di amore e ringraziamento.

56.           Il senatore non percepì direttamente la loro presenza soave e luminosa, ma nel profondo dell’anima si sentì toccato da una forza nuova, nel momento stesso in cui il suo cuore lacerato si vide avvolto nella luce carezzevole di una consolazione ineffabile e fino ad allora sconosciuta.

 

 

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Cap. XVII

LE TRAME DELLA SVENTURA

1.                Sembrava che l’anno 58 fosse destinato a segnare le più penose disgrazie nella vita del senatore Lentulo e della sua famiglia. La morte di Calpurnia e quella inattesa di Livia, dolorosi avvenimenti che imposero alla casa un lutto permanente, obbligarono Plinio Severo a dedicarsi un po’ di più all’ambiente domestico dove aveva instaurato una tregua ai suoi eccessi di uomo ancora giovane, per vivere in relativa calma a fianco della sposa.

2.                Invece Aurelia, nella violenza delle sue pretese, non si dava pace. Riuscita ad introdurre una serva astuta presso Flavia, secondo un antico progetto della sua mente malata, iniziò la perversa attuazione di un piano diabolico: avvelenare lentamente la solitaria e infelice rivale.

3.                Da principio, la figlia del senatore osservò la comparsa sulla pelle di alcune eruzioni che, considerate di poca importanza, furono curate solamente con una pasta di mollica di pane mescolata a latte di mula, medicamento ritenuto all’epoca come uno dei farmaci più efficaci per la cura della pelle. La sposa di Plinio, tuttavia, lamentava continuamente debolezza, presentando il più profondo abbattimento.

4.                Quanto a Plinio, riprendere la normale vita pubblica e darsi di nuovo al violento amore di Aurelia, fu questione di pochi giorni. Tornò così alla vita spettacolare con l’amante e, ora, con una situazione sentimentale molto aggravata dalle calunnie di Saul circa le relazioni amorose di Agrippa con la moglie.

5.                Plinio Severo, per quanto generoso, era impulsivo: nella vita familiare il suo spirito era quello di quei tiranni domestici che, pur seguendo la condotta più sregolata e incomprensibile, non tollerava la minima mancanza all’interno del sacrario della famiglia. Nonostante il suo comportamento errato e condannabile, iniziò a seguire costantemente, sposa e fratello, con la feroce impulsività di un leone offeso.

6.                Saul di Giora, a sua volta, contrariato per il grandissimo e fraterno affetto tra Flavia e Agrippa, non perdeva occasione per avvelenare il cuore impetuoso dell’ufficiale, raccontandogli le calunnie più turpi e ingiustificabili.

7.                Agrippa, nella sua generosità e nel suo sentimentalismo, non poteva immaginare le insidie che lo circondavano nella vita comune, e continuava a coltivare la sua preziosa amicizia con la donna che non poteva amarlo se non con sublime amore fraterno.

8.                Tuttavia, l’ex schiavo dei Severo non perdeva le speranze. Facendo frequentemente visita al vecchio Araxe, che aumentava di cupidigia e ambizione nella misura in cui gli aumentavano gli anni, aspettava ansiosamente il momento di realizzare il suo appassionato desiderio.

9.                Osservando che Flavia Lentulo riservava ad Agrippa un profondo affetto, finì col credere di vedere veramente nei suoi più piccoli gesti una prova d’amore intenso e corrisposto, cercando d’insinuarsi in tutti i modi per attrarre anche su di sé l’interesse e l’attenzione della donna. Una notte, dopo più di due mesi di ansiosa attesa per raggiungere i suoi ignobili scopi, riuscì ad avvicinarsi alla giovane signora quando, sola, riposava in un ampio divano sul grande terrazzo.

10.           Dall’alto si potevano contemplare i più bei panorami della città, allora rischiarata dalla luce delle prime stelle, nella languidezza soave del crepuscolo. Una brezza carezzevole del vespro tranquillo portava suoni di liuti e arpe, suonati nelle vicinanze, come se fossero voci armoniose nel seno immenso della notte.

11.           Saul fissò la donna tanto ardentemente desiderata, osservandone il delicato e bel viso di madonna, di un pallore niveo, derivante da un dolente e indomabile languore! ... Quella creatura rappresentava l’oggetto di tutte le sue aspirazioni violente e brutali; la meta della sua felicità impossibile e impetuosa. Nella rozzezza dei suoi sentimenti non poteva amarla come se fosse un fratello, bensì con la brutalità dei suoi impuri desideri.

12.           «Signora», disse risoluto dopo averla fissata nel viso a lungo «da molti anni aspetto un minuto come questo per potervi confessare l’enorme affetto che nutro per voi. Vi desidero più di ogni cosa, perfino più della mia vita! Lo so che per me siete su un piano inaccessibile, ma cosa posso farci se non riesco a dominare questa passione, questo intenso amore della mia anima?»

13.           Flavia sgranò gli occhi sereni e malinconici, presa da penosa sorpresa: «Signor Saul…», disse coraggiosamente, dominando la sua emozione «…calmate il vostro animo. Se avete per me un così grande affetto, lasciatemi sul cammino dei miei doveri dove conviene che si mantenga ogni donna cosciente della sua virtù e del suo nome! Tacete, quindi, le vostre emozioni in questo senso, perché l’amore che mi confessate non può essere altro che un desiderio violento e impuro!»

14.           «Impossibile, signora» aggiunse il liberto, disperato. «Ho tentato di tutto per dimenticarvi. ... Ho fatto tutto quello che era possibile per allontanarmi definitivamente da Roma fin da quel giorno infausto in cui vi vidi per la prima volta! ... Ritornai a Marsiglia, deciso di non tornare qui mai più. Invece, quanto più mi allontanavo dalla vostra presenza, tanto più mi si riempiva l’anima di noia e amarezza. Mi sono stabilito qui, nuovamente, dove ho vissuto della mia sventura e delle mie tristi speranze! ... Per più di dieci anni, signora, ho sperato pazientemente. Sempre ho portato rispetto alle vostre indiscutibili virtù, sperando che un giorno voi vi stancaste dello sposo infedele che il destino ha posto, senza pietà, sul vostro cammino! Adesso sento che avete vuotato il calice delle amarezze coniugali, …perché non avete esitato a cedere all’affetto di Agrippa. Da quando vi ho vista in compagnia di un uomo che non è vostro marito, tremo di gelosia, perché sento che siete stata fatta solo per me. ... Brucio d’amore, signora, e tutte le notti sogno intensamente le vostre carezze e la dolce tenerezza delle vostre parole che mi riempiono tutta l’anima, come se solo da voi dipendesse tutta la felicità della mia vita! Rispondete agli appelli del mio infinito amore! Non fatemi aspettare ancora, …perché ne potrei morire!»

15.           Flavia Lentulo che ora lo aveva ascoltato fra sorpresa e impaurita, volle alzarsi, ma gliene mancò la forza. Anche così, ebbe il coraggio necessario per rispondergli: «Vi ingannate! Tra me e Agrippa esiste solo un affetto santo e puro, quello di due fratelli che si identificano nelle prove e nelle lotte della vita. Non ammetto le vostre insinuazioni maligne sulla vita privata di mio marito, perché, mentre lui nella vita tiene la condotta che gli aggrada, io devo essere la sentinella della sua casa e l’onore del suo nome... Se vi è possibile comprendere il rispetto che è dovuto a una donna, ritiratevi, perché i vostri propositi di tradimento mi provocano la più profonda ripugnanza!»

16.           «Lasciarvi? …Mai!», esclamò Saul con voce terribile. «Aspettare tanti anni e non ottenere nulla? …Mai! …Mai!», e avanzando verso la giovane donna indifesa che si era alzata con uno sforzo supremo, l’abbracciò alla vita con gemiti appassionati, stringendola impetuosamente tra le sue braccia per un brevissimo istante.

17.           Saul, tuttavia, nella sua eccitazione e terribile impulsività, non ebbe animo di resistere alla forza sovrumana con cui la povera signora si difendeva in quel momento penoso per la sua anima sensibile, e allentò la presa. Improvvisamente la donna gli sfuggì dalle mani criminali, scendendo subito nei suoi appartamenti, dove si rifugiò, piangendo le lacrime della sua dignità offesa, ma evitando ogni commento scandaloso sull’incidente.

18.           Solo il giorno seguente, di notte, Plinio Severo tornò a casa, trovando la moglie triste e abbattuta. Rimproverato per l’assenza, nell’intimità coniugale, lo sposo infedele le rispose seccamente: «Ancora una scena di gelosia? Tu sai perfettamente che è inutile!»

19.           «Plinio, mio caro», disse lei fra le lacrime «non si tratta di gelosia, ma della giusta difesa della nostra casa!» E con poche parole, la sventurata creatura lo mise al corrente di tutti i fatti.

20.           Tuttavia, l’ufficiale abbozzò un sorriso d’incredulità, dicendo con una certa indifferenza: «Se questa lunga storia è l’artificio in più di una moglie gelosa per trattenermi nella banalità della vita familiare, ogni sforzo è vano, perché Saul è il mio miglior amico. Proprio ieri, quando mi trovavo in serie difficoltà finanziarie per pagare alcuni debiti, è stato lui a prestarmi ottocentomila sesterzi. Sarebbe meglio, pertanto, che tu stimassi maggiormente l’onore del nostro nome, abbandonando le tue relazioni con Agrippa, già troppo commentate, affinché io non nutra alcun dubbio».

21.           E così parlando, si tuffò nuovamente nei piaceri della vita notturna, mentre la consorte soffriva in silenzio il suo indicibile martirio morale, sentendosi abbandonata e incompresa, senza alcuna speranza.

*

22.           Passarono alcuni giorni lenti, amari e dolorosi. Flavia, data la sua naturale riservatezza femminile, non ebbe il coraggio di confidare a suo padre, già tanto oppresso dalle gravi disgrazie della propria vita, la sua enorme sventura.

23.           Agrippa, notando il suo abbattimento, cercò di confortarla con parole nobili e altruistiche, esaminando le prospettive di giorni migliori nel futuro.

24.           La povera signora, intanto, dimagriva a vista d’occhio, affetta da disturbi inspiegabili, che le dominavano i centri dell’energia, e sotto l’intima tortura dei suoi penosi segreti.

25.           Saul di Giora, come se avesse tutti i suoi istinti infiammati da quel minuto in cui aveva avuto tra le braccia impetuose la donna dei suoi passionali desideri, giurava intimamente di possederla a ogni costo, riempiendosi dei più terribili propositi di vendetta contro il figlio maggiore di Flaminio. Fu così che continuò a frequentare il palazzo sull’Aventino, preso dai più sinistri propositi.

26.           Rispettando le antiche tradizioni della famiglia Severo, che sempre si era prefissa di dare a quel liberto un perfetto trattamento di amico intimo, Publio Lentulo, nonostante la poca simpatia che quello gli ispirava, gli concedeva la massima libertà nella sua casa, senza sospettare minimamente nulla dei suoi condannabili propositi. Ora, Saul non cercava l’intimità della famiglia né cercava di incontrarsi in alcun modo con la sposa di Plinio o con il padre, standosene in compagnia dei servi di casa o trattenendosi negli appartamenti privati di Agrippa o del fratello, che mai gli avevano negato la più sincera fiducia.

27.           Rimanendo così nell’ombra, tuttavia, cercava di osservare i minimi gesti di Agrippa, il quale, preoccupato dallo stato di avvilimento di Flavia Lentulo, trascorreva ore e ore, molte volte in compagnia del vecchio senatore nei suoi appartamenti privati. Ora prendeva in esame le sue tristi speranze nel futuro, con la possibile comprensione del fratello, ora le faceva conoscere i versi più ammirati della città, commentando fraternamente le amabili frivolezze della vita sociale.

28.           Ogni giorno il delatore Saul si incontrava con il marito di Flavia per metterlo al corrente di fatti inammissibili e inverosimili sulla vita intima di sua moglie.

29.           Plinio Severo dava pieno credito a tutti i vaneggiamenti del falso amico, mentre sempre più ardente si faceva la sua passione per Aurelia, che gli prendeva il cuore, assillato e accecato dalle più turpi tentazioni della vita materiale.

30.           Avvelenato dagli intrighi criminali e continui di Saul, l’ufficiale si allontanò per realizzare un viaggio nelle Gallie, con l’amante, e soddisfarne così i capricci da molto tempo manifestati.

31.           Il giorno della partenza per Marsiglia, da dove pensava di dirigersi verso l’interno della provincia, Saul andò a cercarlo in casa di Aurelia nelle vicinanze del Foro e, con odio feroce, gli lanciò le più tremende calunnie, che terminarono con questo perfido suggerimento: «Se vuoi verificare da te stesso il tradimento di Agrippa e di tua moglie, torna oggi, di notte, segretamente, a casa tua e cerca di entrare all’improvviso nella tua camera. Non avrai bisogno, allora, della premura della mia devota amicizia, perché incontrerai tuo fratello in atteggiamenti inequivocabili».

32.           In quel momento, Plinio Severo stava ultimando i preparativi del viaggio e proprio la mattina aveva presentato i suoi saluti di commiato in casa, ai più intimi familiari; per giustificare la sua assenza aveva addotto espresse deliberazioni del suo supremo comando militare, sebbene molto diversi fossero i veri e inconfessabili motivi della partenza.

33.           Udendo, però, le gravi denunce del liberto giudeo, l’ufficiale si preparò ad affrontare qualsiasi eventualità, andando di notte al palazzo sull’Aventino, con l’anima tormentata da sentimenti sanguinari.

34.           L’ex schiavo che aveva progettato di porre in atto i suoi progetti criminali attraverso i suoi disegni maligni e terribili, si nascose di notte, con la complicità ignara di tutti i servi di casa, negli appartamenti particolari di Agrippa, agendo in modo tale che gli stessi schiavi non avrebbero potuto sospettare la sua presenza in tali appartamenti.

35.           Di notte, Plinio Severo rientrò a casa all’improvviso, con sorpresa di alcuni servitori che sapevano del suo viaggio, e, senza dire una parola, accecato dalle calunnie ingiuriose del falso amico, penetrò con cautela nello studio della moglie, udendo la voce tranquilla del fratello, senza tuttavia riuscire a capire quello che diceva.

36.           Scostando un po’ la tenda di seta delicata, vide Agrippa accarezzare, con gesti di affetto intimo e fraterno, le mani di Flavia, sorridendole lievemente e dolcemente. Per molto tempo li osservò, ansioso, nei loro più piccoli gesti, sorprendendoli nelle loro reciproche dimostrazioni di soave stima fraterna che ora, ai suoi occhi accecati dall’odio e dalla gelosia, si presentavano come i più chiari indizi di tradimento e di adulterio. Al colmo della disperazione, aprì le tende con un gesto brusco, entrando nella camera matrimoniale come se fosse una tigre infuriata. «Infami!» gridò con voce cupa ed energica, cercando di evitare lo scandaloso intervento dei servi. «Allora è così che manifestate il dovuto rispetto alla dignità del nostro nome!»

37.           Flavia Lentulo, con le sue sofferenze fisiche profondamente aggravate, si fece pallida, bianca come la neve, mentre Agrippa affrontava il terribile sguardo del fratello, singolarmente sorpreso : «Plinio, con quale diritto mi insulti in questo modo?» gli domandò risolutamente. «Usciamo di qui immediatamente. Discuteremo delle tue ingiuriose domande nella mia camera. Qui c’è una povera creatura inferma e abbandonata dal marito, il quale umilia il suo nome e la sua sensibilità con la viltà di un comportamento criminale e ingiustificabile, una signora che avrebbe avuto bisogno della nostra protezione e del nostro rispetto!»

38.           Gli occhi di Plinio Severo lampeggiavano di odio, mentre il fratello si alzò serenamente, ritirandosi nei suoi appartamenti, seguito dall’ufficiale che fremeva di rabbia, aggravata dall’umiliazione che gli infliggeva la calma superiore dell’avversario. Entrati, però, nella camera di Agrippa, l’impulsivo ufficiale, dopo numerose accuse e rimproveri, esplodeva in esclamazioni di questo tipo: «Andiamo... spiegati, traditore! Getti il fango della tua ignominia sul mio nome e ti nascondi vigliaccamente dietro questa incomprensibile serenità?»

39.           «Plinio», disse con calma Agrippa, obbligando l’interlocutore a tacere per alcuni istanti, «è tempo che tu ponga fine ai tuoi vaneggiamenti. Come potrai provare una simile calunnia contro di me, che sempre ho desiderato per te tutto il bene possibile? Qualsiasi commento men che degno sulla condotta di tua moglie è un delitto imperdonabile. Ti parlo in questa grave ora dei nostri destini, invocando la memoria irreprensibile dei nostri genitori e il nostro passato di sincerità e fiducia fraterna...»

40.           L’impetuoso ufficiale si era quasi immobilizzato come un leone ferito, ascoltando questi ragionamenti superiori e calmi, mentre Agrippa continuava ad esprimere le sue impressioni più intime e sincere.

41.           «E ora», proseguì con serenità «giacché reclami un diritto che non hai mai coltivato, a causa della sfilza interminabile delle tue follie nella vita sociale, devo dirti che io ho adorato tua moglie sopra ogni cosa, per tutta la vita! ... Quando tu consumavi la tua giovinezza accanto allo spirito turbolento di Aurelia, vedemmo Flavia, nella sua gioventù, per la prima volta, subito dopo il suo ritorno dalla Palestina, ed io scoprii nei suoi occhi la luce affettuosa e tenera che avrebbe dovuto illuminare la quiete della casa che avevo idealizzato nel passato! Ma tu scopristi nello stesso istante la stessa luce, e io non esitai a riconoscere i diritti che spettavano al tuo cuore, perché ella corrispose all’intensità del tuo affetto, sembrandomi unita a te dai legami indefinibili di un santo mistero... Flavia ti amava, come sempre ti ha amato, e solo io dovevo dimenticare, cercando di nascondere le mie ansietà torturanti e angosciose.

42.           In occasione del tuo matrimonio, non ebbi la forza di vederla partire tra le tue braccia, e dopo aver ascoltato la parola della mamma, saggia e amorosa, me ne andai verso altre terre col cuore infranto. Per dieci amari e tristi anni viaggiai fra Marsiglia e la nostra proprietà di Avenio, in avventure pazze e scellerate. Mai più ho accarezzato l’idea di mettere su famiglia, tormentato costantemente dai ricordi della mia sventura silenziosa e irrimediabile.

43.           Recentemente sono tornato a Roma, …con gli ultimi resti della mia perduta e dolorosa illusione. Ti ho trovato nell’abisso degli amori illeciti, e non ho criticato le tue ingiustificabili mancanze. So che hai speso tre quarti dei nostri beni comuni per soddisfare la pazza prodigalità delle tue avventure infelici e vergognose, e non ho condannato il tuo modo di agire insolito. E qui, in questa casa, sotto questo tetto che ha costituito per entrambi il prolungamento affettuoso del tetto paterno, non sono stato per la tua nobile sposa, altro che un fratello devoto e un amico!»

44.           Vedendosi chiaramente accusato per le sue colpe e sentendosi ferito nelle sue vanità di uomo, Plinio Severo reagì con più rabbia, esclamando fuori di sé per la disperazione: «Infame! È inutile che ti mostri con questa superiorità! Siamo uguali, con gli stessi sentimenti, e non credo al tuo affetto disinteressato in questa casa. Da molto tempo tu vivi con Flavia, pubblicamente, in avventure scellerate, ma risolveremo subito tutta la nostra questione con la spada, perché uno di noi deve sparire!»

45.           E estraendo l’arma di cui si era munito per qualsiasi evenienza, avanzò deciso verso il fratello che incrociò le braccia, tranquillamente, aspettando il colpo implacabile.

46.           «E allora, dov’è la tua dignità di uomo?» esclamò Plinio, esasperato. «Questa tranquillità esprime bene la tua viltà... Posizionati in difesa della tua vita, perché quando due fratelli si contendono la stessa donna, uno di essi deve morire!»

47.           Agrippa Severo, però, sorrise tristemente, rispondendo: «Non ritardare troppo l’esecuzione dei tuoi propositi, perché mi offrirai il bene supremo della sepoltura, giacché la mia vita, con le sue torture di ogni momento, non rappresenta più null’altro che un lungo e scabroso cammino verso la morte».

48.           Riconoscendo la sua nobiltà e il suo eroismo, ma credendo nell’infedeltà della moglie, Plinio ringuainò la spada, esclamando: «Va bene! Io potevo ucciderti, ma non lo faccio, in onore e alla memoria dei nostri indimenticabili genitori; tuttavia, continuando a credere alla tua infamia, uscirò di qui per sempre, portando nel mio intimo la certezza di avere, nel tuo spirito di traditore, il mio più grande e peggiore nemico».

49.           Senza dire altro, Plinio si ritirò a grandi passi, mentre il fratello, andando fino alla porta, gli lanciò un ultimo affettuoso appello, perché non se ne andasse via.

50.           Qualcuno, tuttavia, aveva seguito la scena, dettaglio per dettaglio. Questo qualcuno era Saul che, uscendo dal suo nascondiglio e spegnendo improvvisamente la luce della camera, con un salto fulmineo raggiunse Agrippa alle spalle vibrandogli un colpo violento. Il povero ragazzo stramazzò in un’enorme pozza di sangue, senza che gli fosse possibile articolare una sola parola. Dopo l’atto criminale, il liberto fuggì, ostentando la massima calma, senza che alcuno sospettasse il doloroso fatto.

51.           Nella sua camera, Flavia Lentulo si meravigliava del ritardo nella soluzione di un caso in cui si vedeva coinvolta, e tuttavia da lei giudicato, a prima vista, come un fatto senza importanza. Si alzò, dopo un considerevole sforzo, andando fino alla porta che metteva in comunicazione gli appartamenti di Agrippa col peristilio. Ma, sorpresa dall’oscurità e dal silenzio che vi regnavano, udì solo venire dall’interno un leggero rumore, simile ai suoni rochi di una respirazione affaticata e oppressa.

52.           Dominata da tristi presentimenti, la sventurata creatura sentì il cuore batterle all’impazzata. La mancanza di luce, quell’ansito di respirazione rantolante e, soprattutto, quel profondo e pauroso silenzio, la spinsero ad indietreggiare, cercando l’aiuto e l’esperienza di Anna, che aveva conquistato anche il suo cuore, per la dedizione e l’umiltà durante tutti i giorni di quel triste periodo della sua vita.

53.           Godendo del rispetto e della stima di tutti, la vecchia serva di Livia adesso era quasi la governante della casa, alla quale, per ordine dei padroni, tutte le schiave del palazzo sull’Aventino dovevano obbedienza. Chiamata da Flavia nei suoi appartamenti particolari, la vecchia serva dei Lentulo, dopo aver ascoltato l’affrettata confidenza della signora, condividendone i timori, l’accompagnò nella camera di Agrippa, sulla cui porta d’ingresso si fermò, preoccupata, sebbene ormai non si udisse più la respirazione soffocata, udita alcuni minuti prima dalla sposa di Plinio.

54.           «Signora», disse affettuosa «siete abbattuta e avete ancora bisogno di riposo. Tornate nella vostra camera; se ci fosse qualcosa in grado di giustificare i vostri timori, cercherò di risolvere il problema con vostro padre, al quale esporrò quello che è successo, là nel suo studio privato».

55.           «Grazie, Anna» rispose la signora, visibilmente commossa, «concordo con te, ma aspetterò qui nel peristilio il risultato dei tuoi provvedimenti».

56.           Pregando, l’antica serva entrò nella camera, fece un po’ di luce e si coprì gli occhi, quasi terrorizzata. Sul tappeto, il cadavere di Agrippa Severo, disteso bocconi, giaceva in una pozza di sangue, che ancora scorreva dalla profonda ferita inferta dall’arma omicida di Saul.

57.           Anna dovette fare appello a tutte le riserve di serenità della sua fede, per non gridare vergognosamente, mettendo in allarme la casa intera. Nonostante le tante sofferenze che aveva già provato durante tutto il corso della sua vita, non ebbe grande difficoltà ad aggiungere una nota angosciosa in più al complesso delle sue amarezze, sopportate sempre con rassegnazione e serenità.

58.           Tuttavia, senza poter nascondere l’angoscia e il profondo pallore, tornò di nuovo nel peristilio, esclamando alquanto inquieta verso Flavia Lentulo, che l’osservava nei minimi gesti ansiosamente:

59.           «Signora, non impressionatevi, ma il signor Agrippa è ferito...»

60.           E ai primi moti di curiosità angosciosa della figlia del senatore che si ricordò della profonda disperazione del marito alcuni momenti prima, Anna la calmò con queste parole: «Non abbiamo tempo da perdere! Cerchiamo il senatore per i primi rimedi; anche se credo che dovrò occuparmi da sola di questa vicenda, consigliandovi di rimanere tranquilla nella vostra camera».

61.           Così, in silenzio e preoccupate, si diressero rapidamente verso lo studio di Publio, assorto sulle carte di numerosi processi politici nel silenzio tranquillo della notte.

62.           «Agrippa ferito?» domandò il senatore profondamente sorpreso, dopo essere venuto a conoscenza del fatto dalle parole di Anna. «Ma chi sarà stato l’autore di un simile attentato in questa casa?»

63.           «Padre mio», rispose Flavia fra le lacrime, «poco fa Plinio e Agrippa hanno avuto un grave alterco all’interno dei miei appartamenti!»

64.           Publio Lentulo percepì in simili circostanze il pericolo dalle parole confidenziali della figlia, e poiché non poteva credere che i figli di Flaminio, sempre tanto uniti e generosi, fossero arrivati all’estremo delle armi, disse deciso: «Figlia mia, non credo che Plinio e Agrippa si siano spinti a tali estremi».

65.           E poiché si trovavano in presenza di Anna che, per quanto ora fosse considerata di sua personale fiducia, non poteva modificare la struttura delle sue rigide tradizioni familiari, aggiunse, come se volesse prevenire lo spirito della figlia contro qualsiasi rivelazione sconveniente che potesse coinvolgere il suo nome in scandali sociali irrimediabili: «Inoltre, tu non mi sembri molto sicura dei tuoi ricordi, perché Plinio si è congedato da noi questa mattina, prima di mettersi in viaggio per Marsiglia. Non possiamo dimenticare questa circostanza. – Non è stato visto alcuno sconosciuto in questa casa?»

66.           «Signore», rispose Anna con umiltà «pochi minuti fa ho visto il signor Saul ritirarsi in fretta dalla camera del ferito. Secondo quanto ho osservato, e tenuto conto della sua familiarità con i vostri amici, penso che sia la persona adatta per darci qualche spiegazione!»

67.           Gli occhi del vecchio senatore brillarono stranamente come se avesse trovato la chiave dell’enigma.

68.           In quell’istante, però, mentre egli sistemava rapidamente le sue carte per prestare i primi soccorsi al ferito, Flavia Lentulo, come se le osservazioni di Anna le suscitassero nuovi chiarimenti, proruppe in singhiozzi: «Padre, padre mio, solo ora mi rendo conto che avrei dovuto mettervi al corrente di cose molto gravi!»

69.           «Figlia», rispose egli, deciso, «tu sei sofferente e affaticata. Va’ nella tua camera. Penserò io a mettere tutto a posto! È molto tardi per qualsiasi riflessione. Le cose gravi sono sempre cattive e il male che non si estirpa alla radice con un chiarimento opportuno, è sempre seme di disgrazie custodite nel nostro cuore, pronte ad esplodere in lacrime di amarezza nelle ore più impreviste della vita! Parleremo dopo, più tardi. Ora è urgente provvedere a ciò che è più necessario e impellente».

70.           Ritiratosi rapidamente con la serva verso la camera del giovane, notò che Flavia ubbidiva senza discussioni alle sue esortazioni, rifugiandosi nella sua stanza.

71.           Entrando nella camera di Agrippa in compagnia della vecchia serva, Publio Lentulo fu in grado di valutare in tutta la sua gravità la tragedia che si era svolta lì, sotto il suo tetto onorato. Chiusa la porta, il senatore costatò che il figlio maggiore del suo indimenticabile Flaminio era morto. Restavano ora da sco­prire gli intimi particolari di quel dramma doloroso, la cui conclusione nel sangue era l’unica scena che lì si presentava. Inginocchiatosi vicino al cadavere, nel qual atto fu seguito dalla serva e amica leale, disse molto triste: «Anna, è molto tardi! Il mio povero Agrippa ormai non vive più né avrebbe avuto alcuna possibilità di soccorso con una ferita di questa natura!... Sembra che sia spirato da poco...», – e alzando al cielo gli occhi pieni di lacrime, esclamò con amarezza: «Oh! Mani del mio sventurato figlio, accogliete le nostre suppliche per il riposo eterno della sua anima!»

72.           Tuttavia, quella preghiera gli morì nell’anima. La voce gli si indebolì fino a bloccarsi. Quello spettacolo tragico lo aveva scosso profondamente. Voleva parlare e non ci riusciva, perché aveva la gola come ferita e ribelle sotto la violenza dei singhiozzi che gli nascevano dal cuore, e silenziosi gli morivano nella solitudine della superba roccaforte della sua anima.

73.           Anna lo guardava afflitta, perché i suoi occhi mai lo avevano osservato in atteggiamenti tanto intimi durante tutto il lungo tempo in cui era stata a servizio in quella casa. Publio Lentulo, ai suoi occhi, era sempre l’uomo freddo e impietoso, nel cui petto batteva un cuore di pietra, che non poteva vibrare se non per le pazze vanità mondane. In quel momento, tuttavia, fra impaurita e commossa, osservò che anche il senatore aveva lacrime per piangere. Dai suoi occhi sempre severi cadevano calde lacrime che scendevano silenziose e tristi sul capo inerte del giovane, considerato da lui come un figlio, come se nulla più gli restasse, se non il conforto supremo di abbracciarne teneramente le spoglie, attraverso il velo oscuro dei suoi dubbi pieni di angoscia.

74.           Anna, profondamente vinta dalla tristezza di quella scena intima, esclamò con umiltà, desiderosa di portare conforto a quell’immenso dolore di un male senza rimedio: «Signore, dobbiamo avere coraggio e serenità. Nelle mie orazioni segrete, chiedo sempre al profeta di Nazareth che da lassù vi protegga, dando conforto al vostro cuore tormentato e afflitto».

75.           Il pensiero del senatore vagava in un dedalo di dubbi tenebrosi. Analizzando le osservazioni della figlia e le parole di Anna, cercando di scoprire tra sé e sé, intuitivamente, su chi dovesse ricadere la colpa del delitto. A quale dei due, a Plinio o a Saul, avrebbe dovuto imputare la responsabilità del nefando misfatto? Lui, che aveva deciso tanti difficili processi nella sua vita; lui, che era senatore e non perdeva neppure l’occasione di partecipare agli sforzi delle autorità edili[17] romane, sentiva ora il dolore supremo di esercitare la giustizia nella sua stessa casa, con la prospettiva della distruzione di tutta la sorte dei suoi amatissimi figli.

76.           Ascoltando tuttavia le espressioni di conforto della serva, ricordò la figura straordinaria di Gesù Nazareno, la cui dottrina di pietà e misericordia dava a tanti la forza per affrontare le situazioni più difficili della vita o per morire eroicamente come la sua stessa moglie. Rivolgendosi allora ad Anna, con familiarità imprevista, in un gesto commovente di generosa semplicità, quale la serva mai aveva visto in nessuna circostanza della sua vita domestica, disse:

77.           «Anna, non ho mai esitato ad essere un uomo energico, in tutta la mia vita, ma arriva sempre un momento in cui il nostro cuore si sente rattristato davanti alla crudeltà delle lotte cui il mondo ci espone con le sue amare e dolorose disillusioni. Se tu sei solamente una serva, io so oggi apprezzare il tuo animo, per quanto in ritardo!» – Una lacrima improvvisa incrinò la sua voce, ma il vecchio patrizio continuò: «In tutta la mia vita, ho giudicato un’immensità di processi di varia natura, relativi alla giustizia del mondo, ma da un po’ di tempo a questa parte mi sembra di essere io stesso giudicato dalla forza incoercibile di una giustizia suprema, i cui tribunali non sono sulla Terra...

78.           È dalla morte di Livia che sento il cuore cambiato, in cammino verso una sensibilità per me finora sconosciuta. L’avvicinarsi della vecchiaia sembra un preannuncio della morte di tutti i nostri sogni e di tutte le nostre speranze...

79.           Davanti a questo cadavere, che certamente va ad aumentare l’ombra dei nostri segreti di famiglia, sento quanto doloroso sia il compito di giustificare coloro che ci sono cari; e giacché tu fai riferimento al Maestro di Nazareth, la cui dottrina di pace e di fraternità ha insegnato a tanti a morire con rassegnazione ed eroismo supremi per la vittoria della croce dei suoi martiri terreni, come procederebbe Egli in un caso come questo, in cui i più atroci dubbi incombono sul mio cuore, riguardo alla colpa di un figlio tanto amato?»

80.           «Signore», rispose Anna con umiltà, profondamente commossa davanti a quella prova di considerazione e affetto, «molte volte Gesù ci ha insegnato che mai dobbiamo giudicare, per non essere poi anche noi giudicati».

81.           Il senatore rimase sorpreso nel ricevere da una creatura tanto semplice e tanto incolta ai suoi occhi, questa meravigliosa sintesi di filosofia umana, che gli risvegliava nello spirito il suo doloroso passato. «Ma…» aggiunse, come se volesse giustificarsi dei grandi errori del suo passato di uomo pubblico, «…quelli che non giudicano, perdonano e dimenticano; e se le leggi della vita dicono che dobbiamo essere riconoscenti del bene che ci viene fatto, così non possiamo perdonare il male che ci viene scagliato lungo il cammino!»

82.           Anna comunque non perse l’opportunità di consolidare l’insegnamento evangelico, aggiungendo con dolcezza: «Anche nella mia terra, l’antica legge comandava che si rendesse occhio per occhio e dente per dente; ma Gesù di Nazareth, senza distruggere l’essenza degli insegnamenti del Tempio, spiegò che coloro che nel mondo errano di più, sono i più infelici e i più bisognosi della nostra protezione spirituale, raccomandando, nella Sua dottrina di amore e di carità, che non perdonassimo una volta sola, ma settanta volte sette».

83.           Publio Lentulo fu stupito di apprendere dalla sua serva quei generosi concetti, all’interno dei principi del perdono illimitato. – Perdonare? Mai l’aveva fatto nelle sue lotte disputate nel mondo. La sua educazione non ammetteva pietà o commiserazione per i nemici, perché ogni perdono e ogni umiltà significavano, per gli uomini della sua classe, tradimento o codardia. Ora, però, si ricordava come in numerosi processi politici avrebbe potuto perdonare, e come, in molte circostanze della sua vita, avrebbe potuto chiudere gli occhi della sua severità, con un amoroso oblio.

84.           Senza conoscerne la ragione, come se un’energia sconosciuta riportasse il suo pensiero ai tempi passati, i suoi ricordi riandarono al lontano periodo del suo viaggio in Giudea, rivedendo con gli occhi dell’immaginazione la scena in cui, con la sua rigorosità, senza pietà aveva fatto schiavo un misero ragazzo. Sì, anche quel giovane si chiamava Saul, e ora egli aveva la mente tormentata da dubbi atroci, fra quel Saul, liberto dei suoi amici, e la figura di Plinio, sempre custodita nel suo animo da un’aureola di amore e generosità.

85.           Perdonare?

86.           E il pensiero del senatore sprofondò, in quei lunghi momenti pieni di angoscia, in riflessioni amare e penosissime. Era, forse, una delle poche volte nella vita in cui la sua mente dubitava, timoroso di far cadere la severità del suo giudizio sulla testa di un figlio molto caro.

87.           Ma, uscendo da questa apatia durata alcuni minuti, esclamò risoluto: «Anna, il Profeta Nazareno doveva essere, di fatto, una figura divina qui sulla Terra! ... Io, però, sono umano, e non ho forze nuove per vivere un’esistenza fuori della mia epoca... Voglio perdonare, …e non posso. Vorrei esprimere un giudizio su questo caso, …e non so come fare. Ma devo saper decidere sulla soluzione di questo terribile problema! Farò il possibile per osservare i precetti del tuo Maestro, osservando la condotta del silenzio, finché non verrò a conoscere il vero colpevole. E allora cercherò di giudicare non come gli uomini, ma cercherò di chiedere a questa giustizia divina che si manifesti, proteggendo i miei pensieri e illuminando i miei atti...»

88.           E, come se riprendesse la sua usuale energia verso le lotte della vita, il vecchio patrizio sentenziò: «Ora trattiamo della vita nelle sue dolorose realtà».

89.           Pose il cadavere di Agrippa sul letto e, raccomandando alla serva di preparare l’animo della figlia, confortandone il cuore in un momento tanto penoso, aprì le porte dell’appartamento, richiese la presenza di tutti i servi della casa, portando il fatto a conoscenza delle autorità e procedendo allo stesso tempo a un’inchiesta rigorosa, per chiarire l’origine del delitto, per quanto un episodio di quella natura fosse considerato comunissimo nei tormentati giorni della Roma di Nerone.

90.           Alcuni servitori affermarono di aver visto Plinio Severo col fratello durante la notte, ma la parola del senatore annullava le loro informazioni, con l’affermazione che il fratello della vittima era partito durante il giorno, alla volta del porto di Marsiglia.

91.           Saul era così la persona evidentemente indicata per dare spiegazioni, e prima ancora che si officiassero le cerimonie funebri, il senatore, interrogandolo personalmente, supponeva di avere buone ragioni per credere nella sua colpevolezza, basandosi sulle sue giustificazioni e allusioni inopportune che non soddisfacevano le esigenze della sua indagine psicologica. Le sue affermazioni e i suoi riferimenti non coincidevano con le asserzioni sicure di Anna, la cui onestà della parola egli ben conosceva. In alcuni passaggi del suo interrogatorio negò di esser stato negli appartamenti di Agrippa, e questo fu sufficiente perché il senatore appurasse che mentiva.

92.           Quanto a Plinio, non era stato di fatto incontrato, risultando solo il laconico annuncio della sua partenza per Marsiglia, la qual cosa era realmente avvenuta quella stessa sera della tragedia, dopo la discussione decisiva col fratello, nel palazzo sull’Aventino. E così, in compagnia di Aurelia, era partito verso la Gallia su una sontuosa galea, solcando le acque calme dell’antico mare romano.

93.           Tuttavia il senatore desiderò solo ascoltare meglio le confidenze della figlia, per strappare una confessione completa al miserabile liberto di Flaminio, della cui colpevolezza non aveva più alcun dubbio. Cercò di realizzare con la più grande discrezione i funerali del figlio del suo indimenticabile amico, ai quali Saul di Giora ebbe la sfrontatezza di assistere con tutta la velenosa serenità del suo spirito miserabile.

94.           Sotto l’effetto deleterio dei veleni letali che le erano stati somministrati da Ateia, la serva traditrice pagata da Aurelia la quale, nella sua incoscienza, aveva avvelenato tutti i cosmetici abitualmente usati dalla sua padrona e destinati al trattamento della pelle e delle ciglia, Flavia Lentulo aveva ora tutte le sofferenze fisiche aggravate una per una, oltre alla terribile situazione morale, di fronte al doloroso fatto e al suo scoraggiamento a causa di dubbi insolubili. Quel male dell’infanzia sembrava riapparire, poiché, nuovamente, il suo corpo si apriva in piaghe dolorose, mentre gli occhi sembravano seriamente colpiti da una malattia implacabile.

95.           Tre giorni dopo le esequie di Agrippa, Publio Lentulo, profondamente addolorato, ascoltò la testimonianza intima e angosciata della figlia, con la più viva e affettuosa delle attenzioni. Terminato il racconto minuzioso della figlia, le cui disavventure coniugali lo colpivano nel più profondo del cuore, il vecchio senatore volle fare un nuovo interrogatorio a Saul, in presenza della figlia, ma, inviato un messaggero alla ricerca del liberto di Flaminio, rimase sbalordito da una nuova sorpresa.

*

96.           Saul di Giora, dopo aver risposto agli interrogatori personalmente condotti da Publio Lentulo, quando ancora non erano state effettuate le cerimonie funebri di Agrippa Severo, capì chiaramente l’atteggiamento mentale del senatore nei suoi confronti, concludendo che non sarebbe stato possibile ingannare la sensibilità psicologica del vecchio senatore. Due giorni dopo le cerimonie funebri, il liberto cercò Araxe nella sua miserabile bottega dell’Esquilino, con animo esasperato e inquieto.

97.           Credendo fortemente negli interventi prodigiosi del mago, grazie alle sue facoltà divinatorie, aumentate inoltre dalle forze tenebrose del piano invisibile legate alle sue sinistre ambizioni di denaro, Saul osservò che il mago lo riceveva con la misteriosa flemma di sempre. Poggiò ben in vista la borsa voluminosa e rigonfia, come a dimostrargli le ricche possibilità finanziarie per l’acquisto del talismano della sua buona sorte.

98.           Il vecchio mago, curvato dagli anni, riconoscendogli le generose disponibilità, si scioglieva in sorrisi di ambiziosa ed enigmatica benevolenza, da sembrare che gli penetrasse lo sguardo impaurito e inquieto.

99.           «Araxe» esclamò Saul con voce quasi supplichevole «sono stanco di aspettare l’amore dalla donna che amo. Sono afflitto e preoccupato... Ho bisogno di calmare le mie penose afflizioni. Ascoltami! Voglio dalle tue mani il talismano della felicità per il mio sventurato amore!»

100.      Il vecchio indovino serrò per alcuni minuti la testa fra le mani, in un gesto che gli era proprio, e poi rispose con voce alquanto bassa: «Signore, le voci dell’invisibile mi dicono che le vostre afflizioni non sono causate da un amore incompreso e disperato».

101.      Ma il liberto di Flaminio, che era in preda alla più profonda disperazione di coscienza per aver ucciso un amico e benefattore nel pieno rigoglio della giovinezza, lo interruppe, esclamando vivamente: «Come osi contraddirmi, mago infame?»

102.      Araxe, tuttavia, con uno strano brillio negli occhi agitati, rispose prontamente: «Mi credete, quindi, un mago infame? Non per questo, tuttavia, mi tratterrò dal dire la verità quando la verità mi convenga».

103.      «Ma io ripeto quello che ho detto! A quali verità misteriose alludi nelle tue vaghe asserzioni?» chiese il liberto profondamente esasperato.

104.      «La verità, amico mio…» disse il mago con una calma quasi sinistra «…è che se voi siete tanto turbato, è solo perché siete un delinquente. Avete freddamente assassinato un benefattore e un amico, e la coscienza dello scellerato teme l’azione implacabile della giustizia!»

105.      «Taci, miserabile! Come lo hai saputo?» esclamò Saul, eccitatissimo, mentre estraeva il pugnale nascosto tra le pieghe del mantello. – E avanzando verso il vecchio indifeso, aggiunse con voce minacciosa: «Giacché le tue scienze occulte ti offrono conoscenze nocive alla tranquillità altrui, anche tu devi scomparire!»

106.      Araxe comprese che il momento era decisivo. Quell’uomo esaltato era capace di assassinarlo in un solo colpo. Considerata in un attimo la situazione e mettendo in moto tutta la sua arguzia per salvare la pelle, abbozzò un sorriso finto e condiscendente, esclamando: «Dunque, se io ho detto la verità, è stato solo perché voi possiate apprezzare i miei poteri spirituali, poiché, se lo desiderate, io potrò integrarvi immediatamente nel potere dell’opportuno talismano. Con questo sarete profondamente amato dalla donna dei vostri sogni... Con questo modificherete i più intimi sentimenti di questa creatura che voi adorate e che farà, quindi, la felicità di tutta la vostra vita. Quanto al resto, non siete il primo a togliere la vita a un vostro simile, perché ogni giorno mi appaiono clienti, nelle vostre condizioni, che bussano a questa porta. Oltre a ciò, fra noi deve esistere una grande fiducia reciproca, perché voi siete mio cliente da più di dieci anni».

107.      Ascoltando quelle parole benevole e serene, il liberto di Flaminio ripose l’arma, considerando le nuove prospettive di felicità e concordando in tutto col mago che, facendolo sedere, ne catturò l’attenzione per più di un’ora, con la descrizione di fatti identici a quelli che gli stavano accadendo, dimostrando teoricamente l’efficienza dei suoi miracolosi amuleti.

108.      La conversazione proseguì in bella forma, fin quando Saul gli chiese la consegna immediata del talismano, poiché voleva sperimentarne l’effetto quello stesso giorno.

109.      Al che, Araxe rispose rapido: «Il vostro talismano è pronto. Posso consegnarvi questa preziosità proprio adesso, dipendendo solamente da voi, poiché dovrete bere il filtro magico che vi metterà nella condizione spirituale necessaria per ottenerne l’effetto desiderato».

110.      Saul non fece questioni e si sottopose alle imposizioni del vecchio egizio, alle sue manovre strane e misteriose, entrando in una camera ornata con vari simboli stravaganti che gli erano completamente sconosciuti.

111.      Araxe portò così a compimento le messinscene più suggestive. Gli fece indossare sulla toga comune una larga tunica uguale alla sua e, dopo finti gesti di incomprensibile magia, entrò nel piccolo laboratorio dove prese un potente veleno, monologando intimamente tra sé e sé: “Stai per ricevere il talismano che più ti conviene a questo mondo”.

112.      Versò alcune gocce del pericoloso filtro in una coppa di vino e, con larghi gesti spettacolari, come se stesse obbedendo a un rituale misterioso, gli diede da bere il contenuto, continuando con i gesti bizzarri, che erano proprio le espressioni pittoresche e sinistre di una stravagante magia di morte.

113.      Bevendo il vino con la migliore delle intenzioni, e cioè quella di possedere l’amuleto della felicità, il pericoloso liberto sentì che le membra si rilassavano sotto il potere di una forza sconosciuta e annientatrice, poiché gli mancava la voce stessa per esternare le emozioni più intime. Voleva gridare, ma non gli riuscì, e inutili furono tutti i suoi sforzi per alzarsi. A poco a poco la vista gli si oscurò funestamente, come se gli occhi fossero stati offuscati da una nebbia spessa e indefinibile. Desiderò manifestare il suo odio al mago assassino, difendersi da quell’angoscia che lo soffocava alla gola, ma la lingua rimaneva inerte, e un freddo penetrante prese ad invadergli i centri vitali. Abbandonando la testa sui gomiti appoggiati lungo l’ampio tavolo, comprese che la morte violenta gli stava distruggendo tutte le forze vive dell’organismo.

114.      Araxe chiuse tranquillamente la stanza, come se nulla fosse successo, e tornò nella bottega, attendendo con cura alla numerosa clientela, senza perdere la sua abituale tranquillità. Prima della notte, però, entrò nella camera mortuaria e vuotò la borsa del cadavere, mettendo silenziosamente le monete insieme alle sue abbondanti riserve di avaro.

115.      Dopo le ventitré, quando la città dormiva, il vecchio mago dell’Esquilino si mescolò con gli schiavi che facevano il servizio notturno dei trasporti, tirando un carretto a mano, dentro al quale c’era un grande fagotto.

116.      Dopo un lungo tragitto, arrivò nelle vicinanze del Foro fra il Campidoglio e il Palatino, dove si riposò, aspettando l’ultimo quarto dell’aurora, allorché gettò il carico in un angolo buio della pubblica via, tornando tranquillamente al suo sonno di ogni notte.

117.      Al mattino il cadavere di Saul fu facilmente identificato, e quando il senatore, che nel frattempo cercava il liberto per le dichiarazioni, ricevette la sorpresa di quella notizia, si domandò le ragioni di quella morte strana e imprevista, stupito per il concatenamento del meccanismo della giustizia divina. Intimamente chiese alla propria coscienza se Saul non fosse uno di quei criminali immediatamente giustiziati dalla legge delle compensazioni, nel cammino infinito dei destini.

118.      Il suo cuore, più che mai incline all’esame delle profonde questioni filosofiche, si perse nell’abisso delle ipotesi, ricordando la raccomandazione dello spirito di Flaminio e le elevate lezioni di Anna, basate sul Vangelo: cercava, con il massimo della buona volontà, di risolvere il problema del perdono e della pietà. Desideroso di soddisfare la propria coscienza nelle attività della vita pratica, cercò di contrastare le sue tradizioni e i suoi costumi di fronte all’avvenimento e, dirigendosi verso la residenza del carnefice dei suoi figli, prese tutti i provvedimenti perché, durante la cerimonia funebre, dignità e rispetto non gli venissero meno. Alcuni schiavi e alcuni servi di fiducia erano stati incaricati di risolvere tutti i problemi relativi agli affari lasciati dal morto, ma, collaborando alle esequie, Publio Lentulo si sentiva soddisfatto per aver vinto l’avversione personale, rendendo omaggio, allo stesso tempo, alla memoria di Flaminio.

119.      Trovandosi con la nuova compagna in Avenio, Plinio Severo, per mezzo di amici, seppe della tragedia che si era consumata a Roma, nella notte, durante la sua assenza; come fu ugualmente informato dei penosi dubbi che erano sorti a suo riguardo.

120.      Profondamente colpito nel suo stato emotivo, ricordandosi del fratello che tante volte gli aveva dato le più grandi testimonianze d’affetto, desiderò ritornare per mettere opportunamente in chiaro tutto e vendicarne la morte; tuttavia, infiacchito tra le braccia di Aurelia e temendo il giudizio del vecchio senatore, da lui rispettato come un padre, oltre al sospetto che gli causava la notizia dell’inspiegabile malattia della sposa, si lasciò irretire dalla sua vita incomprensibile, attraverso Avenio, Marsiglia, Arelate, Antipoli e Nizza, cercando di dimenticare, nell’ebbrezza dei piaceri, le grandi responsabilità che gli appartenevano.

121.      Vicino ad Aurelia la vita dell’ufficiale trascorse in una tranquillità condannabile per tre lunghi anni, fin quando un giorno ebbe la dolorosa sorpresa di sorprendere la compagna perfida e insensibile tra le braccia del musico e cantore Sergio Acerronio, arrivato a Marsiglia con chiassosa allegria dalla capitale dell’Impero.

122.      In quel triste giorno della sua esistenza, il figlio di Flaminio si scagliò sulla donna che lo aveva tradito, con l’arma in pugno, disposto a toglierle quella vita delittuosa e dissoluta. Nell’istante, però, in cui stava per vendicarsi, pensò che l’assassinio di una donna, anche se diabolicamente perversa, non sarebbe dovuto entrare nel percorso della sua vita, giudicando anche che lasciarla vivere nel cammino scabroso delle sue crudeltà sarebbe stata la miglior vendetta del suo cuore tradito e sventurato.

123.      Abbandonò quindi per sempre quella misera creatura, che fu eliminata più tardi ad Anzio dal pugnale implacabile di Sergio, il quale non tollerava la sua infedeltà e la sua pervicacia nel crimine.

*

124.      Sentendosi solo, Plinio Severo considerò amaramente gli errori clamorosi della sua vita. Rivide il suo passato, fatto di sciocchezze condannabili e di vere pazzie. Quasi povero, si considerò molto spregevole per tornare in quell’ambiente romano dove tante volte aveva brillato nella sua giovinezza in avventure piene di prodigalità e felicità.

125.      Invano il senatore gli aveva inviato appelli affettuosi. Risvegliato a dignità dalle dolorose lezioni del proprio destino, l’ufficiale, aiutato da alcuni amici di Roma, preferì impegnarsi per la riabilitazione nelle città delle Gallie, dove sarebbe rimasto lunghi anni in un lavoro silenzioso e duro, per restituire l’onore al suo nome davanti ai parenti e agli amici più intimi. Ormai entrato nell’età matura, propria delle profonde riflessioni, grande fu per lui lo sforzo di tale riabilitazione, lontano dalle persone a lui più care.

*

126.      Quanto al vecchio senatore, dentro la sua rigida struttura spirituale, resistette con fermezza ai colpi durissimi del destino, facendo della lotta di ogni giorno il miglior cammino di chiarezza; così vide i suoi anni passare, senza scoraggiarsi né impigrirsi.

127.      Fin dai tragici avvenimenti in cui Agrippa e Saul avevano perso la vita misteriosamente, Flavia Lentulo con l’abbandono definitivo del marito, aveva compromesso la salute irrimediabilmente. Sulla pelle, i veleni di Ateia erano stati annullati e vinti dalle sostanze medicamentose applicate, ma la luce dei suoi occhi fu annientata del tutto e per sempre. Triste e cieca, trovò comunque nel cuore generoso di Anna, l’affetto materno che le mancava in così penose circostanze della vita.

128.      La costituzione fisica del senatore, tuttavia, resisteva a tutti gli scontri e a tutti gli infortuni.

129.      Tra le fatiche di affettuosa assistenza alla figlia e i problemi politici che gli portavano via il massimo della concentrazione, i suoi giorni scorrevano pieni di dure lotte, ma silenziosi e tristi come sempre. Nel suo spirito c’erano ora le migliori e più sincere disposizioni, per imparare l’essenza sacra degli insegnamenti del Cristianesimo, e fu così che il suo cuore si affacciò al crepuscolo della vecchiaia, come se le ombre fossero illuminate da stelle carezzevoli e soavi. Nel profondo del suo animo c’era una serenità imperturbabile, ma nella vita dell’uomo soffiava il vento inquieto dello sforzo per le realizzazioni del suo tempo. Il cuore era rassegnato alle disillusioni penose e amare del destino, ma al potere supremo dell’Impero stava un tiranno che doveva cadere a favore delle costruzioni del diritto e della famiglia; e per questo, insieme a molti compagni, si dedicò al lavoro sottile della politica interna, per la caduta di Nerone, che continuava ad opprimere la città con gli spettacoli odiosi del suo nefando governo.

130.      Gaio Pisone e Seneca, come altre venerabili figure dell’epoca, le più accese nel patriottismo e nell’amore per la giustizia, caddero sotto le mani criminali dello scellerato che cingeva la corona; tuttavia, Publio Lentulo, a fianco di altri fratelli dello stesso ideale, che lavoravano nel silenzio e nell’ombra della diplomazia segreta, insieme ai militari e al popolo, sperò nella morte o nella cacciata del tiranno, guardando alle luci del futuro, che sarebbero nate con l’effimero regno di Sergio Sulpicio Galba[18] il quale anche secondo Tacito, sarebbe stato da tutti considerato degno del governo supremo dell’Impero, quando sarebbe stato imperatore.

 

 

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Cap. XVIII

NELLA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME

 

1.                Erano trascorsi più di dieci anni, silenziosamente tristi, dopo il 58, sulla vita comune dei personaggi di questa storia.

2.                Solamente nel 68 la politica conciliatoria di un gran numero di patrizi, fra i quali Publio Lentulo, determinò il definitivo allontanamento di Nerone e delle sue nefande crudeltà. Intanto l’ascesa di Galba durò pochi mesi, e quell’anno 69 avrebbe registrato grandi avvenimenti nella vita dell’Impero.

3.                Molte lotte riempirono la città di terrore e sangue. La terribile contesa fra Otone e Vitellio[19] aveva diviso tutte le classi della famiglia romana in fazioni tra loro ostili, che si odiavano all’estremo.

4.                Alla fine, la famosa battaglia di Betriaco assegnò il trono a Vitellio che instaurò un nuovo regime di crudeltà in tutti i settori della vita politica.

5.                La diplomazia interna, in ogni caso, vigilava nell’ombra, esaminando attentamente la situazione, in modo da non permettere il protrarsi di un nuovo impeto di stermini e d’infamia.

6.                Vitellio mantenne il governo solo per otto mesi e pochi giorni, perché nello stesso anno 69 le legioni del territorio africano, manipolate dagli scaltri intrighi di coloro che avevano rovesciato Nerone e i suoi complici, acclamarono Vespasiano per la suprema investitura dell’Impero. Il nuovo imperatore, che ancora si trovava sul campo delle sue gesta militari, impegnato nella pacificazione della lontana Giudea, soddisfaceva le esigenze più avanzate di ogni classe civile e militare e fu accolto in trionfo sul seggio supremo, dando così inizio all’era prestigiosa dei Flavi[20].

7.                Vespasiano faceva parte di quel gruppo di solerti patrizi che avevano contribuito, senza ostentazioni, alla caduta dei tiranni. Amico personale di Publio Lentulo, l’imperatore era diventato famoso non solo per le sue vittorie militari, ma anche per il suo assennato tirocinio politico, come aveva dimostrato a Roma fin dai giorni turbolenti di Caligola.

8.                Sotto la sua guida amministrativa si aprì una tregua nelle immoralità governative, si inaugurò un nuovo periodo di comprensione delle necessità popolari e, nel ventaglio dei suoi piani economico-finanziari, l’Impero si avviò verso giorni rigeneratori di una nuova era.

9.                Publio accolse tutti gli avvenimenti con la velata gioia compatibile con i suoi sessantasette anni di lotte e forti esperienze della vita. Nella luce serena della vecchiaia, tuttavia, la sua fibra morale e la sua resistenza fisica erano le stesse di sempre.

10.           In previsione di giorni migliori per le realizzazioni patriottiche, ora considerò come ben impiegato tutto il tempo che aveva rubato alla figlia cieca, per attendere al lavoro del bene collettivo; e fu in questo stato d’animo, con la coscienza soddisfatta per il dovere compiuto secondo i suoi principi, che si diresse al palazzo per obbedire alla chiamata speciale dell’imperatore, il quale molte volte non esitò a ricorrere al consiglio dei suoi più antichi compagni di ideale.

11.           «Senatore, ti ho mandato a chiamare perché tu mi sia d’aiuto con la tua tradizionale dedizione all’Impero, nella soluzione di un problema che giudico di somma importanza»[21], gli disse Vespasiano nella tranquilla intimità di uno dei magnifici studi della residenza imperiale.

12.           «Dite, Augusto!...» rispose Publio, commosso.

13.           Ma l’imperatore lo interruppe gentilmente: «No, mio caro, parliamoci con la vecchia intimità dei tempi passati. Per un momento lasciamo in disparte il protocollo». – E vedendo che il senatore mostrava un sorriso di gratitudine alle sue parole fluenti e generose, continuò ad esporre la questione che lo interessava: «Chiamato a Roma per la carica suprema, non osai disobbedire alle sacre imposizioni che mi obbligavano ad accettare questo grande dovere. Tuttavia sono stato costretto a lasciare a mio figlio l’opera di pacificazione della Giudea in rivolta, opera, questa, che io ho sempre considerato, in tutta la mia vita come l’impegno principale per garantire la vitalità dell’Impero nello svolgimento delle sue gloriose tradizioni.

14.           Accade, però, che l’assedio di Gerusalemme vada prolungandosi oltre i limiti, provocando serie conseguenze ai miei progetti economici, nel quadro di restaurazione che mi sono prefissato di realizzare nel governo. Penso che il mio valoroso Tito abbia bisogno di un consiglio dai civili, oltre che dagli assistenti militari che lo accompagnano nella difficile impresa, ed ho pensato di organizzarlo solo con gli amici più fidati che conoscono Gerusalemme e i suoi dintorni.

15.           Quando feci i miei primi viaggi nella regione, seppi del tuo lavoro per la riforma amministrativa della Giudea, venendo a conoscenza, quindi, della tua lunga permanenza in Gerusalemme, più di venti anni fa. Sarebbe mio desiderio che tu accettassi, con pochi altri nostri compagni, l’incarico di orientare meglio la tattica militare di mio figlio. Tito avrebbe bisogno della cooperazione politica di persone che conoscono la città nei suoi minimi dettagli e i suoi idiomi popolari, in modo da poter vincere la situazione che va facendosi ogni volta più complicata».

16.           Publio Lentulo pensò per un istante alla figlia malata, ma ricordandosi della dedizione assoluta di Anna che avrebbe potuto perfettamente sostituirlo nelle sue attenzioni per qualche tempo, rispose con decisione ed energia: «Mio nobile imperatore, la vostra augusta parola è la parola dell’Impero. L’Impero comanda ed io obbedisco, sentendomi onorato di eseguire i vostri ordini e di corrispondere agli impulsi generosi della vostra fiducia».

17.           «Molto grato!» disse Vespasiano tendendogli la mano estremamente soddisfatto. «Tutto sarà pronto in modo che la tua partenza e quella di due o tre nostri amici avvenga, al più tardi, entro due settimane».

18.           E così avvenne.

19.           Dopo il doloroso commiato dalla figlia, che rimaneva sotto la responsabilità della devota serva nel palazzo sull’Aventino, il senatore si imbarcò su una sontuosa galea che, salpando da Ostia, navigò veloce per il mare aperto in direzione della Giudea.

20.           Il vecchio patrizio rivisse con penosa serenità le peripezie del viaggio in compagnia della moglie e dei due figli ai tempi della sua avventurosa gioventù, quando la felicità era per lui incomprensibile. La piccola figura di Marco, il figlio scomparso, sembrava sorgere nuovamente ai suoi occhi, circondato da un’aureola di radioso e santificato incanto.

21.           Un giorno, a Cafarnao, spinto dalle parole calunniose di Sulpicio Tarquinio, dubitò della moralità della moglie, credendo più tardi che il rapimento del bambino fosse una conseguenza della sua infedeltà. Ma adesso Livia era stata riconosciuta innocente di tutte quelle colpe, nel tribunale della sua coscienza. I suoi sacrifici in seno alla famiglia e la morte eroica nel circo costituivano la prova massima della sublime purezza del suo cuore. In quei momenti di meditazione, gli sembrò di tornare al passato con le sue interminabili sofferenze, scontrandosi continuamente contro l’ombra pesante del mistero, quando tentava di rileggere le pagine di quel doloroso capitolo della sua esistenza.

22.           In quali imperscrutabili e sconosciuti abissi era mai stato portato il piccolo che avrebbe dovuto perpetuare la sua nobile stirpe?

23.           Le sue emozioni paterne sembravano essersi agitate di nuovo dopo tanti anni e tante sofferenze familiari, ma, nonostante fluttuassero nel suo intimo i più penosi dubbi, il senatore, nella severità della sua formazione morale, preferiva credere tra sé e sé che Marco Lentulo fosse stato assassinato da volgari malfattori, dediti al furto e al terrorismo, e non dovesse così mai più aver bisogno delle cure di suo padre. Questo avrebbe voluto credere, ma quel viaggio gli sembrava proprio l’occasione per un’analisi più specifica dei suoi ricordi più cari e più tristi.

24.           Nel pomeriggio, al dolce chiarore del crepuscolo sul Mediterraneo, gli sembrò di vedere ancora il volto di Livia mentre cullava il bambino o gli parlava affettuosamente per consolarlo, sembrandogli anche di scorgere la figura di Comenio, il servo di fiducia, tra tutti i servitori e gli schiavi.

*

25.           In compagnia di altri tre consiglieri civili arrivò senza maggiori difficoltà a destinazione. Questo ridotto consiglio di amici intimi dell’imperatore si mise subito a disposizione di Tito, il quale approfittò delle loro opinioni, servendosi con felice esito dei loro pareri, derivanti dalla grande conoscenza della regione e dei costumi.

26.           Il figlio dell’imperatore era generoso e leale con tutti i compatrioti, i quali lo consideravano un benefattore e un amico, ma nei confronti degli avversari, Tito era di una crudeltà senza pari. Intorno alla sua figura focosa e ardita si muovevano molte legioni di soldati che combattevano accanitamente.

27.           L’assedio di Gerusalemme, che terminò nel 70, fu uno dei più impressionanti della storia dell’umanità. La città fu assediata proprio quando interminabili moltitudini di pellegrini, venuti da tutti i punti della provincia, si erano riunite intorno al famoso tempio per le feste dei pani azzimi. Di qui l’esorbitante numero di vittime e le lotte atroci della celebre resistenza.

28.           Il numero dei morti nei terribili scontri salì a più di un milione, mentre i romani fecero quasi centomila prigionieri, dei quali undicimila furono massacrati dalle legioni vittoriose, dopo che erano stati scelti gli uomini validi, in mezzo a dolorose scene di sangue e atrocità da parte dei soldati.

29.           Il vecchio senatore si sentiva amareggiato di fronte a quei paurosi spettacoli di carneficina, ma doveva mantenere la parola data ed era con il miglior spirito di coraggio che dava pieno adempimento al suo mandato. Le sue opinioni e le sue conoscenze furono molte volte usate con successo, diventando l’intimo consigliere del figlio dell’imperatore.

30.           Ogni giorno, in compagnia di un amico, il senatore Pompilio Crasso, visitava le postazioni più avanzate delle forze attaccanti, verificando l’efficienza del nuovo orientamento, ideato dalla strategia militare dei suoi compatrioti. I capi delle operazioni, varie volte li invitarono alla prudenza, affinché non si esponessero troppo nei loro atteggiamenti di coraggio, ma Publio Lentulo non mostrava il più piccolo timore, realizzando, alla sua età, servizi di ricognizione topografica della famosa città.

31.           Infine, alla vigilia della caduta di Gerusalemme, già si lottava quasi corpo a corpo in tutti i punti di penetrazione, e c’erano incursioni dall’una e dall’altra parte nei campi nemici, con reciproche crudeltà contro tutti coloro che avessero avuto la disgrazia di cadere prigionieri.

32.           Nonostante la vigilanza di cui erano circondati, Publio e l’amico, a causa del coraggio di cui davano di continuo testimonianza, caddero nelle mani di alcuni avversari che, nell’osservare le loro uniformi di alti dignitari della Corte imperiale, li condussero subito davanti a uno dei capi della disperata resistenza che si era acquartierato in una vecchia casa che fungeva da comando militare, vicino alla torre Antonia.

33.           Publio Lentulo, vedendo le selvagge scene di sangue dell’anonima plebe insorta, che sterminava numerosi cittadini romani sotto i suoi occhi, ricordò il pomeriggio doloroso del Calvario, quando il misericordioso profeta di Nazareth moriva sulla croce sotto il vociare terrificante delle moltitudini infe­rocite. Mentre camminava, spinto con brutalità e arroganza, il vecchio senatore considerò che se quel momento avrebbe segnato il momento della sua morte, doveva morire eroicamente come sua moglie, in olocausto ai suoi principi, anche se c’era una fondamentale differenza tra il regno di Gesù e l’impero di Cesare. L’idea di lasciare la figlia Flavia Lentulo orfana del suo affetto lo preoccupava intimamente; tuttavia, pensò che ella avrebbe avuto al mondo la dedizione generosa e assidua di Anna e l’aiuto materiale delle sue sostanze.

34.           Fu in questo stato d’animo e sorpreso dal susseguirsi degli avvenimenti che attraversò lunghe vie piene di movimento, di grida, di rimproveri e di sangue. – Gerusalemme, presa dal panico, mobilitava le sue ultime forze per evitare la rovina completa.

35.           Dopo poche ore, estenuati dalla fatica e dalla sete, Publio e l’amico furono introdotti al comando quasi buio di un capo giudeo, il quale emanava i più spietati ordini di supplizio e di morte contro tutti i prigionieri romani, per vendicarsi delle atrocità del nemico.

36.           Bastò che Publio guardasse quel vecchio israelita dai tratti caratteristici, perché cercasse ansiosamente una figura simile nel mucchio dei suoi ricordi più intimi e più lontani, …ma non riuscì a identificare subito quel personaggio.

37.           Il vecchio capo, tuttavia, posò lo sguardo su di lui con astuzia e, facendo un gesto di soddisfazione, esclamò con un lampo di odio che gli traspariva da ogni parola: «Illustrissimi senatori…», enfatizzò con ironia e disprezzo «…io vi conosco da molti anni!» – E fissando Publio, aggiunse con malizia: «Soprattutto, mi sento onorato della presenza dell’orgoglioso senatore Publio Lentulo, antico legato di Tiberio e dei suoi successori in questa provincia perseguitata e martirizzata dai flagelli romani. Fortunatamente, le forze del destino non hanno permesso ch’io partissi per l’altra vita, nella mia vecchiaia avanzata, senza che mi vendicassi di un’ingiuria indimenticabile».

38.           Avanzando verso il vecchio patrizio, che lo guardava del tutto sorpreso, ripeté con insistenza irritante: «…Non mi riconoscete?»

39.           Il senatore, però, il cui aspetto denotava il suo penoso abbattimento fisico di fronte a quella dura prova della sua vita, invano analizzava la figura mingherlina e subdola di Andrea di Giora, che ora esercitava una elevata influenza nei lavori del famoso tempio, grazie alle fortune che era riuscito a mettere insieme.

40.           Vedendo l’impossibilità di essere riconosciuto dal prigioniero, la cui presenza lì lo interessava molto ed avendo risposto a tutte le sue domande, silenziosamente, con un gesto negativo, il vecchio giudeo continuò con sarcasmo: «Publio Lentulo, sono Andrea di Giora, quel padre che tu insultasti oltre ogni limite un giorno, con la tua autorità orgogliosa. Ora ricordi?»

41.           Il prigioniero fece un cenno affermativo con la testa.

42.           Vedendo, però, che la sua insolenza non lo intimoriva, il capo di Gerusalemme insistette esasperato: «E perché non ti umili in questo momento, davanti alla mia autorità? Ignori per caso che oggi stesso io posso decidere del tuo destino? Qual è la ragione per cui non mi chiedi pietà?»

43.           Publio era sfinito. Ricordò i suoi primi giorni a Gerusalemme e ricordò la visita di quell’agricoltore intelligente e ribelle. Cercò di ricordare nel suo intimo i provvedimenti che aveva adottato come funzionario di Stato, affinché il figlio del giudeo tornasse alla casa paterna, non ricordando di aver sputato tanto fiele in quel cuore disperato. Aveva deciso di non dire nulla davanti a quella figura esaltata e violenta, seguendo la sua intima disposizione spirituale, ma di fronte a quella insolente insistenza, senza rinunziare alle antiche tradizioni di orgoglio e vanità che lo caratterizzavano nel passato, e come se desiderasse dimostrare coraggio in tali penose circostanze, alla fine rispose con energia: «Se vi ritenete qui nell’adempimento di un sacro dovere, al di sopra di qualsiasi sentimento personale e men che degno, non aspettatevi che vi si chieda pietà per il fatto che state compiendo il vostro dovere».

44.           Andrea di Giora aggrottò i sopraccigli, esasperato dall’imprevista risposta, andando da un lato all’altro del grande studio, come se stesse pensando al mezzo migliore per mettere in atto la tremenda vendetta.

45.           Dopo alcuni momenti di tetro silenzio, come se fosse arrivato a una soluzione degna dei suoi progetti brutali, chiamò con voce lugubre una delle numerose guardie e ordinò: «Va’ di corsa e di’ a Italo, da parte mia, che deve venir qui domani, all’alba, per eseguire dei miei ordini». – E mentre il messaggero usciva, si rivolse ai due prigionieri con queste parole: «La caduta di Gerusalemme è imminente, ma darò fino all’ultima goccia di sangue della mia vecchiaia per sterminare le vipere del vostro popolo. La vostra razza maledetta venne ad arricchirsi nella città eletta, ma io esulto della mia vendetta su voi due, orgogliosi dignitari dell’Impero dell’empietà e del crimine. Quando si apriranno le porte di Gerusalemme, avrò portato a termine i miei implacabili disegni».

46.           Senza aggiungere una parola, bastò un suo cenno perché i due amici fossero buttati in una cella buia e umida, dove passarono una notte terribile tra pensieri dolorosi e scambiandosi amare confidenze.

47.           La mattina seguente furono chiamati alla prova suprema. Già si udivano nella città i primi rumori delle forze romane vittoriose che si abbandonavano al saccheggio della popolazione terrorizzata, umiliata e inerme.

48.           Da ogni parte, la fuga precipitosa di donne e bambini, tra grida infernali e angosciose; ma in quella vecchia casa dalle spesse pareti di pietra, si erano rifugiati in gran numero, capi e combattenti per la resistenza suprema.

49.           Publio e Pompilio furono portati in una grande stanza da dove si poteva udire il rumore crescente della vittoria delle armi imperiali, dopo scontri drammatici e sanguinosi, durante il lungo tempo del terrore, delle rapine e delle lotte; tuttavia, lì, davanti a quella vecchia casa grande e fortificata, c’erano centinaia di soldati armati e alcuni capi politici della resistenza israelita, che li osservavano.

50.           Di fronte all’avanzata vittoriosa delle legioni romane, si notava l’inquietudine e la paura che dominava su tutti i volti, ma c’era anche un interesse generale per i due importanti prigionieri dell’Impero, come se rappresentassero l’ultimo bersaglio su cui poter scaricare l’odio e la vendetta.

51.           Modificando, tuttavia, quella situazione di indecisione, Andrea di Giora prese la parola con voce strana e sinistra, che rimbombò in tutti gli angoli della casa:

52.           «Signori, siamo alla fine della nostra disperata difesa, ma abbiamo la consolazione di avere nelle nostre mani due grandi capi della maledetta politica di estorsione dell’Impero romano! ... Uno di loro è Pompilio Crasso, che cominciò la sua carriera di uomo pubblico in questa sventurata provincia, inaugurando un lungo periodo di terrore tra i nostri infelici compatrioti. L’altro, signori, è Publio Lentulo, l’orgoglioso ambasciatore di Tiberio e dei suoi successori nella Giudea da sempre umiliata; egli schiavizzò i nostri figli ancora giovani e organizzò processi criminali in tutte le zone della provincia, fomentando il terrore tra i nostri fratelli perseguitati e martirizzati, là, dalla sua residenza senatoriale della Galilea! ... Bene! Ma prima che i maledetti soldati del saccheggio imperiale ci facciano prigionieri e ci distruggano, realizziamo i nostri progetti! ...»

53.           Tutti i presenti ascoltarono le sue parole, come se fosse l’ordine supremo di un capo a cui si deve ubbidire ciecamente.

54.           I due senatori furono quindi legati con pesanti catene ai pali del supplizio, senza possibilità di un qualsiasi movimento, da limitare così le loro manifestazioni di mobilità ai soli occhi, silenziosi e sereni nel sacrificio.

55.           «La nostra vendetta deve obbedire agli antichi criteri» tornò a spiegare l’odioso israelita. «Per primo dovrà morire Pompilio Crasso, perché è il più vecchio e perché il vanitoso senatore Publio Lentulo comprenda il nostro sforzo per eliminare la vitalità del suo Impero maledetto».

56.           Pompilio guardò fisso e a lungo l’amico, come se gli stesse dando i suoi angosciosi e silenziosi saluti di addio, nell’ora estrema.

57.           «Nicandro, questo è lavoro tuo» esclamò Andrea, rivolgendosi a uno dei suoi compagni. E, dando al vigoroso soldato una spada, aggiunse con pro­fonda ironia: «Strappagli il cuore, perché il suo amico debba serbare la scena di oggi per sempre nella memoria».

58.           Gli occhi del condannato brillarono di intensa sofferenza, mentre il volto diventava sempre più pallido, rispecchiando le emozioni dolorose che aveva nell’anima. Fra lui e il compagno di sventura fu scambiato quindi uno sguardo indimenticabile.

59.           In pochi minuti Publio Lentulo assistette allo svolgersi della nefanda operazione. La testa bianca del suppliziato pencolò al primo colpo di spada, e dal suo torace contratto fu strappato violentemente il cuore palpitante e sanguinante.

60.           Allo stesso tempo, il senatore superstite udiva già il clamore dei patrizi vittoriosi che si avvicinavano, e immaginava che già si lottasse corpo a corpo alle porte di quella turbolenta assemblea della vendetta e del delitto. La mostruosa scena gli straziava l’animo sempre ottimista e deciso, ma non perse il contegno altero e severo che si era imposto in quel drammatico momento.

61.           Terminata l’esecuzione di Pompilio, conclusasi in fretta perché tutti i presenti avevano piena coscienza dell’orribile destino che li aspettava davanti ai vincitori, Andrea di Giora alzò nuovamente la voce, affermando in modo lugubre: «Amici miei, al più vecchio la pena misericordiosa della morte, ma a questo patrizio infame che ci ascolta, concederemo la pena amara della vita, dentro il sepolcro delle sue pazze illusioni di vanità e di orgoglio... Publio Lentulo, l’antico rappresentante degli imperatori dovrà vivere... Sì, ma senza gli occhi che gli hanno illuminato il cammino dell’egoismo supremo sulle nostre grandi disgrazie... Lo lasceremo in vita, perché nelle tenebre della sua notte cerchi di vedere con gli occhi degli schiavi che egli oppresse nel corso della vita».

62.           C’era all’interno un penoso silenzio, nonostante si sentissero, là fuori, lo scalpitare dei cavalli e lo sferragliare delle armature, mescolati al clamore sinistro di voci che imprecavano durante gli attacchi e la disperata resistenza dell’ultimo baluardo.

63.           Andrea di Giora, però, sembrava ubriaco col suo sfrenato desiderio di vendetta e, mantenendo il controllo degli astanti in quell’ora tragica del destino che a tutti spettava, con la voce magnetica e persuasiva, esclamò energicamente: «Italo, spetta alle tue mani il compito di questo momento».

64.           Dalla folla compatta e inquieta si staccò un uomo, dall’apparente età di quasi quarant’anni, che sorprese il senatore per i suoi tratti raffinati di patrizio. I loro sguardi si incontrarono ed egli pensò di scoprire in quell’anima un legame di affinità strana ed incomprensibile.

65.           Italo? Quel nome non gli ricordava forse qualcosa della sua indimenticabile Roma? Per quale motivo si trovava lì quell’uomo, evidentemente di sangue nobile, a combattere a fianco dei giudei rivoltosi e avvelenati dall’odio? A sua volta, il carnefice indicato dalla voce autoritaria di Andrea sembrava incline alla tenerezza e alla pietà verso quell’uomo vecchio e sereno, con le mani e i piedi legati alla colonna dell’infamia, ed esitava ad eseguire il sinistro e spietato ordine del suo capo.

66.           Dopo pochi minuti, apparve sulla soglia di una porta larga e scura un guerriero israelita che portava su un grande vassoio di bronzo una spada di ferro incandescente, la cui punta affilata poggiava tra carboni ardenti.

67.           Osservando con interesse l’enigmatica figura di Italo nel pieno vigore dell’età adulta, il senatore, silenzioso, non poté dissimulare la curiosità di fronte al suo volto fiero eppur delicato.

68.           Andrea, però, guardando con piacere la scena e osservando la grande attenzione del condannato, lo strappò da quello stato di riflessione e sorpresa, ironizzando: «Allora, senatore, state ammirando il nobile portamento di Italo? ... Ricordatevi che se i patrizi si concedono il lusso di possedere schiavi israeliti, anche i signori della Giudea apprezzano i servi di tipo romano. Anzi, mi è d’obbligo considerare che è sempre pericoloso tenere uno schiavo come questo in città, a causa della piaga costituita dalla presenza di patrizi, oggi molto numerosi in ogni parte; ma io sono riuscito a tenere quest’uomo di lavoro nell’ambiente rurale, fino a ora».

69.           Publio Lentulo a stento avrebbe potuto decifrare il senso nascosto di quelle ironiche parole, non avendo tempo in quel momento per alcuna riflessione. Osservò che Andrea si era zittito, attendendo con urgenza alle cose che doveva fare per portare a compimento l’operazione progettata, in modo che non andasse perduta l’incandescenza della lama fatale. Davanti a molti sguardi smarriti e disperati che non sapevano se fissare la macabra scena o se osservare l’entrata rumorosa delle forze di Tito che rompevano in quell’istante gli ostacoli dell’ultima difesa, l’implacabile aguzzino consegnò a Italo il terribile strumento del sacrificio.

70.           «Italo» raccomandò con la massima energia «questo minuto è prezioso... Bruciamo le sue pupille, in modo da dargli una sepoltura di ombre eterne nella sua vita!»

71.           Il pover’uomo, tuttavia, commosso fino alle lacrime, di fronte al supplizio che avrebbe dovuto infliggere con le sue mani, pareva indeciso e titubante.

72.           «Signore...» disse supplichevole, senza riuscire a formulare le sue obiezioni.

73.           «Cosa aspetti?» ribatté Andrea con ferocia, troncandogli la parola sulle labbra. «Dovrò forse prendere la frusta perché tu mi obbedisca?»

74.           Italo, umilmente, prese allora la lama. Si avvicinò leggermente al condannato pieno di rassegnazione e di forza interiore. Prima del momento supremo, i loro sguardi si incontrarono, scambiandosi vibrazioni di reciproca affinità. Publio Lentulo ancora ne osservò l’aspetto pervaso da segni di indiscutibile nobiltà, sciupata nei suoi tratti più caratteristici dai lavori più impietosi e pesanti; e così grande fu l’attrazione che sentì per quell’uomo, visto con i suoi occhi pieni di luce per l’ultima volta, da arrivare a ricordargli, inspiegabilmente, il suo piccolo Marco. Pensò che se il figlio fosse stato ancora vivo in quell’ambiente tanto ostile, avrebbe dovuto avere quel fisico e quell’età.

75.           Le mani di Italo, tremanti ed esitanti si avvicinarono ai suoi occhi esausti, come se stessero compiendo un dolce atto di affetto; ma il ferro incandescente, con la rapidità di un fulmine, ferì le sue pupille orgogliose e chiare, sprofondandole per sempre nelle tenebre.

76.           In quel momento la vittima udì che grida infernali risuonavano in tutta la sala.

77.           Un dolore indicibile si irradiò dalla bruciatura, facendogli provare atroci sofferenze. Egli non vedeva più nulla, solo fitte tenebre che gli ricoprivano lo spirito, ma presentiva che le forze vittoriose sarebbero arrivate troppo tardi per liberarlo.

78.           In mezzo ai rumori assordanti, Andrea di Giora si avvicinò di nuovo al condannato, parlandogli all’orecchio: «Avrei potuto ucciderti, senatore infame, ma voglio che tu viva. Ora ti rivelerò chi è Italo, …il tuo aguzzino dell’ultimo momento!»

79.           Ma un violento colpo di spada, brandita da un legionario romano, fece cadere il vecchio israelita al suolo, privo di conoscenza, mentre una pugnalata mirata raggiungeva Italo, perplesso nel suo stupore, che cadde pesantemente accanto al suppliziato, abbracciandogli i piedi, in un gesto significativo e supremo.

80.           Voci amiche circondarono allora Publio Lentulo, in quell’ambiente tumultuoso. Gli sciolsero subito i piedi e le mani, restituendogli la libertà dei movimenti, mentre altri legionari rimuovevano il cadavere di Pompilio Crasso col petto squartato, in un quadro tenebroso di barbarie sanguinosa.

81.           Placati i primi tumulti emozionali e serbando i più penosi dubbi sulle parole in sospeso del nemico implacabile, Publio Lentulo, prima di essere accompagnato dal braccio dei compagni al comando delle forze operative dove avrebbe ricevuto i primi soccorsi, si raccomandò che trattassero col massimo rispetto il cadavere di Italo che giaceva a lato di un cumulo di spoglie sanguinanti; nella qual cosa fu prontamente obbedito, anche se un compagno gli disse: «Senatore, prima di tutto non dimenticate il vostro stato, che esige da parte di tutti noi le più urgenti cure».

82.           E come se volesse provocare una spiegazione spontanea da parte del ferito circa il suo interesse per il morto, aggiunse delicatamente: «Non è forse stato quest’uomo ad infliggervi il tremendo supplizio?»

83.           A causa della domanda inattesa e avendo bisogno di giustificare il suo atteggiamento davanti ai compatrioti che lo ascoltavano, Publio esclamò con voce decisa: «Vi ingannate, amico mio. Quest’uomo, il cui cadavere io ora non posso vedere, era un nostro conterraneo, prigioniero da molto tempo per il furore vendicativo di un potente signore di Gerusalemme... Osservate i suoi nobili tratti e concorderete con me».

84.           E mentre si ritirava, aiutato dagli amici, per ricevere soccorsi immediati e improrogabili, pensò di aver compiuto un dovere dicendo quelle parole, perché voci misteriose parlavano al suo cuore di quello sguardo generoso che si era posato nei suoi occhi per l’ultima volta.

85.           Per vari giorni Gerusalemme fu in preda al saccheggio e al disordine attuati dalla soldatesca dell’Impero, affamata di piaceri e avvelenata dall’ebbrezza sinistra del trionfo. Tutti i capi della resistenza israelita furono catturati perché comparissero a Roma per l’ultimo sacrificio, in omaggio alle feste commemorative della vittoria. Fra di essi era incluso Andrea di Giora che, guarito dalle ferite ricevute, rappresentava uno di coloro che avrebbero dovuto essere sterminati per il gaudio della folla che assisteva alle feste nella capitale dell’Impero.

86.           Dopo l’uccisione di undicimila prigionieri feriti o invalidi, massacrati dalle legioni vittoriose, dopo i paurosi spettacoli della distruzione e del saccheggio del magnifico tempio, in cui Israele pensava di contemplare il suo monumento eterno e divino per tutte le generazioni della sua prolifica posterità, la compatta carovana dei vinti e dei vincitori tornò piena di ricchezze illegali e trofei meravigliosi, in modo da sfoggiare a Roma tutti gli ornamenti a dimostrazione della vittoria, tra vibrazioni di entusiasmo e canti di trionfo.

87.           In una galea confortevole e tranquilla, Publio Lentulo viaggiò rassegnato dentro la notte fonda della sua cecità, circondato da amici premurosi, che tutto facevano per alleggerire le sue sofferenze morali.

88.           Prima di arrivare a Roma, più volte pensò al miglior modo per rivolgersi direttamente ad Andrea, al fine di strappargli la verità e placare i dubbi angosciosi sull’identità dello schiavo dall’aspetto romano che lo aveva ferito per sempre, nel prezioso dono della vista. Lui però ora era cieco, e per realizzare questo desiderio avrebbe dovuto istituire una vasta procedura di misure e di collaborazioni esterne e così, non aveva pensato alla maniera migliore di ascoltare il giudeo senza ferire le tradizioni della dignità personale, sempre mantenuta intatta in tutti i tempi della sua vita pubblica.

89.           Fu in questa difficile situazione che egli arrivò nuovamente nel suo palazzo sull’Aventino, accompagnato da numerosi compagni di tanti lavori politici, impressionando tristemente il cuore della figlia con la tragica e dolorosa notizia della sua cecità.

90.           Anna, quale angelo fraterno, coraggiosa sorella di tutti coloro che soffrivano, sincera discepola del cristianesimo, aspettò con affetto il suo signore, vicino a Flavia che esclamò, piena di irrefrenabile sconforto: «Padre mio, padre mio, che disgrazia!»

91.           Il vecchio patrizio, tuttavia, con il suo ottimismo, la confortò nello spirito, rispondendo: «Figlia, non tormentarti con le profonde argomentazioni sulle ragioni del destino. In tutti gli avvenimenti della vita dobbiamo lodare i supremi disegni dei Cieli, e spero che tu abbia di nuovo coraggio, perché solo così potrò ancora vivere accanto a te, consolandoci affettuosamente l’uno con l’altra! È stato proprio il destino che mi ha allontanato a forza dagli affari di Stato, per vivere d’ora in poi solo per te».

92.           Si abbracciarono quindi con effusione e si coprirono di baci, uniti dalla medesima disgrazia, vibrazioni di due anime provate dagli stessi patimenti. Tuttavia, Publio Lentulo, nonostante l’indispensabile riposo e nonostante la cecità che gli impediva ogni iniziativa, non perse la speranza di ascoltare, ancora una volta, la parola del nemico implacabile, e per questo aspettò il giorno delle magnifiche feste del trionfo, ansiosamente atteso dal popolo romano.

93.           È doveroso mettere in evidenza che il vecchio senatore fu condotto a Roma immediatamente, a causa della sua specialissima situazione; ma il vincitore e le sue infinite legioni entrarono in Roma con tutti i fastosi protocolli dei trionfatori, secondo i numerosi regolamenti dell’antica Repubblica.

94.           Nel giorno fissato, tutta la capitale, con la sua popolazione di circa un milione e mezzo di abitanti, aspettava le magnifiche commemorazioni della vittoria.

95.           Fin dalle prime ore del mattino cominciarono a riunirsi alle porte della città le legioni vittoriose che, disarmate, vestivano delicate tuniche di seta e portavano sulla testa corone di alloro. Oltrepassate le porte della città, tra gli applausi di un’immensa folla, fu loro offerto uno splendido banchetto, presieduto dallo stesso imperatore e da suo figlio.

96.           Vespasiano e Tito, subito dopo le cerimonie del Senato nel Portico di Ottavia, s’incamminarono verso la Porta Trionfale. Là, offrirono un sacrificio agli dèi e presero i simboli del trionfo delle solenni festività imperiali. Terminata questa cerimonia, iniziò la marcia del grande corteo al quale Publio Lentulo non mancò, con la segreta intenzione di ascoltare la parola rivelatrice del capo prigioniero, il cui cadavere, dopo i sacrifici di quel giorno, sarebbe stato buttato nelle acque del Tevere secondo le tradizioni del tempo.

97.           Tutti i trofei delle sanguinose battaglie e tutti i vinti, in numero considerevole, furono portati anch’essi in corteo nella festa indescrivibile. Davanti all’immenso corteo sfilò un’incalcolabile quantità di opere in oro puro, ornate con colori diversi e sgargianti e, subito dopo, innumerevoli pietre preziose, incastonate non solo su corone di sfolgorante bellezza, ma anche su stoffe che stupivano gli spettatori per la varietà, dovendosi notare che tutti questi tesori erano portati da giovani legionari che vestivano tuniche di porpora con graziosi ornamenti dorati.

98.           Dopo l’esibizione dei tesori conquistati per il trionfatore, seguirono a centinaia le statue degli dèi scolpite in avorio, oro e argento, dalle misure più straordinarie. Subito dopo le statue degli dèi, tutto un esercito di animali delle più diverse specie, fra cui si distinguevano numerosi dromedari ed elefanti, coperti da una grande quantità di magnifiche pietre. Dopo gli animali seguì la moltitudine compatta e triste dei prigionieri ordinari, i quali mostravano la loro miseria e gli sguardi umiliati, cercando di nascondere agli spettatori impietosi e irriverenti le pesanti catene con cui erano legati.

99.           Dopo i prigionieri vinti, sfilarono i simboli delle città vinte e umiliate, preparati con grande cura, portati sulle spalle da numerosi soldati, il tutto simile ai moderni carri allegorici delle feste carnevalesche. C’erano rappresentazioni delle battaglie vittoriose di tutte le città distrutte e saccheggiate, né mancava la distruzione degli accampamenti, la caduta delle mura e gli incendi devastatori.

100.      Dopo questi simboli seguirono i bottini ricchissimi dei popoli vinti e delle città conquistate, principalmente quelli di Gerusalemme, trasportati con molto orgoglio dai legionari. Tra le urla e gli applausi irriverenti della folla che si accalcava da ogni parte, sfilarono le statue che rappresentavano le figure di Abramo e Sara, così come di tutte le regali personalità della famiglia di David e tutti gli oggetti sacri del famoso tempio di Gerusalemme, quali la tavola dei Pani, realizzata in oro massiccio, le trombe del Giubileo, il candeliere d’oro a sette bracci, i paramenti di alto valore intrinseco, i veli sacri del tempio e, infine, la Legge dei giudei che seguiva dopo tutti gli oggetti materiali presi dalle forze trionfanti. Ogni oggetto era trasportato su portantine preziose e ben decorate, sulle spalle dei legionari romani coronati di alloro.

101.      Dopo i testi della Legge, seguì Simone, lo sventurato capo supremo di tutti i movimenti della resistenza di Gerusalemme, seguito dai suoi tre diretti aiutanti, incluso Andrea di Giora. Tutti questi capi della lunga e disperata resistenza vestivano di nero e camminavano solennemente verso il sacrificio, dopo essere stati esibiti in tutte le commemorazioni festive del trionfo.

102.      In seguito sfilarono i carri superbi e magnifici dei trionfatori. Dopo il passaggio trionfante di Vespasiano, sfilò Tito in un oceano di porpora, di sete e di carminio, simbolizzando lo stesso Giove nell’ebbrezza della sua vittoria.

103.      Passò nel corteo d’onore, anche il senatore fisicamente malandato e cieco. Egli era lì, non per godere degli omaggi, ma col segreto desiderio di ascoltare le parole di Andrea, prima del tragico momento in cui il suo corpo sarebbe stato fatto penzolare sopra le acque limacciose del Tevere, nel momento dell’esecuzione dell’ultimo supplizio, sotto gli applausi deliranti del popolo.

104.      Dopo i carri imperiali dei vincitori e dei loro assistenti più intimi, compatto, marciò l’esercito, cantando gli inni della vittoria, mentre vie e piazze, fori e portici, terrazzi e finestre si riempivano di un’incalcolabile moltitudine curiosa.

105.      Il corteo si mosse solennemente dalla Porta Trionfale fino al Campidoglio. Lunghe ore durò il tragitto, attraverso un cammino tortuoso, perché la festa era organizzata in modo da portare i suoi splendori attraverso i rioni più aristocratici del patriziato romano.

106.      A un certo momento, tuttavia, prima di salire la collina, tutto il corteo si arrestò e gli occhi ansiosi della moltitudine si volsero verso Simone e i suoi tre compagni, diretti aiutanti del suo comando durante la resistenza della famosa città.

107.      Publio Lentulo, cieco, ma pratico della tradizione di quelle commemorazioni, comprese che era arrivato il momento supremo. In virtù del suo caso specialissimo e considerando la riverenza che le autorità giudicavano di dovergli, l’imperatore si preoccupava della sua situazione nel corteo, raccomandando al figlio Domiziano di attendere a qualsiasi provvedimento di cui ci fosse stato bisogno in tali circostanze.

108.      In quel momento, sotto le rumorose vibrazioni del delirio popolare, si procedette alla tortura di Simone davanti a tutta Roma ebbra e vittoriosa, mentre Andrea di Giora e i due compagni venivano condotti al carcere Mamertino dove avrebbero aspettato il capo dopo la flagellazione, per la morte in comune, in modo che i cadaveri potessero esser trascinati attraverso la città e, sotto gli occhi della popolazione, buttati nella corrente del Tevere.

109.      Con l’anima ansiosa, ma disposto a realizzare il suo piano, il senatore chiamò il principe, alla cui attenzione era stato raccomandato, manifestandogli il desiderio di rivolgere la parola a uno dei prigionieri in particolare e in condizioni di segretezza, nella qual cosa fu immediatamente esaudito.

110.      Domiziano lo prese per un braccio con delicatezza e lo condusse in un settore della tetra prigione, dove ordinò di far venire Andrea in una cella isolata e segreta secondo il desiderio di Publio, e non appena il condannato entrò per l’interrogatorio da parte dell’antico uomo politico del Senato, insieme con alcune guardie aspettò il termine della conversazione in una stanza vicina.

111.      Stando uno di fronte all’altro, i due nemici ebbero una strana sensazione di disagio. Publio Lentulo non lo poteva vedere più, ma se i suoi occhi non avevano ormai espressione emotiva, essendo state bruciate per sempre le pupille chiare ed energiche, la sua figura eretta manifestava le emozioni che lo dominavano.

112.      «Signor Andrea», esclamò il senatore profondamente emozionato, «contro tutte le mie abitudini ho cercato io questo incontro segreto, per chiarire i miei dubbi circa le parole misteriose che voi pronunciaste a Gerusalemme, il giorno in cui attuaste i vostri impietosi disegni contro di me.

113.      Adesso non voglio entrare in particolari circa il vostro atteggiamento, ma in questo momento in cui la giustizia dell’Impero vi ha nelle sue mani, voglio solo dirvi che io feci di tutto per restituirvi il figlio prigioniero, compiendo un dovere di umanità, quando ricevetti le vostre suppliche. Lamento che i miei provvedimenti, tardivi, non ottennero l’effetto desiderato, provocando così un violento odio nel vostro cuore. Ora, però, io non comando più. Un cieco non può dare ordini di alcuna natura di fronte alle penose circostanze della sua stessa vita, ma sollecito un vostro chiarimento circa la persona dello schiavo che mi bruciò la vista per sempre! ...»

114.      Andrea di Giora era anch’egli molto abbattuto nella sua alquanto inferma vecchiaia. Commosso dall’atteggiamento di quel padre umiliato e infelice, facendo un’analisi retrospettiva delle sue azioni criminali in quell’ora suprema della sua vita, rispose estremamente pentito: «Senatore Lentulo, l’ora della morte è differente da tutte le altre che il destino concede alla nostra esistenza in questo mondo... È per questo, forse, che ora sento il mio odio trasformato in pietà, e considero l’intensità della vostra sofferenza, amara e crudele. Dal momento in cui sono stato arrestato, vado pensando agli errori della mia vita criminale... Lavorando nel tempio e vivendo per il culto della Legge di Mosè, solo ora riconosco che Dio concede libertà d’azione a tutti i suoi figli, specialmente ai suoi sacerdoti, toccando loro la coscienza, ma nel momento della morte, quando non resta più nulla, se non la presentazione dell’anima fallita davanti al tribunale che nessuno può, …né ingannare né corrompere. So che è tardi per reagire al cammino percorso al fine di compiere nuovamente le nostre azioni, ma un sentimento nuovo mi fa parlare a voi, qui, con la sincerità del cuore che, spronato dal giudizio divino, ormai non può ingannare più nessuno. Quasi quarant’anni fa la vostra orgogliosa severità ordinò la prigione per il mio unico figlio, spedendolo senza pietà alle galee, e inutilmente implorai la vostra clemenza di uomo pubblico, per il mio animo disperato... Dalle galee, tuttavia, il mio povero Saul fu mandato a Roma, dove fu miserabilmente venduto in un mercato di schiavi, …al senatore Flaminio Severo».

115.      In quel momento, il cieco, che ascoltava attentamente e molto commosso, nel riconoscere in quel racconto il persecutore della figlia, l’interruppe domandando: «Flaminio Severo?»

116.      «Sì, era anche lui come voi: un senatore dell’Impero».

117.      Profondamente emozionato nel collegare i dolorosi fatti della sua famiglia con la persona dell’antico liberto, ma avendo bisogno di tutte le sue energie morali per dominarsi, il senatore trattenne dentro di sé la sua amarezza, mantenendo un atteggiamento di eloquente silenzio, mentre il condannato proseguiva: «Saul, tuttavia, fu felice... Ottenne la libertà e fece fortuna, tor­nando di quando in quando a Gerusalemme, dove mi aiutò a prosperare; ma devo confessarvi che, sebbene i testi della Legge, molte volte da me insegnata, ci imponessero di desiderare per il prossimo quello che desidereremmo per noi stessi, non incrociai le braccia davanti alla vostra autorità criminale, giurando di vendicarmi a ogni costo. Per questo, in una notte tranquilla, rapii il vostro piccolo Marco dalla vostra residenza di Cafarnao, con la complicità di una delle vostre serve, che più tardi dovetti avvelenare perché non andasse a rivelare il segreto e a manifestare così i miei disegni, quando la vostra ansietà paterna istituì a Gerusalemme il premio di un Grande Sesterzio a chi avesse scoperto il nascondiglio del bambino... Ricorderete certamente la serva Semele che morì improvvisamente in casa vostra...»

118.      E mentre Andrea di Giora si dilungava nella triste confessione che gli toccava le intime fibre dell’anima, costituendo ogni parola una stilettata di amarezza che gli feriva il cuore, tardivamente Publio Lentulo venne a conoscenza di tutti i fatti, ricordando gli angosciosi martiri patiti dalla compagna, sposa e madre affettuosa, eppure calunniata.

119.      Impressionato comunque dal suo silenzio doloroso, Andrea continuò: «Ecco, senatore, seguendo i miei sentimenti, condannabili, rapii il vostro figlioletto …che crebbe umiliato nei più duri lavori dei campi. Annientai la sua intelligenza, ...gli favorii l’approccio ai vizi più disprezzabili, per il piacere diabolico di umiliare un romano nemico, finché la mia vendetta culminò nel nostro inatteso incontro! Ma ora sono davanti alla morte e non so più vedere la nostra situazione se non come quella di sventurati genitori. So che tra poco sarò davanti al tribunale del più giusto giudice, e se vi fosse possibile, io desidererei che mi concedeste un poco di pace con il vostro perdono!»

120.      Il vecchio senatore dell’Impero non avrebbe potuto spiegare il suo profondo dolore, udendo quelle tristi e angosciose rivelazioni. Ascoltando Andrea sentiva il desiderio di chiedere del figlio quand’era piccolo, delle sue vocazioni, delle sue aspirazioni quand’era giovane; desiderava informarsi sui suoi lavori e sulle sue predilezioni, ma ogni parola di quella amara confessione era stata una pugnalata nei suoi sentimenti più sacri. Come statua ammutolita dalla sventura, sentì ancora il prigioniero ripetere, quasi in lacrime, strappandolo ai suoi pensieri tristi e pieni di tormento:

121.      «Senatore», insistette quello, supplicando con tristezza, «perdonatemi! Voglio comprendere lo spirito della mia Legge, …sebbene sia l’ultimo istante! Dimenticate il mio delitto e datemi la forza per comparire davanti alla luce di Dio...»

122.      Publio ascoltò la sua voce supplichevole, mentre una lacrima di dolore indescrivibile scendeva dai suoi occhi tristi e spenti.

123.      Perdonare? Ma come? Non fu lui, Publio, l’offeso e la vittima di un’esistenza intera? Straordinarie emozioni avevano raggiunto la sua anima, mentre molti singhiozzi gli morivano nella gola oppressa.

124.      Davanti a lui c’era il nemico implacabile che aveva cercato invano attraverso molti e lunghi anni di infelicità, ma nel suo esame di coscienza sapeva capire ugualmente le proprie colpe ricordando la sua eccessiva e orgogliosa severità. Anche lui stava lì come un cadavere ambulante dentro le ombre fitte. A cosa erano valsi gli onori e la vanità sfrenata? Tutte le sue speranze di buona sorte erano morte. Tutti i suoi sogni annientati. Padrone di una fortuna considerevole, non avrebbe vissuto più nel mondo, se non per portare la bara nera delle illusioni frantumate. Tuttavia, nel suo intimo, rifiutava il perdono dell’ora estrema. Fu in quel momento che si ricordò di Gesù e della Sua dottrina di amore e di pietà verso i nemici. Il Maestro di Nazareth aveva perdonato tutti i Suoi persecutori e aveva insegnato ai discepoli che l’uomo deve perdonare settanta volte sette. Ricordò, ugualmente, che la sua sposa immacolata era morta nell’ignominia del circo infame, per Gesù; per Gesù era tornato Flaminio dal regno delle ombre per spingerlo un giorno, …al perdono e alla pietà.

125.      I rumori che venivano da fuori rivelavano che l’ultima ora di Andrea era vicina. Simone stesso già s’incamminava vacillante e coperto di sangue dopo la flagellazione verso l’interno della prigione, per la conclusione del supplizio.

126.      Fu così che Publio Lentulo, abbandonando tutte le tradizioni di orgoglio e di amor proprio, sentì che nel profondo della sua anima sgorgava una Fonte di linfa cristallina. Molte lacrime scesero sul suo volto macilento e pieno di rughe, dalle orbite degli occhi spenti e, come se desiderasse guardare il nemico con gli occhi spirituali per mostrargli la sua pietà, esclamò con voce ferma: «Siete perdonato...»

127.      Ritornando immediatamente nell’altra stanza e senza aspettare alcuna risposta, comprese che era arrivata l’ultima ora del nemico.

128.      Dopo pochi minuti, il cadavere di Andrea di Giora veniva trascinato per le strade per essere gettato nel Tevere silenzioso.

129.      Il senatore non partecipò a nessun’altra delle numerose cerimonie nel tempio di Giove.

130.      Il corteo adesso era illuminato dal chiarore di migliaia di torce collocate dagli schiavi, al cadere delle prime ombre della notte, su quaranta elefanti, per ordine di Tito; ma il senatore, oppresso dalle sue sofferenze morali, ritornò in lettiga al palazzo sull’Aventino, dove si chiuse nei suoi appartamenti personali, adducendo una grande stanchezza.

131.      A tastoni nella sua notte, strinse a sé la croce di Simeone che gli era stata lasciata dalla sposa credente, bagnandola con le lacrime della sua sventura. Meditando profondamente e dolorosamente, poté allora comprendere come Livia fosse vissuta per Dio e lui per Cesare, ricevendo entrambi compensazioni diverse sulla strada del destino. E mentre il giogo di Gesù era stato soave e leggero per sua moglie, il suo cuore orgoglioso era rimasto attaccato al terribile giogo del mondo, sepolto nei suoi irrimediabili dolori, senza chiarore e senza speranza.

 

 

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Cap. XIX

AMARI RICORDI

1.                Subito dopo i tristi avvenimenti del 70 e secondo i desideri di Flavia, il senatore andò ad abitare nella confortevole villa che possedeva a Pompei, lontano dal traffico della capitale. Là avrebbe potuto dedicarsi meglio alle sue meditazioni.

2.                Il vecchio politico aveva pertanto trasportato là il suo ricco archivio, come pure i ricordi più cari e più importanti della sua vita.

3.                Due liberti greci, molto colti, furono assunti per il lavoro di scrittura e lettura, ed era così che nel suo ritiro si manteneva al corrente di tutte le novità politiche e letterarie di Roma.

4.                A quell’epoca, quando l’uomo era ancora lontano dai preziosi vantaggi dell’invenzione di Gutenberg, i manoscritti romani erano rari e sommamente contesi dalle persone colte del tempo. Una casa editrice disponeva, quasi sempre, di un centinaio di intelligenti schiavi calligrafi che realizzavano più o meno mille libri all’anno.

5.                Publio, oltre a ciò, possedeva a Roma numerose e sincere amicizie sempre a sua disposizione, ricevendo così a Pompei le notizie di tutti gli avvenimenti della città, che gli avevano assorbito le migliori energie della vita.

6.                Frequentemente riceveva anche notizie di Plinio Severo per mezzo di amici premurosi, compiacendosi delle informazioni sulla sua condotta, ora degna, in quanto per i suoi meriti conquistati nelle Gallie, dopo il 73 era stato trasferito a Roma. Qui, per la correttezza del suo procedere, per quanto tardivamente, aveva conquistato una posizione rispettabile e brillante, proseguendo, secondo la tradizione dell’onestà paterna, nelle cariche amministrative dell’Impero.

7.                Plinio, tuttavia, non era più tornato a cercare la sposa né colui che il destino lo vincolava a considerare come un padre premuroso e affettuoso, per quanto non ignorasse l’estrema disgrazia dei suoi familiari. Nell’intimo, l’antico ufficiale romano non disdegnava l’idea di tornare con i suoi cari; tuttavia desi­derava poterlo fare in condizioni tali da dissipare ogni dubbio circa il suo considerevole sforzo di riabilitazione. Occupando posti di fiducia nell’amministrazione dei Flavi, aspirava a una posizione di maggiori gratificazioni morali, in modo da offrire ai suoi intimi la certezza del suo riscatto spirituale.

8.                Correva l’anno 78 nella tranquillità degli incantevoli paesaggi della Campania. Mentre Tivoli era una stazione climatica di cura e di riposo per i romani più ricchi, Pompei era la città dei romani più sani e più felici. Nelle sue vie pubbliche si potevano ammirare, a ogni passo, i marmi superbi e l’eccellente stile delle più belle costruzioni della capitale aristocratica dell’Impero. Nei suoi templi sontuosi si tenevano riunioni brillanti di patrizi colti e raffinati che si stabilivano nella bella città popolata di cantori e di poeti, ai piedi del Vesuvio e sovrastata da un cielo di meraviglie, pieno di un Sole ridente e ornato di stelle scintillanti.

9.                Publio Lentulo ora apprezzava in modo particolare la parola semplice e convincente di Anna, la quale era invecchiata al fianco di Flavia, come una bella figura di avorio antico. Evidenti erano il suo interesse, la sua commozione e la sua gioia nell’ascoltarla dissertare sull’eccellenza dei princìpi cristiani, allorché s’intrattenevano sui ricordi della Giudea ormai lontana.

10.           In quelle amabili conversazioni tra loro tre, subito dopo cena, si discuteva della figura del Cristo e dei sublimi effetti della Sua dottrina, riuscendo il senatore, in forza delle circostanze, a meditare meglio sui grandiosi princìpi del Vangelo, a quei tempi ancora privo di unità e poco conosciuto, per collegare i princìpi generosi e santi del Cristianesimo alla personalità del suo divin Fondatore.

11.           Rimanevano per lunghe ore sul grande terrazzo sotto la tenue luce delle stelle e godendo della carezza della brezza notturna, la quale, per quelle tre creature, sulle cui fronti corrugate scorrevano le esperienze degli anni, era come un soffio di ispirazioni celesti.

12.           A volte Flavia faceva un po’ di musica che le usciva dall’arpa come un vibrante gemito di dolore e di nostalgia, raggiungendo il cuore paterno immerso nell’abisso dei suoi dolorosi ricordi. La musica dei ciechi è sempre più spirituale e più pura, perché, nella sua forma, parla all’anima profondamente, senza le emozioni dispersive delle azioni materiali.

13.           Una sera, obbedendo a una consuetudine vecchia di molti anni, incontriamo ancora quelle tre creature sul grande terrazzo della villa di Pompei, tra dolci ricordi.

14.           Da più di sette anni, quasi tutte le conversazioni vertevano sulla personalità del Messia e sulla sublime purezza della Sua dottrina, osservando, prima di tutto, la necessaria riservatezza, in quanto i seguaci del cristianesimo erano ancora perseguitati, sebbene con minore crudeltà. In ogni caso, invariabilmente, la conversazione era tra infermi e anziani, senza provocare l’interesse degli amici più giovani e più felici.

15.           Dopo alcuni ricordi e i commenti di Anna su quel terribile pomeriggio del Calvario, il vecchio senatore esclamò in tono di piena convinzione: «Tra me e me, ho la certezza che Gesù rimarrà per sempre nel mondo come il più elevato Simbolo di conforto e forza morale per tutti coloro che soffrono e per tutte le persone tristi! ... Fin dai primi giorni della mia cecità materiale, cerco intima­mente di comprendere la Sua grandezza, e non riesco a capire tutta la profondità della Sua magnificenza e dei Suoi insegnamenti. Ricordo, come se fosse ieri, quel crepuscolo meraviglioso quando Lo vidi per la prima volta, …lungo le rive del lago di Tiberiade».

16.           «Anch’io», mormorò Anna «non riesco a dimenticare quei pomeriggi deliziosi e chiari in cui tutti noi servi e sofferenti di Cafarnao ci riunivamo sulle rive del grande lago, aspettando la dolce estasi delle Sue parole».

17.           E come se stesse contemplando il susseguirsi dei suoi ricordi più cari con gli occhi dell’immaginazione, la vecchia serva continuò: «Il Maestro apprezzava la compagnia di Simone e dei figli di Zebedeo e, quasi sempre, era su una delle loro barche con cui Egli veniva, premuroso, …ad ascoltare le nostre richieste».

18.           «Quello che più mi impressionava», disse Publio Lentulo emozionato, «è che Gesù non era, per quanto se ne sapesse, un dottore della legge o un sacerdote formatosi nelle scuole umane. La Sua parola, tuttavia, era come unta da grazia divina. Lo sguardo sereno e indefinibile penetrava nel profondo dell’anima, e il sorriso generoso aveva la benevolenza di chi, possedendo tutta la verità, sappia comprendere e perdonare gli errori umani. I Suoi insegnamenti, ogni giorno da me meditati in questi ultimi anni, sono rivoluzionari e originali, perché distruggono tutti i preconcetti di razza e di stirpe, unendo le anime in un grande abbraccio spirituale di fraternità e tolleranza. Mai la filosofia umana ci ha detto che gli afflitti e i pacifici sono beati nel Cielo; e così, grazie alle Sue lezioni innovatrici, abbiamo modificato il concetto di virtù che, per il Dio supremo e misericordioso dei Cieli, non sta nell’uomo più ricco e più potente del mondo, ma nel più giusto e più puro, anche se umile e povero. La Sua parola misericordiosa e affettuosa ha diffuso Insegnamenti che solo oggi posso comprendere nel buio fitto e triste delle mie sofferenze».

19.           «Padre mio,» domandò Flavia Lentulo, estremamente interessata alla conversazione «tu andasti a vedere il Profeta molte volte?»

20.           «No, figlia mia. Prima del giorno tragico della Sua morte infame sulla croce, Lo vidi solo una volta, al tempo in cui tu eri piccolina e malata. Questo, però, bastò perché io ricevessi, attraverso le Sue parole sublimi, luminosi Insegnamenti per tutta la vita. Solo oggi capisco le Sue benevoli esortazioni, comprendendo che la mia esistenza, …è stata un’occasione perduta! D’altra parte, già in quel tempo, la sua profonda parola mi diceva che io, nel momento del nostro incontro, avevo di fronte l’occasione più bella di tutti i miei giorni, aggiungendo, nella Sua straordinaria benevolenza, che avrei potuto approfittarne in quell’epoca o da qui a migliaia di anni, …senza che mi fosse possibile cogliere il significato simbolico delle Sue parole».

21.           «Tutte le concessioni di Gesù si basavano sulla Verità santificata e consolatrice», aggiunse Anna, godendo ora di ogni familiarità con i suoi padroni.

22.           «Sì», esclamò Publio Lentulo, concentrato nei suoi ricordi «le mie osservazioni personali mi autorizzano a credere allo stesso modo. Se quel giorno avessi approfittato dell’esortazione di Gesù, forse …avrei evitato più della metà delle amare prove che la Terra mi riservava. Se avessi cercato di comprendere la Sua lezione di amore e umiltà, avrei cercato Andrea di Giora personalmente, per riparare al male che gli avevo fatto imprigionando il suo villano figliolo, e per dimostrargli il mio interesse personale, …senza fidarmi dei soli funzionari irresponsabili che si trovavano al mio servizio. Guidato da questo tipo di interesse, facilmente avrei incontrato Saul, poiché Flaminio Severo sarebbe stato a Roma il confidente dei miei desideri di riparazione, evitando in questa maniera la dolorosa tragedia della mia vita di padre. Se avessi sufficientemente capito la Sua carità, nella guarigione di mia figlia, avrei conosciuto meglio il tesoro spirituale del cuore di Livia, vibrando con il suo spirito nella medesima fede, o cadendo insieme a lei nell’arena ignominiosa del circo, il che sarebbe stato soave, a confronto con le lente agonie del mio destino; sarei stato meno orgoglioso e più umano, se avessi capito il Suo insegnamento, …la Sua lezione di fraternità».

23.           «Padre mio…», esclamò la figlia, così da confortargli gli affanni del cuore, «…se Gesù è la Sapienza e la Verità, in qualsiasi modo egli potrebbe comprendere le ragioni del vostro comportamento, sapendo che foste forzato dalle circostanze a osservare questo o quel principio nella vostra vita».

24.           Publio rispose con calma: «Figlia mia, ho la presunzione di essere arrivato in questi ultimi anni alla più sicura conclusione riguardo ai problemi del dolore e del destino. Oggi, attraverso l’esperienza stessa che le attività penose del mondo mi hanno offerto, credo che noi contribuiamo particolarmente ad aggravare o attenuare le rigorosità della situazione spirituale, nei compiti di questa vita. Ammettendo ora 1’esistenza di un Dio Onnipotente, Fonte di tutta la misericordia e di tutto l’amore, credo che la Sua legge sia quella del bene supremo per tutte le creature. Questo codice di solidarietà e di amore deve sostenere tutti gli esseri, e dentro ai Suoi disposti divini la felicità è il fine del Cielo per tutte le anime. Ogni volta che cadiamo lungo il cammino, favorendo il male o praticandolo con la nostra libertà relativa, effettuiamo un intervento illecito nella legge di Dio, contraendo un debito con il peso delle disgrazie. Non riferendomi alle mie azioni personali che aggravarono le mie angosciose, intime sofferenze, e considerando Gesù come intermediario tra noi e Colui che la Sua profonda Parola chiamava Padre-nostro, mi chiedo oggi se non commisi un errore forzando la Sua misericordia con la mia supplica paterna, affinché tu continuassi a vivere in questo mondo, per il nostro amore in famiglia, …quando tu eri piccolina».

25.           Flavia Lentulo e Anna, che seguivano i ragionamenti del senatore da molti anni, ne raccolsero meravigliate le conclusioni morali, di fronte all’intima facilità con cui egli sapeva legare le penose lezioni del suo destino con i princìpi insegnati dal Profeta di Nazareth.

26.           Flavia Lentulo, dopo una lunga pausa, disse: «In verità, padre mio, ho l’impressione che le forze divine avessero deciso di togliermi dal mondo, considerando le dolorose pene che mi aspettavano lungo il difficile cammino del mio sventurato destino».

27.           «Sì, mi hai compreso bene», aggiunse il senatore interrompendola. «La vita e la sofferenza ci insegnano a capire meglio il piano dei progetti di natura divina. Antichi seguaci delle misteriose religioni dell’Egitto e dell’India credevano che torniamo varie volte sulla Terra, …in altri corpi!» – In quel momento, il vecchio patrizio fece una pausa. Si ricordò dei suoi antichi sogni, quando si era visto con le vesti di console ai tempi di Catilina, imporre ai nemici politici il supplizio della cecità con un ferro incandescente, quando si chiamava Publio Lentulo Sura.

28.           I suoi pensieri erano come attraversati da una corrente di idee nuove e sublimi, come se fossero innovatrici ispirazioni di sapienza divina. Tuttavia, dopo alcuni istanti, come se l’orologio dell’immaginazione si fosse fermato per alcuni minuti affinché il cuore potesse ascoltare il tumulto dei ricordi nel deserto del suo mondo soggettivo, confortato, mormorò nel possesso tardivo dell’itinerario del suo amaro destino: «Oggi, figlia mia, credo che se le sagge energie del Cielo avevano deciso la tua morte quando eri piccolina - determinazione questa che io probabilmente ho allontanato con la mia supplica angosciosa di padre, e che silenziosamente fu scoperta dal Messia di Nazareth nel profondo del mio orgoglioso e infelice cuore - è perché avresti dovuto essere libera dal carcere in cui eri stata catturata, in modo da prepararti meglio alla rassegnazione, alla fortezza e alle sofferenze. Certamente saresti rinata più tardi e avresti incontrato le stesse circostanze e gli stessi nemici, ma avresti avuto un organismo più forte per resistere alle lotte penose dell’esistenza terrena.

29.           Oggi, pertanto, riconosciamo che esiste una legge sovrana e misericordiosa a cui dobbiamo obbedire senza interferire nel suo meccanismo fatto di misericordia e di sapienza... Quanto a me, che ho avuto un organismo resistente e una fibra spirituale satura di energia, sento che in altre vite agii male e commisi delitti nefandi. La mia attuale esistenza dovrebbe essere un interminabile sequela di amarezze infinite, ma vedo in ritardo che, se mi fossi incamminato sulla strada del bene, avrei riscattato una montagna di peccati del mio passato buio e delittuoso. Ora capisco la lezione del Cristo come insegnamento immortale dell’umiltà e dell’amore, della carità e del perdono, cammini sicuri per tutte le conquiste dello spirito, lontano dai circoli tenebrosi della sofferenza».

30.           E ricordando il sogno che aveva riferito a Flaminio nei tempi passati, il senatore concluse: «Nel mondo l’espiazione non sarebbe necessaria per il per­fezionamento dell’anima, se comprendessimo il bene, praticandolo con atti, parole e pensieri. Se è vero che nacqui condannato al supplizio della cecità, in tante tragiche circostanze avrei forse evitato il verificarsi di questo sacrificio, se avessi abbandonato il mio orgoglio per essere un uomo umile e buono. Un gesto di generosità da parte mia avrebbe modificato le più nascoste intenzioni di Andrea di Giora; ma la realtà è che, nonostante tutti i preziosi avvertimenti provenienti dall’Alto, io continuai con il mio egoismo, con il mio orgoglio e con la mia criminosa pervicacia. In questo modo aggravai i miei clamorosi debiti davanti alla Giustizia divina, e non posso aspettarmi magnanimità dai giudici che mi attendono».

31.           Il vecchio Publio Lentulo ebbe una lacrima dolorosa all’angolo degli occhi spenti, ma Anna, che con ansietà aveva ascoltato le sue parole e seguiva i suoi concetti, intimamente gioiva nel constatare che l’orgoglioso signore era giunto alle più giuste conclusioni di natura evangelica, conclusioni a cui anche lei era arrivata nelle sue meditazioni della vecchiaia, come se le sue semplici e incisive affermazioni arrivassero nel momento giusto per la consolazione di tutti, spiegò con bontà: «Senatore, tutte le vostre osservazioni sono giuste e sagge. Questa legge delle vite multiple a favore della nostra formazione nelle penose lotte del mondo, io l’accetto pienamente, poiché nelle Sue divine lezioni, Gesù affermò che nessuno potrà entrare nel regno dei Cieli senza rinascere di nuovo. Credo, tuttavia, nonostante la vostra cecità fisica e le vostre sofferenze, di cui riesco a comprendere tutta l’angosciosa intensità, che voi dobbiate avere l’anima piena di fede e di speranza nel futuro spirituale, perché anche il Cristo ci assicurò che il Padre nostro vuole che non si smarrisca nemmeno una delle sue pecorelle!»

32.           Publio Lentulo sentì che una forza inspiegabile gli sgorgava dal profondo dell’anima, come se fosse una sorgente sconosciuta di straordinario conforto, che lo preparava ad affrontare degnamente tutte le amarezze, e mormorò appena: «Sì, sempre Gesù! ... Sempre Gesù! ... Senza di Lui e senza i Suoi insegnamenti che ci riempiono di coraggio e di fede per raggiungere il regno di pace nel futuro dell’anima, non so bene che ne sarebbe delle creature umane, incatenate nel carcere delle sofferenze terrene... Sette anni di soffe­renze infinite nella solitudine dei miei occhi spenti mi sembrano sette secoli di crudele e doloroso apprendistato. Solo così, però, sarei potuto arrivare a capire la lezione del Crocifisso!»

33.           Il vecchio patrizio, tuttavia, nel dire la parola “crocifisso”, riandò con la mente a Gerusalemme, nella Pasqua dell’anno 33. Ricordò che ebbe nelle sue mani il processo dell’Emissario divino e, solo allora, considerò la tremenda responsabilità in cui si era visto coinvolto egli stesso quel giorno indimenticabile e doloroso, ed esclamò dopo una lunga pausa: «E pensare che, per uno Spirito come quello, da parte nostra non ci fu nemmeno un gesto decisivo di difesa, nell’angoscioso momento della croce infamante! ... A me, che ora vivo solamente dei miei amari ricordi, sembra ancora di vederLo da­vanti ai miei occhi con gli sciagurati segni della flagellazione! ...

34.           In Lui si concentrava tutto l’Amore supremo del Cielo per la redenzione delle miserie della Terra, mentre non ho visto nessuno lavorare per la Sua libertà o …agire effettivamente in Suo favore!»

35.           «Meno qualcuno...» esclamò Anna, improvvisamente.

36.           «Chi giunse a compiere questo nobile gesto?» domandò il vecchio cieco, meravigliato. «Non mi risulta che qualcuno Lo abbia difeso».

37.           «È perché, fino a oggi, voi avete ignorato che la vostra nobile consorte e mia indimenticabile benefattrice, ascoltando le nostre preghiere, si diresse immediatamente da Ponzio Pilato non appena il triste corteo uscì dal cortile del palazzo del Governatore, per intercedere a favore del Messia di Nazareth, ingiustamente condannato dalla moltitudine inferocita. Ricevuta dal governatore nel suo studio personale, invano la nobile signora implorò compassione e pietà per il divin Maestro».

38.           «Allora …Livia arrivò al punto di rivolgersi a Pilato per implorarlo per Gesù?» domandò il senatore interessato e confuso, ricordando quel drammatico pomeriggio della sua vita e ricordando le calunnie di Fulvia nei confronti della moglie.

39.           «Sì» rispose la serva, «per Gesù, il suo cuore generoso disprezzò tutte le convenzioni e tutti i preconcetti, non esitando ad accogliere le nostre suppliche e facendo di tutto per salvare il Messia da quella morte infamante!»

40.           Publio Lentulo avvertì, allora, una grande difficoltà ad esprimere i suoi pensieri, la gola soffocata dalla commozione, immerso nei suoi tristi ricordi e gli occhi spenti, pieni di lacrime.

41.           Anna, invece, ricordò tutti i particolari di quel giorno doloroso, raccontando le sue passate emozioni, mentre il senatore e la figlia ascoltavano le sue parole, dominati dal pianto lungo il cammino del dolore, della gratitudine e della nostalgia.

42.           E fu in questo modo che, al termine di ogni giorno, sotto il cielo brillante e profumato di Pompei, quelle tre anime si preparavano alla realtà consolatrice della morte, dentro la luce tenera e triste delle amare lezioni del destino, sulla scia dei cari ricordi.

 

 

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Cap. XX

GLI ULTIMI ISTANTI DI POMPEI

1.                In una radiosa mattina dell’anno 79, tutta la città di Pompei si svegliò tra festosi rumori. La città aveva ricevuto la visita di un illustre questore dell’Impero, e quel giorno tutte le vie erano agitate da una chiassosa alacrità, in attesa delle feste meravigliose dell’anfiteatro, con cui, di lì a poco, l’amministrazione desiderava celebrare l’evento in mezzo all’allegria generale.

2.                Per il vecchio senatore Publio Lentulo, l’avvenimento si rivestiva di un’importanza speciale, poiché l’illustre ospite di Pompei gli portava un significativo messaggio e altre onorevoli attenzioni da parte di Tito Flavio Vespasiano, allora imperatore, nella successione a suo padre. E ancora di più: – Al seguito dell’illustre questore veniva anche Plinio Severo, nel pieno della sua maturità, completamente rigenerato e giudicandosi ora riabilitato nell’opinione della moglie e di colui che il suo cuore considerava come un padre.

3.                Quel giorno, mentre Anna dirigeva le attività domestiche per i preparativi del ricevimento, mobilitando schiavi e molti servi, Publio e la figlia si abbracciavano commossi di fronte alla sorpresa che il destino aveva riservato loro seppur tardivamente. Avvisati da messaggeri dell’illustre carovana di patrizi, davano libero sfogo alle più tenere emozioni dello spirito, nella dolce prospettiva di accogliere il figliol prodigo, da tanti anni lontano dalle loro amorevoli braccia.

4.                Prima di mezzogiorno, una meraviglia di carri, di cavalli bardati e di gioielli sfavillanti sulle vesti rilucenti si fermò davanti alla villa tranquilla e graziosa, destando l’ammirazione e la curiosità dei vicini. E, subito dopo, fu un turbinio di abbracci, di carezze, di parole confortanti e generose. Quasi tutti quei patrizi, in gita per la Campania, conoscevano il senatore e la sua famiglia, cosicché questo avvenimento rappresentava un soave incontro di cuori.

5.                Publio Lentulo abbracciò Plinio a lungo come se si trattasse di un figlio molto amato che tornasse da lontano, e la cui assenza fosse stata eccessivamente prolungata. Provava nel suo intimo, eccessi di commozione che il suo cuore dominò, per non provocare un’ingiustificata meraviglia nei presenti.

6.                «Padre mio, padre mio!» disse il figlio di Flaminio in tono sommesso e quasi impercettibile alle sue orecchie, mentre gli baciava la testa bianca. «Già mi avete perdonato?»

7.                «O figlio, …com’è che hai tardato tanto? Ti voglio bene come sempre, …e che il cielo ti benedica!», rispose il vecchio cieco commosso.

8.                Dopo pochi istanti, dopo il dolce incontro tra Plinio e sua moglie, il questore esclamò in mezzo al silenzio generale: «Senatore, mi onoro di portarvi un prezioso ricordo di Cesare, accompagnato da un messaggio di riconoscimento dell’alta amministrazione politica dell’Impero, uno dei più forti e giusti motivi della mia visita a Pompei; e incarico il nostro amico Plinio Severo di consegnarvi ora queste reliquie, che rappresentano uno dei più significativi omaggi imperiali all’impegno di uno dei suoi più devoti servitori! ...»

9.                Publio Lentulo ebbe piena coscienza della suprema emozione di quell’ora. L’omaggio dell’imperatore, l’affettuosa presenza degli amici e il ritorno del genero tra le sue braccia paterne rappresentavano per il suo cuore una gioia stordente. Ma i suoi occhi non potevano vedere nulla! Dal profondo della sua notte ascoltò quelle parole generose come uno privato della luce, del quale si esumavano i ricordi più cari e più dolci.

10.           «Amici», disse asciugandosi una lacrima furtiva dagli occhi spenti, «tutto questo è per me la maggior ricompensa di una vita intera. Il nostro imperatore è uno spirito eccessivamente generoso, poiché la verità è che nulla feci per meritare il riconoscimento della patria. La mia anima, tuttavia, esulta con voi, miei patrizi, perché la nostra riunione in questa casa è simbolo di unione e lavoro, …nelle alte cariche dell’Impero!»

11.           In quel momento, tuttavia, qualcuno gli prese le mani scarne, portandole alle labbra umide, lasciando nelle piccole cavità delle rughe, due lacrime ardenti.

12.           Plinio Severo, in un gesto spontaneo, si era inginocchiato e, baciandogli le mani, dava libero corso al suo affetto e alla sua gratitudine, nel momento stesso in cui gli consegnava il messaggio imperiale che il vecchio senatore non poteva più leggere.

13.           Publio Lentulo pianse senza riuscire a pronunciare una sola parola; tale era l’emozione che lo sopraffaceva intimamente, mentre i presenti seguivano i suoi gesti con gli occhi bagnati di pianto.

14.           In quel frattempo, il figlio di Flaminio non si trattenne più e, consacrando la sua rigenerazione spirituale, esclamò commosso: «Mio caro padre, non piangete, poiché noi tutti siamo qui per condividere la vostra gioia! ... Davanti a tutti i nostri amici romani, con l’omaggio dell’Impero, io vi consegno il mio cuore rigenerato per sempre! ... Se ora siete cieco, padre mio, non lo siete nello spirito, che sempre cercò di dissipare le ombre e rimuovere le difficoltà dal nostro cammino! Continuerete guidando i miei o, meglio, i nostri passi, con le vostre antiche tradizioni di sincerità e di impegno, verso la rettitudine dell’agire! Tornerete con me a Roma e, con accanto il vostro figliolo riabi­litato, darete nuovamente vita al palazzo sull’Aventino. Così, per sempre, sarò una sentinella del vostro spirito, per amarvi e proteggervi! ... Prenderò la mia sposa sotto la mia totale responsabilità e, giorno per giorno, tratterò la nostra vita con attenzioni nuove e indescrivibili, con il miracolo del mio affetto im­perituro. Nella nostra casa sull’Aventino nascerà una gioia nuova, perché dovrò organizzare tutte le vostre ore con l’amore grande e santo di chi, conoscendo tutte le dure esperienze della vita, sa ora valorizzare i suoi tesori!»

15.           Il vecchio senatore, piegato dagli anni e dalle più dure sofferenze, se ne stava in piedi, accarezzando i capelli del genero, anch’essi inargentati dagli inverni della vita, mentre lente lacrime rompevano il muro della sua notte intenerendo il cuore di tutti, in un’angosciosa e indefinibile commozione. Flavia Lentulo piangeva, anch’ella dominata da intime sensazioni di felicità, …dopo tante lunghe e scoraggianti speranze. Alcuni amici desiderarono interrompere la solennità dolorosa di quel quadro imprevisto, ma il questore stesso che guidava la carovana di illustri patrizi, si era ritirato in un angolo, commosso fino alle lacrime.

16.           Publio Lentulo, nonostante tutto, comprendendo che solo lui avrebbe potuto modificare la composizione di quel panorama sentimentale, reagì alle emozioni, esclamando: «Alzati, figlio mio! Non ho fatto nulla perché tu debba ringraziarmi in ginocchio... Perché mi parli in questo modo? Torneremo a Roma, sì, tra pochi giorni, perché tutti i tuoi desideri sono i nostri... Torneremo nella nostra casa sull’Aventino dove, insieme, vivremo per ricordare il passato e venerare la memoria dei nostri antenati!»

17.           E dopo una pausa, continuò, esclamando quasi ottimista: «Amici miei, mi sento commosso e grato per la gentilezza e l’affetto di tutti voi! Ma che cos’è questo? Tutti in silenzio? Ricordatevi che non vi vedo, se non attraverso le parole. E la festa di oggi?»

18.           Le esclamazioni del senatore ruppero il silenzio generale, tornando tutti agli intensi rumori di pochi minuti prima. Il torrente delle parole si unì al tintinnare delle coppe di vino, nei loro pesanti stili dell’epoca. Mentre gli ospiti si riunivano nello spazioso triclinio per un pasto leggero, Plinio Severo e la sposa si scambiarono tenere confidenze, ora sui progetti futuri per gli anni che ancora restavano loro al mondo, ora sui ricordi dei giorni lenti e tristi del lontano passato.

19.           Insistenti richiami, però, reclamarono la presenza del questore e della comitiva nel locale dei festeggiamenti. Il circo era stato preparato con tutte le regole, e non si era tralasciata nessuna opportunità per la realizzazione dei dettagli, anche i più insignificanti, delle grandi festività romane.

20.           E mentre tutti si accomiatavano dal senatore e da sua figlia in un’affascinante felicità mondana, Plinio Severo si rivolse a Publio con queste parole, dopo aver teneramente abbracciato la compagna: «Padre mio, obbligato dalle circostanze, sono costretto ad accompagnare il questore nelle feste popolari, ma sarò di ritorno fra poche ore per rimanere con voi un mese, in modo che si possa organizzare il nostro ritorno a Roma».

21.           «Molto bene, figlio mio», rispose il vecchio senatore, sommamente confortato. «Accompagna i nostri amici e rappresentami accanto alle autorità. Di’ a tutti della mia commozione e del mio ringraziamento sincero».

22.           Nuovamente solo, il senatore sentì che quelle emozioni liete e affettuose sarebbero state forse le ultime della sua vita. Nel vecchio petto il cuore gli batteva all’impazzata, come se una pesante nube di tristi pensieri lo avvolgesse. Sì, il ritorno di Plinio tra le sue braccia paterne era la massima gioia della sua vecchiaia solitaria. Sapeva ora che la figlia avrebbe potuto contare sul marito, attraverso le strade del suo tormentato destino, e che a lui, Publio, non restava altro che aspettare la morte, rassegnato. Tuttavia, meditando sulle parole affettuose del figlio di Flaminio e sui suoi riferimenti al lontano passato, Publio Lentulo considerò, intimamente, che era molto tardi per ritornare sull’Aventino e che il ritorno a Roma doveva solo significare, per il suo dannato spirito, il simbolo della sepoltura.

23.           Invece, nel pieno dello spettacolo, Plinio Severo, già nell’autunno della propria vita, progettava i piani del suo futuro. Avrebbe cercato di riscattare tutti gli antichi errori davanti ai suoi cari e affettuosi parenti; si sarebbe assunto la direzione di tutti gli affari del vecchio padre in termini affettivi, alleggerendolo di tutte le angosciose preoccupazioni della vita materiale.

24.           Di quando in quando gli applausi della moltitudine interrompevano le sue fantasie. La maggior parte della popolazione di Pompei era là nel pieno della festa, a rendere omaggio ai trionfatori. Gente dei dintorni e in particolare di Ercolano era accorsa in tutta fretta al divertimento prediletto in quell’epoca remota. Insieme agli atleti e ai gladiatori, c’erano i musici, i cantori e i ballerini. Era tutto un fruscio di sete, un delizioso risuonare di allegria rumorosa, al suono di flauti e di liuti.

25.           A un certo momento, però, l’attenzione generale fu attratta da un fatto strano ed incomprensibile. Dalla cima del Vesuvio si levò una gigantesca piramide di fumo, senza che nessuno scoprisse la causa dell’insolito fenomeno. I giochi continuarono animati, ma ora, in mezzo alla colonna di fumo che si innalzava in capricciose spirali verso l’alto, sorgevano impressionanti fiammate...

26.           Plinio Severo, come tutti i presenti, era sorpreso del fenomeno strano e inesplicabile. Ma in pochi minuti, intanto, ebbe inizio nell’anfiteatro la confu­sione e il terrore. In mezzo al turbamento generale e improvviso, il figlio di Flaminio ebbe ancora il tempo di avvicinarsi al questore, in quel momento circondato dai suoi familiari che abitavano nella città, il quale gli parlò con ottimismo, sebbene non riuscisse a dissimulare del tutto le sue intime inquietudini: «Amico mio, manteniamo la calma! Per la barba di Giove! ... Allora, dove andranno a finire il nostro coraggio e la nostra tempra?»

27.           Ma, dopo pochi istanti, la terra tremò sotto i loro piedi, con vibrazioni sconosciute e paurose. Alcune colonne franarono al suolo pesantemente, mentre numerose statue rotolarono dalle nicchie improvvisate, ornate con oro e pietre preziose.

28.           Abbracciandosi, quindi, alla figlia e circondato da numerose signore, il questore disse a voce alta, preoccupato: «Plinio, corriamo alle galee! Senza indugio!...»

29.           Ma l’ufficiale romano non udì più i richiami. Affannosamente si era lanciato disperato per aprirsi un varco tra la folla che correva all’impazzata per uscire in massa dal circo, calpestando e schiacciando i bambini e le persone più anziane.

30.           Finalmente, con un sforzo sovrumano, riuscì a raggiungere la strada, ma tutte le vie erano intasate da gente in fuga che usciva di casa, terrorizzata, gridando: «Al fuoco! ... Al fuoco! ... Il Vesuvio! ...»

31.           Plinio capì subito che tutte le vie pubbliche traboccavano di gente disperata, di carri e di animali impauriti. Con enorme difficoltà, superò tutti gli ostacoli; ma il Vesuvio lanciò ora, verso il cielo, fiammate indescrivibili e im­mense, come se la Terra stessa si fosse incendiata nelle sue viscere più profonde. Una pioggia di cenere, sul principio quasi impercettibile, cominciò a cadere, mentre il suolo continuava a tremare con suoni sordi e terrificanti. Di quando in quando si udiva il fracasso pauroso di colonne che si abbattevano al suolo o di edifici che venivano demoliti dalle scosse sismiche, nel momento stesso in cui il fumo del vulcano andava oscurando la consolatrice luce solare.

32.           Immersa in una spessa ombra e presa da un terrore indicibile, Pompei assisteva ai suoi ultimi istanti, in un’afflizione disperata...

33.           Nella villa dei Lentulo, gli schiavi capirono subito il pericolo imminente. Nei primi momenti i cavalli nitrirono stranamente e gli uccelli inquieti fuggirono disperati. Dopo la caduta delle prime colonne che sostenevano l’edificio, tutti i servi del senatore abbandonarono precipitosamente i loro posti, desiderosi d’altronde di conservare il bene prezioso della vita. Solamente Anna rimase accanto ai padroni, tenendoli al corrente degli orrori dell’ambiente.

34.           I tre, in una ben comprensibile inquietudine, ascoltavano il rumore orribile dell’indimenticabile catastrofe dell’Impero. La villa era già per metà distrutta, le ceneri penetravano attraverso gli squarci aperti dalla caduta del tetto, ed ebbe inizio la lenta azione del soffocamento. Erano tutti in ansia, aspettando da un momento all’altro il ritorno di Plinio, per decidere i primi provvedimenti da adottare, ma il vecchio senatore, il cui cuore non si illudeva nei suoi amari presentimenti, esclamò in tono quasi rassegnato: «Anna, porta qui la croce di Simeone e preghiamo come ti fu insegnato dai discepoli del Messia. Il cuore mi dice che è giunto il termine del nostro passaggio sulla Terra!»

35.           Mentre la serva correva a prendere la reliquia del vecchio di Samaria, affrontando il pericolo delle pareti che oscillavano, Publio Lentulo udì il sordo boato della terra sventrata e le grida terrorizzate e sinistre della gente, mescolati al fragore tremendo del vulcano che, trasformato in un immenso e indescrivibile forno, riempiva tutta la città di cenere e lava incandescente. Il senatore si ricordò allora delle parole del Cristo nei giorni trascorsi in Galilea, quando gli disse che tutta la grandezza romana era ben miserabile cosa, e che in un brevissimo istante l’Impero avrebbe potuto esser ridotto a una manciata di polvere.

36.           Il cuore gli batteva senza controllo in quel momento estremo, ma la vecchia serva era tornata e si era inginocchiata serena, stringendo tra le mani il ricordo di Simeone e di Livia, pregando con voce commossa e profonda: «Padre nostro, che siete nei Cieli... santificato sia il Vostro nome... venga a noi il Vostro regno... sia fatta la Vostra volontà... così in Terra come in Cielo...».

37.           In quel momento, però, la voce della serva tacque improvvisamente, mentre il suo corpo cadeva sotto nuovi calcinacci, ed ella si sentì spiritualmente protetta dal venerabile samaritano che la condusse alle più elevate sfere spirituali immediatamente; tale era la natura del suo cuore reso luminoso dal dolore e dalle prove angosciose dell’apprendistato terreno.

38.           «Anna!... Anna!...», esclamarono Publio e Flavia, mentre piangevano, sentendo tutti e due, per la prima volta, la disgrazia dell’isolamento assoluto, senza una luce e senza una guida, nel più completo abbandono!

39.           Qualcuno, comunque, superò tutte le macerie e arrivò veloce fino in quella camera interna, e abbracciando Publio e sua figlia, gridò con voce disperata: «Flavia…, padre mio…, sono qui!»

40.           Plinio, infine, era arrivato per il momento estremo. Flavia Lentulo lo strinse affettuosamente tra le sue braccia, mentre il vecchio senatore semi asfissiato prendeva le mani del figlio, e i tre si strinsero in un ultimo abbraccio.

41.           Flavia e Plinio tentarono di dire qualcosa, ma uno spesso strato di ceneri penetrò all’interno, attraverso gli squarci enormi della villa mezzo distrutta... Ancora una scossa del suolo e le colonne, che ancora restavano in piedi, si abbatterono sui tre, rubando loro le ultime energie e facendoli cadere così, abbracciati per sempre, sotto una montagna di macerie...

42.           In quell’oscurità fitta, tuttavia, si libravano creature alate e leggere, o in atteggiamento di preghiera o confortando alacremente il cuore afflitto dei miseri condannati alla rovina.

43.           Sui tre corpi sotterrati dalle macerie permaneva l’entità radiosa di Livia, insieme a numerosi compagni che con lei collaboravano con devozione e precisione, nei servizi di liberazione completa dei moribondi.

44.           Posando le mani luminose e pure sulla fronte triste del compagno esausto e agonizzante, Livia alzò gli occhi al firmamento offuscato e pregò con la soavità della sua fede e dei suoi sentimenti diamantini: «Gesù, amico e Maestro divino, quest’ora angosciosa è certamente un simbolo dei nostri errori e delitti, attraverso tenebrose trasformazioni; ma voi, Signore, siete tutta la speranza, tutta la sapienza e tutta la misericordia! Benedite i nostri spiriti in questo momento difficile e doloroso! Alleviate i tormenti dell’anima gemella della mia, concedendogli in questo istante l’autorizzazione alla libertà! Alleviate, magnanimo Salvatore del mondo, tutti i suoi pungenti dolori e le sue sconsolate amarezze! Concedete riposo al suo cuore angustiato e sofferente, prima del suo nuovo ritorno alla trama oscura delle reincarnazioni nel pianeta dell’esilio e delle lacrime dolorose. Egli già non è più, o Signore, l’orgoglioso despota di un tempo, ma un cuore incline al bene e alla pietà predicati dalla vostra dottrina di amore e redenzione; sotto il peso delle amare prove di remissione, le sue inclinazioni si sono spiritualizzate verso il cammino della Vostra Verità e della Vostra Vita!»

45.           E mentre Livia pregava, il senatore abbracciato ai figli, già cadaveri, emise l’ultimo gemito, con una lenta lacrima che gli brillava negli occhi spenti...

*

46.           Numerose legioni di esseri spirituali sorvolarono per vari giorni i cieli caliginosi e tristi di Pompei.

47.           Dopo lunghi turbamenti, Publio Lentulo e i figli si svegliarono, proprio lì, sul tumulo coperto di nebbia della città morta. Invano il senatore invocò la presenza di Anna o di qualche altro servo, nella penosa illusione della vita materiale, persistendo nel suo organismo psichico le impressioni della cecità materiale che aveva rappresentato il lungo supplizio dei suoi ultimi anni nelle vesti della carne.

48.           Tuttavia, dopo i primi lamenti, sentì una voce che gli diceva sommessamente: «Publio, amico mio, non ricorrere più ai metodi del pianeta terreno, perché tutti i tuoi poteri sono finiti con le tue spoglie sulla faccia oscura e triste della Terra! Appellati a Dio Onnipotente, la cui misericordia e sapienza ci sono state date grazie all’amore del suo Agnello che è Gesù Cristo!»

49.           Publio Lentulo non riuscì a identificare l’interlocutore, ma riconobbe la voce di Flaminio Severo, sfogandosi pertanto in un torrente di preghiere e di calde lacrime. Nonostante le costanti attenzioni di Livia, già da alcuni giorni il suo spirito era dominato da incubi nei primi istanti della vita nell’aldilà, pur assistito continuamente da Flaminio e da altri fedeli compagni che lo seguivano nel piano spirituale.

50.           Tuttavia, dopo quelle suppliche sincere che gli fluirono dal più profondo del cuore, sentì che il suo mondo interiore si rasserenava... Insieme ai cari figli riacquistò la vista e, con amorevoli e gratificanti lacrime all’entrata nell’aldilà, riconobbe le persone care. Là incontrò numerosi personaggi di questa storia, come Flaminio, Calpurnia, Agrippa, Pompilio Crasso, Emiliano Lucio e molti altri; ma invano gli occhi angosciati dell’ex-senatore cercarono una persona nell’affettuosa e fraterna riunione.

51.           Dopo tutte le effusioni di affetto e gioia, Flaminio gli rivolse di proposito la parola: «Ti meravigli dell’assenza di Livia» egli disse con il suo sguardo compiacente e generoso, «ma non potrai vederla finché non riuscirai a spogliarti, con la preghiera e i buoni propositi, di tutte le impressioni penose e nocive della Terra. Lei si è sempre mantenuta vicino al tuo cuore, con fervide e sincere preghiere per il tuo risollevamento, ma il nostro gruppo è ancora costituito da spiriti molto legati al mondo, ed aspettavamo il ritorno dei suoi ultimi componenti ancora sulla Terra, per potere, tutti insieme, imprimere una nuova rotazione alle reincarnazioni future... Secoli di lavoro e di dolore ci aspettano nel programma della redenzione e del perfezionamento, ma abbiamo bisogno, prima di tutto, della forza necessaria in Gesù, fonte di tutto l’amore e di tutta la fede, …per le elevate realizzazioni del nostro pensiero».

52.           Publio Lentulo pianse, preso da emozioni strane e indefinibili.

53.           «Amico mio», continuò Flaminio amorevolmente, «chiedi a Gesù, per tutti noi, la misericordia della luce di un nuovo giorno...»

54.           Publio allora s’inginocchiò e, bagnato di lacrime, concentrò il suo cuore in Gesù, in una supplica ardente e silenziosa. Lì, nell’intimità della sua anima coraggiosa e sincera, presentò all’Agnello di Dio il suo pentimento, le sue speranze per il futuro, le sue promesse di fede e di lavoro per i secoli a venire...

55.           Tutti i presenti accompagnarono la sua orazione, dominati dal pianto e immersi in vibrazioni di ineffabile consolazione...

56.           Videro, allora, aprirsi un cammino luminoso e fiorito nei cieli oscuri e tristi della Campania e, da lì, come se scendessero dai giardini splendenti del paradiso, apparvero Livia e Anna abbracciate, come se anche lì Gesù inviasse un insegnamento simbolico a quelle anime prigioniere della Terra, in modo da rivelare loro che, in qualunque posizione, l’anima incarnata può cercare il suo regno di luce e di pace, di vita e di amore, sia nell’umile tunica dello schiavo, sia nelle lussuose vesti dei signori.

57.           Il vecchio patrizio contemplò la figura radiosa della compagna e, estasiato, chiuse gli occhi bagnati nel pianto del pentimento e del rimorso; ma ad un tratto, due labbra di nebbia gli si posarono sulla fronte, come lo sfiorare lieve di un giglio divino. E mentre il suo cuore meravigliato si lavava nelle lacrime della gioia e della riconoscenza verso Gesù, tutta la compagnia, sotto il forte impulso delle fervide preghiere di quelle due anime redente, si innalzò verso le sfere più alte, per il riposo e l’apprendistato, prima delle nuove tappe di rigenerazione e di lavori purificatori, come un gruppo meraviglioso di luminose farfalle dell’Infinito! ...

 

 

- Fine -

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[1] Quartiere dell’antica Roma, che si stendeva sopra una palude.

[2] Liberto: nell’antica Roma, uno schiavo affrancato dalla schiavitù, ma fornito di una capacità giuridica limitata rispetto al nato libero.

[3] Catilina: (108 - 62 a.C.) uomo politico romano; ordì una congiura in Roma, per la conquista del potere, sventata da Cicerone (63 a. C.), che pronunciò contro di lui quattro orazioni, dette Catilinarie; dopo aver raccolto un esercito in Etruria, cadde combattendo presso Pistoia.

[4] Triremi: una piccola nave (Galea) con tre livelli di rematori.

[5] Littore: nome dato dagli antichi romani a ciascuno dei pubblici ufficiali che, portando il fascio littorio, accompagnavano i consoli ed altri magistrati pubblici.

[6] La traduzione della lirica è di Mirella Abriani.

[7] Di una lettera accreditata a Publio Lentulo ne viene fatta notizia nel libro “Cristo e la Bibbia” al cap. 6 e 7, nel quale furono raccolte comunicazioni spirituali a Franz Schumi nel 1905. (n.d.r.)

[8] S’intende Giuda Iscariota.

[9] Mille sesterzi.

[10] Presso gli antichi romani, le anime dei defunti, divinizzate e considerate protettrici della casa, erano chiamate Mani (n.d.t.).

[11] Agrippina Minore: (14-59) figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, moglie dell’imperatore Claudio, cui fece adottare Nerone da lei avuto dal primo marito Domizio Enobarbo. Fu fatta uccidere dal figlio, divenuto imperatore.

[12] Britannnico Tiberio Claudio Cesare: (41-55), figlio dell’imperatore Claudio e di Messalina; fu escluso dal trono per opera di Agrippina, madre di Nerone, che lo fece avvelenare.

[13] La traduzione della lirica è di Mirella Abriani.

[14] Mercato dei legumi. (Nota di Emmanuel)

[15] La maggior parte degli storici dell’Impero Romano fa risalire le prime persecuzioni nei confronti del Cristianesimo soltanto all’anno 64; mentre fin dall’anno 58 alcuni dei favoriti di Nerone avevano iniziato il criminale movimento, con la scusa che i cristiani di quel periodo, prima del grande incendio della città, erano trascinati ai sacrifici, in qualità di poverissimi schiavi per il divertimento del popolo. (Nota di Emmanuel)

[16] Seneca Lucio Anneo: (4-65) filosofo e scrittore latino, fu maestro di Nerone e diresse la politica imperiale, ma ben presto fu costretto ad appartarsi e, coinvolto nella congiura pisoniana (da Pisone che capeggiò una congiura contro Nerone), si diede la morte.

[17] Edile: magistrato romano che sovrintendeva agli edifici pubblici, alle strade, ai mercati, all’igiene, e agli spettacoli pubblici.

[18] Galba Servio Sulpicio: (4-69) imperatore romano, eletto dopo la morte di Nerone; fu ucciso nel conflitto con Otone che gli successe.

[19] Vitellio Aulo: (15-69) imperatore romano; eletto dalle legioni della Germania dopo la morte di Nerone, vinse Otone e fu a sua volta vinto da Vespasiano.

[20] Flavi, famiglia gentilizia romana, assurta alla dignità imperiale con Vespasiano e i suoi due figli Tito e Domiziano.

[21] Vespasiano si stabilì a Roma subito dopo la sua proclamazione. (Nota di Emmanuel)